A metà degli anni ’80 andai a Vergara (città della regione basca di Guipúzcoa che oggi si chiama ufficialmente Bergara). Volevo vedere come era fatta la città da cui il mio cognome prende il nome. Era una domenica di agosto. Quasi tutti i negozi erano chiusi, ma in una polverosa tabaccheria del centro trovai delle vecchie cartoline dell’epoca franchista, quando ancora i baschi non avevano rivendicato la vecchia grafia di epoca anteriore alla conquista castigliana.
La cosa curiosa è che queste cartoline erano state stampate in una tipografia denominata “San Cayetano”. Così, ne mandai tante in giro senza testo, solo aggiungendo destinatari e francobollo e sottolineando “Vergara” e “Cayetano”.
Peccato che fossero piuttosto brutte quelle cartoline vergariane.
Più carina quest’altra cartolina scovata nello stesso cassetto dei ricordi.
Viene dal Museo del Joguet de Catalunya (Figueres). Mi fu regalata perché il mago pagliaccio mi somigliava. E mi somigliava talmente tanto che mia figlia quando la vide qualche anno anno fa (nel tempo in cui ancora non avevo la barba bianca di Papá Noel) sbottò: “Papà, ma questo sei tu quando facevi il mago?”. È il caso di aggiungere che in spagnolo bobo vuol dire stupido, sciocco. Stessa origine di babbo e di babbeo. Va be’…
Continuando a scavare tra i ricordi trovo altre cartoline, tutte senza testo e senza francobollo. Cartoline mai spedite che ho comprato, sgraffignato o ricevuto in regalo. Dal Messico, da Parigi, da Madrid, da Edimburgo, da Praga, da Coimbra, da Lisbona, da Amburgo… Mi rivedo tra quelle strade. Sempre uguale e sempre diverso. Qualche volta del tutto estraneo. Come se non fossi io. Come se stessi ricordando i ricordi di un altro.
Poi mi viene tra le mani una cartolina tedesca con un verso del cantautore amburghese Wolf Biermann:
Nur wer sich ändert bleibt sich treu.
Solo chi cambia rimane fedele a se stesso.
E mi sento per un attimo felice delle tante vite che ho vissuto.
Di Padre Mario Vergara, di mio nonno e di altri parenti vicini e lontani
Ieri, al trigesimo di zio Gigino, primo fratello di mio padre, ho fatto questa foto in una cappella laterale della Chiesa di San Sossio.
Rappresenta i beati Mario Vergara e Isidoro Ngei Ko Lat, considerati martiri dalla chiesa cattolica per essere stati trucidati in Birmania nei pressi del fiume Saluen nel 1950. La città di Frattamaggiore ha dedicato a Padre Mario Vergara la sua strada più lunga e una statua all’imbocco dell’asse mediano che collega la cittadina a Napoli, Caserta e zone limitrofe; mentre la mia famiglia si onora di avere in lui un quasi santo in paradiso.
Mario Vergara, nato a Frattamaggiore nel 1910, era cugino di mio nonno Carmine ed era molto legato a lui ed alla sua famiglia (cui, peraltro, chiedeva continuamente contributi finanziari per le sue missioni, visto anche che, da quanto ho capito, i suoi fratelli erano poco propensi a fargli sperperare la sua quota di eredità in illusioni missionarie e lotte contro tradizioni pagane e mulini a vento orientali).
La mamma di Mario, Maria Antonietta Guerra, aveva messo al mondo nove figli (di cui lui era il penultimo) e conduceva personalmente il canapificio di famiglia di cui era titolare il marito Gennaro Vergara, fratello maggiore del mio bisnonno Luigi (1880-1930). Ma, a quanto pare, né don Gennaro né don Luigi si occupavano personalmente della gestione delle loro imprese di trasformazione della canapa. Le donne a quei tempi lavoravano e come. Spesso erano nelle loro mani le redini della famiglia, mentre gli uomini (beati loro) inseguivano le cose della carne o dello spirito. Era lo stesso anche per la mia bisnonna, zia di Mario, di cui ho parlato più diffusamente qui.
Ma torniamo a Mario ed alla sua storia. La leggenda aurea narra che a soli 11 anni entrò nel seminario vescovile di Aversa, a 17 anni cominciò a frequentare il seminario regionale dei padri Gesuiti di Posillipo e a 23 fu ammesso al Noviziato del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere).
L’anno seguente, nel 1934, dopo un periodo di formazione a Genova, partì in missione per la Birmania che, all’epoca, era una colonia inglese e non si chiamava ancora Myanmar. Qui si occupò di evangelizzare decine di villaggi, occupandosi anche della povertà materiale di quelle terre e creando sanatori e orfanotrofi. Nel ’41, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, gli inglesi lo fecero internare in un campo di concentramento e lo deportarono in India. Solo nel ’46, a guerra finita, deperito e ammalato, dopo che gli venne anche asportato un rene, potette rientrare in Birmania e continuare la sua missione.
Nel 1948 la Birmania conquistò la sua indipendenza dall’Inghilterra, ma il territorio era ancora terreno di scontro tra le molteplici etnie che componevano il Paese. Continue rappresaglie e scontri armati tra ribelli di diverse ideologie e credenze dilaniavano la Birmania. Lo Stato rispondeva con feroci repressioni, mentre cattolici e protestanti cercavano di continuare la loro azione di proselitismo nelle zone più povere e degradate del Paese. In questo contesto confuso e cruento, il 24 maggio del 1950 Mario venne ammazzato insieme con il suo catechista Isidoro Ngei, primo beato della chiesa cattolica di origine birmana.
Stamattina ho riletto per l’ennesima volta le lettere che Padre Mario Vergara ha scritto a mio nonno dal 1929 al 1948 (e che negli anni ’80 zio Gennaro ha trascritto e diffuso in famiglia con il mio modesto contributo). Oltre al profondo affetto che li legava, viene fuori lo spessore umano del beato frattese, un religioso forte e coraggioso, mai disposto a cedere ai soprusi da qualsiasi parte provenissero: la famiglia, la chiesa, gli inglesi che dominavano la Birmania nei suoi primi anni di missione, gli oppressori di turno che esercitavano il loro potere ed elevano le tasse delle fasce più deboli della popolazione. Ma Padre Mario si mostra anche come un uomo dotato di una certa ironia.
“Toungoo 22-7-935 Carissimo Carmine, alias “povero figlio”. Mi congratulo prima di tutto con te che ora ti sei laureato in Imbroglioneria, cioè in Legge. Almeno di tanti di razza Vergara ci sei tu che puoi ostentare una scartoffia legale. Bravo, ti dò un bacio di tutto cuore senza pungerti con la barba! Spero che ti sia già rimesso in salute e non solo in salute fisica ma soprattutto in salute morale. Mi fa tanto male pensare ad un cugino del mio cuore, freddo nell’amore verso Dio. Caro Carmine, ricordalo sempre, che per conoscere Dio Bisogna prima amarlo. Con Dio il processo va tutto all’opposto che per l’amore delle cose create: per queste infatti bisogna prima conoscerle e poi amarle; per Dio, invece, bisogna prima amarlo e poi conoscerlo.”
E poi, qualche mese dopo, il 22 settembre del 1935, solo una decina di giorni prima che l’Italia di Mussolini dichiarasse guerra all’Etiopia:
“Qui i giornali inglesi si sfogano a loro bell’agio contro l’Italia e sono articoli spassosissimi. Ti accludo una riuscita vignetta dove due soldati italiani armati a tutto punto e su un carro armato, gridano l’allarme contro un povero abissino il quale ha solo una piccola lancia ed è tutto spaventato. Per dire che l’Italia da assalitrice pretende passare per assalita.”
Peccato che la vignetta satirica inglese sia andata persa.
Poi, però, un paio di mesi dopo (il 10 novembre dello stesso anno) preoccupato della concorrenza di fede dei missionari protestanti inglesi avrebbe scritto al cugino:
“L’orizzonte si fa scuro; i giornali Inglesi vomitano ingiurie su ingiurie contro l’Italia, ed i Protestanti aspettano il momento in cui l’Inghilterra dichiari guerra all’Italia per vederci discacciati di qui e così invadere il nostro gregge. Quod Deus avertat! [Che Dio ce ne scampi!]”
Leggendo questo carteggio, ho notato anche come crescesse in lui la fede e perfino la serenità, man mano che aumentavano le difficoltà pratiche legate alla sua evangelizzazione.
Il 15 marzo del ’47 scriveva, per esempio:
“Io ho bisogno estremo di denaro e di tanto denaro, perché sono stato mandato ad aprire un nuovo centro di evangelizzazione come te ne ho già scritto – e mi manca tutto, tutto tutto. Non parlo della mia casa, perché posso continuare a vivere per anni in una capanna di bambù e nutrirmi di solo riso e sale; ma io devo convertire la gente e perciò mi servono tanti maestri – catechisti, medicine ecc., e senza denaro io non posso fare niente. Per adesso ho già 4 villaggi che si sono convertiti, ma ce ne sono ancora centinaia di villaggi su questi alti monti affidati alle mie cure. Ed io con solo 4 villaggi sono già in debiti. Se vuoi mandarmi qualche offerta rivolgiti a D. Marco. Attualmente io sto bene, tranne, si capisce, attacchi periodici di malaria.”
Ma insieme alla fede, mi pare che vada formandosi anche una coscienza anticolonialista:
“In quanto poi all’Augurio di convertire tutta l’India, ho due cose da notare: I. la mia terra si chiama Birmania e non India, e questo perché essendomi ormai indigenezzato (nel significato tecnico, cioè diventare come un nativo), mi sono imbevuto del sentimento patriottico dei birmani i quali hanno chiesto ed ormai ottenuto la separazione politica ed economica dall’India di cui prima la Birmania era considerata quasi Provincia. II. Non ho convertito nessuno ancora perché non ancora è venuto il mio tempo.” (3 aprile 1935)
Non mancano pagine interessanti sulla difficoltà di imparare in modo rapido l’inglese e almeno altre tre lingue tra le tante parlate in Birmania. Necessario essere poliglotti per portare agli indigeni la parola di Cristo.
Infine, viene fuori con tutta la sua forza l’affetto familiare. Questa, per esempio, è la parte finale di una lunga lettera natalizia del 1933.
“Non perdere mai il sapore dei baci della tua buona mamma, ma per questo si richiede appunto che tu ti conserva fanciullo di animo (non di intelligenza). Conclusione? Cerca di santificare nel miglior modo questo S. Natale accostandoti con amore di fanciullo al Sacramento della Penitenza e dell’Amore, e ricordandoti di me, mi raccomanderai al Signore. Auguri di ogni bene alla cara nonna, che il Signore ci conservi ancora per tanti anni; alla Mamma perché il Signore le dia forza sufficiente per dirigere l’azienda e… te.” (19 dicembre 1933)
Scritte da un figlio che aveva scelto di allontanarsi da sua madre, dai suoi fratelli e dalla sua terra di origine.
Qualcosa di più di un santino tutto dedito al vangelo e alla sua diffusione tra gli infedeli dell’Oriente Estremo.
sono trascorsi due anni ma mi sembra ancora impossibile due anni in cui troppi di voi siete andati via troppo presto quando avevamo ancora tante cose da dirci quando avevate ancora troppe cose da fare e braccia da stringere e abbracciare
sono trascorsi due anni e sento la vostra mancanza come una presenza che non si può colmare
E lo so bene, lo che 3 minuti sono tantissimi per voi utenti social(i)
Mia cugina Paola, la figlia di zio Gennaro, ha digitalizzato dei nastri video di tre decenni fa e me li ha girati. Stavamo tinteggiando la casa di suo padre. Era estate. Lavoravamo divertendoci e, in più, Gennaro ci dava pure qualche contributo economico per le vacanze in cambio di tanto trastullo produttivo. Oltre a lui e a me, imbiancavano la casa anche mio cugino Biagio e mio fratello Roberto (li vedete nel video. Erano quelli magri, a quei tempi. In verità, lavoravano soprattutto loro; io, più che altro, mi dedicavo ai filmati e alle colonne sonore; tanto che mi meritati il soprannome di Concetto, in quanto, come un impiegato di concetto, mi sporcavo raramente le mani; salvo quando si trattava di fare qualche video-tutorial o di fingere di pitturare). Qualche volta veniva anche Paola a darci una mano o… a girare qualche clip.
Visti ora, questi spezzoni mi sono parsi come dei TikTok di 30 anni fa. Ne ho montati tre o quattro e li ho messi qua come un documento del tempo che fu e un preannuncio di quello che è venuto dopo. Prendeteli per quelli sono e non biasimatemi per la mia modernissima mancanza di vergogna.
Tra quante sorti ancora si gioca la partita? Di quante morti ancora sarà fatta la mia vita?
Perché non importa la data segnata sui calendari, qualunque sia l’anno il giorno e l’ora è sempre troppo presto per partire e troppo lunga la fila già schierata sulla scogliera
come condannati in attesa di giudizio.
Achille era il più eccentrico ed inquieto della nostra inquieta ed eccentrica famiglia. Non passava inosservato, Achille. Negli anni ’80 fu il primo dark di Frattamaggiore. Tutto vestito di nero, con la faccia ricoperta di cerone, occhi contornati di matita, lunghi capelli corvini da medusa e unghia smaltate di nero. Con la sua bella figura alta e dritta, le mani lunghe e affusolate, lo sguardo intenso da miope senza occhiali, non sarebbe passato inosservato neanche ‘cu ‘nu jeans e ‘na maglietta, in verità. Aveva sei o sette anni meno di me, Achille. Da ragazzo mi faceva leggere terzine scritte in una lingua antica e misteriosa e mi parlava di magia e riti gotici.
Una trentina di estati fa non tornò da un viaggio in Calabria. Non tornò a settembre, a scuola iniziata, non tornò in autunno, non tornò per Natale né per Pasqua. Ogni tanto telefonava e diceva che stava bene, ma cosa facesse nessuno lo sapeva, e tutta la sua vita sembrava ammantata in uno spesso velo di mistero. Finché, attraverso una serie di investigazioni che non sto qui a raccontare, venimmo a sapere che Achille si trovava a Cirò, sulla costa ionica. Andammo zio Gennaro e io in spedizione persuasiva: Achille non aveva ancora 17 anni, ed in famiglia ci sembrava opportuno che concludesse almeno i suoi studi liceali. Scoprimmo che Achille in Calabria faceva il mago, ed aveva uno studio, diciamo così, ben avviato; era diventato uno di quelli che ti ipnotizzano col pendolino, ti leggono la vita in una palla di vetro e ti tengono legati al filo delle loro parole. Mi spiegò che una professionista della magia lo aveva notato, aveva avvertito i suoi poteri e l’aveva avviato sul cammino del paranormale. Non fu facile convincerlo a venire a prendersi il diploma a Napoli. In realtà, per un po’ fu lui a cercare di convincere me che anch’io c’avevo un certo carisma, un’aura, un sesto senso e non so che. Insomma per poco non aprimmo una ditta Vergara, cugini magici. Il diploma alla fine lo prese, Achille, ma continuò ancora per un paio di anni ad esercitare la professione occulta.
Poi se ne andò a studiare filosofia a Milano. A un dato momento, si stancò e si trasferì a Dublino, poi a Londra, dove ha fatto mille mestieri (ma meno di quanto ne abbia fatto il padre), poi rientrò qua, dove la sua vita si è conclusa troppo presto e senza magia.
E così te ne sei andata pure tu. Rapida e in punta di piedi come hai sempre trottato su questa terra, dando una mano e qualche lezione di vita pratica a chi non voleva sentire o sentiva male.
Per me eri la fenice che rinasce e si reinventa dopo ogni difficoltà. Arrivasti più di 80 anni fa in questo cortile troppo grande, debilitata e affamata di tutto. “Vostro nonno mi salvò la vita”, raccontavi, e da allora sei stata tu un aiuto per tutti. Una zia, una sorella, una nutrice, una nonna, una balia, una maestra di cucina, una mamma e una consigliera per questa famiglia sempre orfana. Ti ho sempre vista come la risolutrice dei problemi, quella che scioglie i nodi e insegna come adattarsi di fronte alle avversità. Quando morì il “nonno dottore” ti reinventasti siringaia e poi infermiera professionale. Non avevi avuto la possibilità di frequentare scuole regolari, ma imparavi tutto subito e, quando era necesario, sapevi anche come aggirare gli ostacoli. La sofferenza ti aveva temprato ed insegnato qualche trucco. Bambino, mi ricordo tu quarantentenne che imparavi ad andare in bici, a guidare la macchina… I racconti dei tuoi viaggi in Spagna e in Olanda, i ricordi della tua infanzia in tempi di guerra, i tuoi viaggi in treno da Fratta a Pisa e da Pisa a Fratta, con le borse piene di barattoli e leccornie che preparavi ad ogni occasione, anche a novant’anni suonati, ma sempre passando di treno in treno, per non sprecare denaro. La tua intelligenza pratica. La tua sensibilità discreta. Lo sguardo ironico. Gli starnuti epici che facevano tremare i vetri. Le parole affettuose che hai speso fino all’ultimo per tutti noi.
La mia prima cugina di una schiera di più di trenta. Quante chiacchiere da adolescenti. Quanta bellezza nei tuoi occhi che sapevano accarezzarti con uno sguardo.
Mi viene in mente un pomeriggio al mare. Dovevo avere 12 o 13 anni. Tu un paio in più. Mi raccontasti di questo ragazzone che ti faceva la corte. Ma con discrezione. E ti dicesti ammirata dalla saggezza dei miei consigli. Eri sempre molto generosa con me. Eri generosa con tutti, in verità, e di tutti sapevi riconoscere il meglio e trasformarlo in valore.
E poi mi vengono in mente i momenti bellissimi della nascita dei tuoi figli. La capacità di affrontare i problemi senza perdere la calma. La tua decisione e la tua dolcezza. Adoravi mio padre e con Carmine un po’ lo hai reso nonno.
Poi ti ho vista insegnare nelle mie stesse classi. Ma non ho fatto in tempo a dirti che sei l’unica collega che ho invidiato per la capacità di far sentire a ciascuno dei tuoi alunni il reale interesse che avevi per lui. Riuscivi a motivarli nello studio facendo risaltare il meglio di ognuno di loro in un clima di gioia e di partecipazione emotiva. Facevi di ognuno una persona migliore. E ora sto leggendo commosso tanti bei ricordi di queste giovani donne e giovani uomini. Li hanno sparsi per la rete. Me li hanno inviati in privato…
Resterai per sempre nella loro memoria e nei cuori di Angelo, dei tuoi figli, delle tue sorelle, dei tuoi poveri genitori e di tutti coloro che hanno avuto l’impagabile fortuna di conoscerti.
Salutami papà, zio Gennaro, zio Pasquale, Ginevra e i nonni, se c’è un supplemento di vita pure lassù. E continua a sorridere contra viento y marea.
Io, però, anche se ti ho vista senza vita in quel letto, ancora non sono in grado di crederci.
Vorrei augurarti il sole anche di notte E il mare anche tra queste fratte Vorrei augurarti gioie e amori a frotte E tante giornate divertenti e matte
Vorrei che arrivassi a questi diciotto Ondeggiando al bordo di un canotto Con l’allegria di chi non pensa a niente E se ne frega dell’altrui gente
Ti auguro un mondo bello come questo Ma più giusto e meno funesto Ti auguro di apprezzare sempre quello che hai Quello che sei e quello che dai
E poi spero che tu possa restare bella come sei E che lo sappia sempre senza offuscarti mai
Sono successi un sacco di fatti il 14 luglio. In Francia e in Iraq è festa nazionale. E poi, va be’, l’assalto della Bastiglia e l’inizio della rivoluzione non lo dimentica nessuno. Almeno credo…
Il 14 luglio sono nati artisti, attrici, cantanti, scrittrici, imperatrici, imbianchine, idrauliche, ingegnere, inventrici, investigatrici, illustratrici e maschietti che facevano lo stesso mestiere; e poi… impiegate, imprenditrici, infermiere, ispettrici, insegnanti, informatiche, istruttrici di nuoto, illusioniste, illuse, delusi e imitatrici; ma anche imbalsamatrici, intrattenitrici, immunologhe, infettivologhe, incantatrici di serpenti, indovine, intellettuali, iettatrici, interpreti e indossatrici…
Va be’, questo magari si può dire di ogni santo giorno dell’anno. Ma mica ogni giorno nasce un Klimt (nel 1862), un Buenaventura Durruti (nel 1896), una Natalia Ginzburg (nel 1916), un Ingmar Bergman (due anni dopo), un Manuel Vázquez Montalbán (nel 1939), un Renato Pozzetto (nel 1940), una… Carmen Vergara (nel 2002).
Ok, ok, forse qualcuno degli altri che ho citato non lo avete mai sentito nominare, ma Carmen Vergara magari sì. Cioè, non dico che la conosciate proprio bene bene, ma almeno vi potete illudere di saper chi sia e potete augurarle insieme con me tante belle cose, pe’ mo e pe’ sempe.
Anche se ho una pessima scrittura, ogni tanto mi piace scrivere a mano come si faceva prima che cominciassimo a vivere con le dita, la schiena e il collo semprecurve sullo specchio deformante di un telefonino. L’unico problema è che se rileggo qualche ora dopo quanto ho scritto qualche ora prima, ho molta difficoltà a interpretare i segni e i tratti della mia cacografia; diciamo pure che il più delle volte non riesco affatto a capire cosa abbia voluto esprimere con quei caratteri nervosi e sincopati pieni di cancellature, ripensamenti e correzioni aggiunte in ogni senso e direzione del foglio. Tuttavia, fingo di leggere; e non è detto che quello che fingo di leggere sia peggiore di quello che avevo originariamente concepito e vergato a mano con cura e distrazione. Sono un caso e un modello di serendipità cacografica, autoesegesi impreziosente ed ermeneutica migliorativa. Dovrebbero studiarmi su libri, libroni e libelli scritti a mano con pessima scrittura e frequenti fregi, postille e cancellature; in modo da avere una possibilità di essere reso migliore puranco dall’altrui interpretazione.
P.s. Forse un giorno si scoprirà che anche Eraclito, Eschilo, Sofocle, el Arcipreste de Hita, Dante Alighieri e una cospicua sfilza di tanti-altri hanno goduto delle interpretazioni benevolenti dei loro trascrittori. Incluso il Dio uno e trino del Vecchio Testamento, del Corano e della Cruna dell’Ago.
P.p.s. Sono molto incerto su almeno quattro o cinque parole dell’anteriore post scriptum trascritto da un mio logoro taccuino di quattro o cinque anni fa. Altrettanto incerto su tutto il resto di questo testo. Incluso il presente post post scriptum che state avendo la sconfinata pazienza di leggere, se siete arrivati fino a qua. Grazie. Siate buoni, se lo siete.