Oggi il calendario liturgico e la tradizione popolare celebra i tre angeli supremi, gli arcangeli, una sorta di supereroi della chiesa cattolica romana e apostolica.
Michele dalla spada infuocata che si mette il drago e Satana sotto i piedi e li calpesta, implacabile.
Guido Reni, 1636
Gabriele, l’annunciatore che appare a Zaccaria e alla Vergine Santa nel Vangelo e a Maometto nel Corano.
Beato Angelico, 1449 ca.
Raffaele, viatores comitor, l’accompagnatore e protettore dei viaggi pericolosi e il guaritore degli infermi e degli indemoniati.
Pietro Perugino, 1500 ca.
Tre potenti emissari della volontà divina. Tre riconosciuti combattenti armati contro Satana e le truppe del Male. Tre spiriti del popolo e protettori delle nazioni di cui, di questi tristi tempi, sentiamo un gran e impellente bisogno.
Vai con i superpoteri e tanti auguri a coloro che portano il loro nome.
Seduto su una polveriera Le gambe penzolanti nel vuoto In mezzo a questo mare infestato di cadaveri fumi scarti industriali e parole Penso ai cazzi miei Cercando una via d’uscita piccola piccola per tirare avanti io e chi mi sta vicino Senza considerare Il resto gli altri e il fottuto contesto della casa che brucia a ridosso di una fabbrica pirotecnica
Nel bel mezzo di una valanga di gente che muore di indifferenza di fame di noia di colpo e di malanni eventuali e vari
Non c’è che dire Sono uno di voi Sono proprio integralmente 1 di voi e affanculo il resto gli altri e il fottuto contesto della casa in fiamme in mezzo a questo mare infestato di cadaveri fumi scarti industriali e parole parole parole che fluiscono incessanti e convinte di rappresentare sempre la RAGIONE e il torto mai mai mai e poi mai
E già, 18 anni e siamo ancora qua… 18 anni. 18 anni in cui intaso il mio pubblico diario con testi, disegni, qualche foto e, di tanto in tanto, pure con qualche ignobile composizione sonora che mi suono e canto da solo. (Il mio è sempre stato un blog autarchico, eclettico, marginale e poco allineato. Ci manca solo che mi metta pure a ballare.)
Nel corso di queste 72 stagioni (quasi 6600 giorni di onorata carriera) c’è stato un cambio casa (nel 2011, quando traslocai baracca e burattini da Splinder a WordPress) e un periodo di semi-isolamento dovuto al trasferimento di molti vecchi amici su Facebook, su Instagram o su altre reti e trappole sociali.
Negli ultimi tempi, comunque, i numeri sono tornati a crescere. Quest’anno ((( aitanblog ))) conta già 18mila accessi realizzati da più di 11mila visitatori ripartiti tra la ristrettissima cerchia di lettori piuttosto fedeli, qualche avventore occasionale che si trova tra le pagine del blog e non sa nemmeno come ci sia arrivato e qualcun altro (la maggioranza, in verità) che ci arriva di rimbalzo da Facebook. Ma lui, il mio giovanotto, continuerebbe impassibile a dire la sua anche con molti meno visitatori che sono là a dare linfa e senso alla sua esistenza.
18 anni. 18 anni trascorsi in 216 mesi…
Di pochi giorni più piccolo, il blog didattico Castellano / Italiano è da qualche anno molto più isolato e solo di ((( aitanblog ))). Nuovi strumenti di didattica digitale gli hanno fatto perdere il suo appeal iniziale che gli fece conquistare una grande attenzione in saggi, tesi da laurea e conferenze stilate in pedagogichese dentro e fuori dall’Italia.
Magari uno di questi giorni gli do un po’ di ossigeno e vedo di dare nuova vita pure a lui.
Come succede di questi tempi, il successo di uno spazio web è una questione di stile e di contenuti, ma la spinta di un po’ di marketing pure ci vuole. Se no, non arrivi nemmeno fuori la porta di casa. E chi non si adegua, scompare.
Il che, a pensarci bene, ha anche il suo fascino. (La possibilità di dissolversi e svanire, intendo.)
– Ho deciso. Do una svolta alla mia vita. – Ok, sí, ma fai attenzione. Si vive una svolta sola. – Ma non era “una volta” sola? – Boh!? Io mi ricordavo una svolta… Ma se si vive una volta sola, stiamo punto e peggio. Non fai manco in tempo a svoltare che è già finita. Tutto in una volta sola. Eccheccacchio! – Ah, be’, se è così, accontentiamoci di una sola svolta, allora. – Ma sì, svoltiamo che sempre dritto non si può andare. – E già, svoltiamo, svoltiamo! – Almeno per una svolta! – Sì, sì, almeno per una svolta…
Che poi io mica lo so perché scrivo certe insulsaggini…, e dopo le pubblico pure, corredate da orribili illustrazioni e commenti a pie di pagina in forma di frasi che si avvolgono su se stesse e di se stesse parlano autofagocitandosi come un serpente uroboro.
Non chiederle di restituirti i tuoi fottuti regali Non farle il muso quando andrai via Non alzare la voce e non vomitarle addosso tutto il male che pensi di lei
Non importa se hai torto o ragione Ricordati che sei quello che ricordano di te
E quello che dimenticano non valeva la pena di essere ricordato E forse neanche vissuto
Rileggo, aggiungo, correggo:
Ciò che siamo, il nostro essere che vaga per le menti collettive, è una somma cangiante di quello che ricordano gli altri di noi e di quello che ricordiamo noi o vorremmo che fosse dagli altri e da noi stessi ricordato. Una tavola sinottica, un film in montaggio parallelo, un romanzo corale che ricostruisce la nostra biografia in prima ed in terza persona tra molte contraddizioni e qualche coincidenza.
Tanti auguri a tutti coloro che portano il nome di San Gennaro, santo plurimartoriato come la città con cui si identifica.
La tradizione agiografica narra che, prima della decapitazione, lo trucidarono e tentarono di farlo fuori in ogni modo: gli torsero il corpo, lo gettarono nella fossa dei leoni e lo rinchiusero in una fornace come in un Lager ante litteram… Ma isso se n’asceva da dint’o fuoco, come possiamo vedere nella sublime scena rappresentata in questo dipinto dello Spagnoletto (nome d’arte di José de Ribera detto Jusepe, il più napoletano dei pittori spagnoli, vissuto in Italia dal 1611 al 1652).
Il quadro, conservato nel Duomo di Napoli (e dove, se no?), rappresenta proprio il miracoloso momento in cui il Vescovo Gennaro esce illeso dalle caverne ardenti di Pozzuoli tra lo stupore e la paura degli astanti. I soldati e i lazzari lo guardano a bocca aperta mentre lui volge il suo sguardo ai putti che svolazzano confusamente in cielo. Un capolavoro nel capolavoro, la faccia incredula e sconvolta dello scugnizzo vestito di rosso alla nostra destra. Il futuro patrono di Napoli è scalzo e impedito nei movimenti dalle corde, ma conserva i suoi fastosi abiti episcopali e cammina tra la folla e le lance dei soldati come se il fatto non fosse suo. Una metafora di questa terra fulgida, degradata e distratta che tira avanti tra vessazioni e sconfitte.
E vabbè. Tanti auguri. E tu, San Genna’, nun te scurda’ ‘i chesta città. Mittece a mana toja e facce asci’ pure a nuje da dint’o fuoco.
P.s.futile e infuocato
Qui a Napoli e zone collegate abbiamo con il fuoco un rapporto inscindibile e contraddittorio. Viviamo con l’inferno sotto ai piedi pronto a venire fuori dalla bocca del vulcano o dalle viscere della terra. I campi ardenti della zona flegrea, la lava del Vesuvio, la porta degli Inferi nel Lago d’Averno, la terra ribollente della Solfatara, la liquefazione del sangue del santo, il santo che ferma l’eruzione con la mano e poi, nel presente, i roghi tossici e i fuochi d’artificio costantemente rimbombanti nell’aria. Come se stessimo mettendo in scena una rituale evocazione delle catastrofi che ci aspettiamo da un’imminente eruzione del Vesuvio o dall’apertura della porta dell’inferno. Come se volessimo farci noi stessi vulcano e perpetrare un lento, quotidiano suicidio di massa, un diffuso cupio dissolvi, un desiderio di autodistruggerci e scomparire tra il fuoco, i fumi e le fiamme.
Questa è un’altra di quelle sere in cui vengono a farmi visita i vuoti e le mancanze che si sono fatte intorno a me. Pensavamo di avere tanto tempo. Ma poi voi siete andati via prima. Vi siete anticipati. E noi abbiamo continuato a girare intorno al nostro vuoto cercando di pensare ad altro. Poi qualche volta usciamo fuori dal cerchio e ripensiamo ai giorni in cui eravate qui e ci stendevamo sul prato cercando di tenerci lontani dai circoli e dai girotondi. Mi viene da sorridere e poi da piangere. Credo di avere più pena per me che per voi, in queste sere.
Ormai lo sapete che mi piace condividere i bei momenti di spettacolo e cultura cui, in questi giorni, assisto con avidità accresciuta dall’estenuante lockdown che abbiamo subito nei lunghi e inconclusi mesi di pandemia che portiamo sul groppone.
Ieri è stata la volta dei Carmina Rock di Pasquale Vergara, chitarrista e compositore in arte e professore di latino (in pensione) di professione. In apertura dell’anno sociale dell’Associazione Ex Allievi del Liceo Durante capitanata dall’ineffabile e infaticabile Teresa Maiello, il prof. Vergara ci ha presentato una gustosa e interessante conferenza-spettacolo incentrata su una decina di frammenti memorabili della letteratura latina, che ha musicato in lingua originale e poi anche tradotto in dialetto napoletano.
Dopo una breve e colta introduzione sulla metrica e sulla prosodia, sulla alternanza di vocali lunghe e brevi nella lingua latina, sull’impossibilità, di fatto, di sapere come gli antichi romani pronunciassero le parole, i versi e gli accenti, il prof ci ha fatto sentire il frutto di un suo annoso lavoro svolto per compiere la missione impossibile di mettere in musica i versi classici cercando di mantenere gli ictus (accenti) della lettura metrica antica. Un’operazione acrobatica in bilico tra filologia, archeologia musicale, traduzione e creatività artistica.
La serata si è svolta seguendo uno schema preciso e mai tradito.
Per ogni singolo frammento, in prima istanza abbiamo ascoltato la lettura recitata dell’adattamento in dialetto napoletano interpretata magistralmente dal professor Peppe Mitrano; poi le canzoni cantate da Pasquale sia in latino che in napoletano con l’accompagnamento della sua chitarra acustica.
In apertura, una “Tarantella falecia” basata sui celebri versi del Carme V di Catullo con la loro meravigliosa allitterazione di D e di T:
Da mi basia mille, deinde centum, dein mille altera, dein secunda centum, deinde usque altera mille, deinde centum […]
il cui primo verso, in napoletano, suonava così:
Damme mille ‘e ‘sti vase e ancora ciente…
Di seguito una ballad in esametri basata sulla IV Ecloga di Virgilio e la celeberrima “anima vagula blandula” dell’imperatore Adriano. Quest’ultima, in dimetri giambici.
Piccola parentesi pindarica ma non troppo. Come ha ben illustrato il prof.Vergara nella sua prefazione al concerto, da quanto sappiamo e abbiamo a posteriori ricostruito, la poesia classica greca e latina si basava sul ritmo dei “piedi“, che erano una sorta di unità di misura della metrica formata da un gruppo di due o più sillabe brevi e lunghe che costituivano la misura del verso. Naturalmente, si chiamavano ποῦς in greco e pes in latino proprio perché il ritmo si accompagnava con il battito del piede e cadeva normalmente sulla sillaba forte contraddistinta da un “ictus”, parola che giustamente Pasquale ha definito “terribile” per un orecchio moderno, ma che altro non voleva indicare che la sillaba forte e accentata della battuta (letteralmente ictus vuol dire ‘colpo’, ‘percussione’, ‘accento’).
A partire da questi principi di metrica classica, il prof ha presentato una classificazione dei principali piedi usati nella poesia classica latina mettendoli in parallelo con alcuni ritmi moderni. Così ha mostrato, a mo’ di esempio, come possiamo risentire – il dattilo (– ∪ ∪) nella Via Gluck di Celentano (battere / levare / levare) – lo spondeo (– –) nella Margherita di Cocciante (battere / levare) – il giambo (∪ –) in Buonanotte Fiorellino di De Gregori (levare / battere) – il trocheo (– ∪) nel valzer della Vedova Allegra di Franz Lehár (battere / levare / levare) – l’anapesto: ∪ ∪ – in un reggae come E la luna bussò, portato al successo da Loredana Bertè (levare / levare / battere).
Ma torniamo alle trasposizioni di Pasquale Vergara ascoltate ieri.
Il quarto brano è stato l’ode che contiene la fortunatissima formula del Carpe Diem oraziano (Carmina, I, 11), il cui verso più celebre è diventato in napoletano:
Campa ‘o mumento, nun penzà a niente, ‘e chello ca ‘a ciorta te po’ astipà…
Di seguito la leziosa Tarentilla di Nevio con la sua vivace descrizione di una giovane tarantina di facili costumi che “comm’a ‘na palluccia zompa a cca’ e allà“, passando d’amante ad amante e d’amore ad amore come una Palummella ante litteram.
Poi è stata la volta di 3 famosissimi incipit in esametri resi con piglio rock da Pasquale. Si tratta dei primi versi – degli Annales di Ennio – del De rerum natura di Lucrezio -Dell’Aeneis (ovvero l’Eneide) di Virgilio.
Per finire, siamo tornati alla poesia romantica e intramontabile di Catullo. Chiudendo un cerchio che era cominciato coi mille e cento baci, abbiamo ascoltato una stupenda e struggente ballad romantica incentrata sul distico elegiaco del Carme 85, probabilmente l’epigramma più noto della latinità composto di un solo esametro seguito da un pentametro:
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior.
Che, mi piace ricordare, era già stato tradotto in napoletano e messo in rima dal bolognese Stefano Benni in questi termini:
Odio e amo: fusse che chiedi comme faccio? Nunn ‘o ssaccio ma lo faccio e mme sent’ ‘nu straccio!
Mentre Pasquale traduce con maggiore attinenza all’originale, ma senza perdere l’intrinseca poesia dei versi e baciando pure lui le rime:
Odio e ammore, nun addimanna’ comme po’ essere, Nun ‘o saccio: è accussì, m’o sento e sto a murì.
E con questo struggimento d’amore, passo e chiudo con la speranza che Pasquale possa ripetere la sua conferenza-spettacolo nei licei e magari possa fare anche dei laboratori per far appassionare le nuove generazioni ai versi e ai ritmi del mondo classico.
P.s. Poi un giorno indagherò su che cosa spinga questi Vergara a cercare di ripensare i ritmi, battere i piedi, computare le sillabe e adattare i versi della latinità classica; considerando anche che mio zio, Giuseppe Vergara, ha dedicato anni e anni della sua vita allo studio della poesia barbara e, dopo aver dato su tale argomento alle stampe due saggi e il volume Guida allo studio della poesia barbara italiana (F.lli Conte Editori, Napoli 1978), ha tradotto tutti e 12 i Libri dell’Eneide in esametri ritmici italiani, secondo una metodologia metrica da lui stesso messa a punto in aperta critica nientedipopodineno che con Giosuè Carducci.
“è un mondo difficile vita intensa felicità a momenti e futuro incerto“
….
se i matematici fossero in grado di misurare la nostra capacità di incidere sulla realtà in cui sguazziamo come maiali nel fango
se fossero in grado di misurare la nostra capacità dicevo sapremmo con scientifica evidenza che siamo tutti prescindibili e irrilevanti
….
il presente ci piomba addosso
e noi siamo artefici del nostro passato tutt’al più
soprattutto quassù
dentro il feisbù
dove ognuno sta solo e si reinventa come gli pare e piace
cercando pace vita e mipiace
dove la vita non c’è
….
se non di striscio
….
è un mondo difficile vita melensa felicità a momenti e futuro boh?
come il presente che anche ora non sai cosa stia succedendo nell’altra stanza dentro di te e tra i versi di questa specie di poesia che è già più tua che mia e che col tempo se ne andrà via nel bagagliaio delle parole dimenticate
….
e neanche è da escludere che potrà seguirci un tempo in cui nessuno saprà più nemmeno cosa sia il feisbù
il che renderebbe incomprensibile buona parte di quello che scrivo
ovemai un domani qualcuno per uno strano caso si trovasse a leggere e provasse perfino a cercare un senso in ciò che io sto scrivendo nel mio presente e lui sta leggendo nel suo
…
è un mondo difficile incertezza immensa felicità a momenti e del resto non so