Oelde, Münster, tre agosto 2004
Sono le 3 e 25 del pomeriggio. Mi trovo in un Biergarten circondato da alberi centenari e molta gente, ognuno col suo boccale di birra colmo, mezzo pieno o vuoto, e se vuoto in attesa di pronta sostituzione. Non c’è dubbio, da queste parti si beve più che in Italia. Mein Gott, trovo molto sciocco e alquanto provinciale soffermarmi su una tale ovvietà dopo una decina di anni di consuetudine con la Germania. Forse mi viene di scriverlo solo perché in questo momento ho tra le mani una limonata; sì, proprio un succo industriale di limone e soda, neanche un Alster ibrido di birra e gassosa, di quelli fatti apposta per mascherare che ti trovi in un pub inglese o in un Biergarten e bevi analcolico. Praticamente, come farsi il segno della croce in una moschea o scendere in spiaggia col cappotto.
È una giornata assolata. La natura si risveglia rigogliosa. Ogni tavolo è ravvivato dal suo bravo sciame di api (o sono vespe?). Gli altri sembrano non accorgersene e parlano ad alta voce come sono soliti fare dopo il terzo boccale; io mi accendo una sigaretta con la speranza che il fumo allontani il ronzio, e copro la mia bibita con un libro, “Elephant and other stories” di Raymond Carver.
Saranno forse questi “short” a rinsecchire la mia scrittura e renderla così insolitamente minimale? Io che di solito mi diverto a cavalcare secoli in una frase o mischiare le favole ai miti e i miti con le invenzioni della storia. Io che avevo eliminato la prima persona e l’ombelico dalla mia scrittura. Io, proprio io, sto qui a descrivere questo insignificante qui ed ora in cui mi svolgo, mentre Heide cerca nuove prospettive e angolazioni per fotografare questo fottuto Giardino della Birra (e degli insetti volanti) come commissionatole dal Comune di Oelde.
Se continuo su questa strada comincio a raccontare la cravatta sgargiante dell’assessore ed il prezzo di ogni foto al netto e al lordo.
E invece vi voglio parlare del disagio.
Prima di venire in questa birreria di campagna, siamo saliti sul campanile più alto della città, per fare delle foto panoramiche della piazza e del vecchio Rathaus. Ci siamo intrufolati lungo un angusto caracol e inerpicati su instabili scale di legno. Portavamo in spalla macchine fotografiche, flash, treppiedi e tutto lo stramaledetto armamentario professionale. Ho molto sudato. E proprio qui risiede il punto e il nodo della questione.
Indosso una camicia di un bel colore grigio e di orribile fattura. L’ho comprata a Napoli un paio di settimane fa, su una bancarella nei pressi della stazione centrale. Passeggiavo distrattamente e in buona compagnia tra i vicoli della Duchesca quando, altrettanto distrattamente, ho posato lo sguardo su qualcosa di bordeaux che luccicava al sole. Il vecchio venditore ha prontamente intercettato il mio sguardo e, con gesto felino, ha imbustato la camicia rosso scuro e l’ha passata dalle sue alle mie mani. Un po’ intontito, ho protestato che non intendevo comprare niente, che non mi serviva affatto una camicia di quel tipo.
-Dotto’, so’ sulamente 5 eur’-, ha dichiarato il vecchietto con tono che non so dire se implorante o imperioso. E quando mi ha visto ancora titubante, ha messo in busta anche la camicia grigia che ora indosso e ha aggiunto che per me, eccezionalmente, tutte e due facevano solo 7 euro, due al prezzo di una.
-Facitelo pe’ ppietá! ‘A stammatina nun aggio vennuto manco ‘na cammesella…
L’etichetta della mia nuova camicia grigia dichiara 65% di cotone e 35 di poliestere, quella bordeaux 70 di cotone e 30 di poliestere. Ma preferisco la grigia per il colore ed aborrisco entrambe per la qualità della stoffa. Sarà pure un’altra faccia del mio snobismo, ma io non sopporto nessun tipo di tessuto sintetico. Ecco perché avevo deciso da subito di darle vie entrambe, in uno di quei bustoni che marcano croce rossa o altre organizzazioni che si autoproclamano umanitarie e non lucrative. Tutte e due al prezzo di una… Poi, non so bene come, ho messo la più neutra in valigia. Magari immaginavo che sarebbe stata adatta alla blanda estate tedesca e, al limite, avrei potuto lasciarla da Heide per tornarmene a casa più leggero o per rimpiazzarne il peso con i CD che di certo avrei comprato in qualche raro negozietto o in un anonimo megastore della Northern Rhein Westfalia.
Stamattina, visto che me l’ero portata appresso, l’ho pure indossata. Pensavo che facendo da assistente fotografo, maldestro come sono, avrei evitato di sporcare, sgualcire o strappare qualche capo a cui tengo di più. Ma è evidente che ho fatto male i miei conti: non immaginavo che fosse un giorno così assolato né che quel sintetico 35% mi avrebbe fatto sudare tanto. Tanto che ora dalle mie ascelle esala un agre e spiacevolissimo fetore. E io non mi sento a mio agio.
Mi chiedo se percepiranno questo tanfo anche i miei vicini. Magari pure Heide se ne è già accorta da tempo e tace per teutonica educazione. Caspita, non è certo la prima volta che sudo come un dannato, ma non mi ero mai sentito così maleodorante. L’afrore che emano da ogni poro, mi ricorda il puzzo sui pullman dell’ATAN, il fastidio di sentire le narici aggredite dalla presenza di qualche zingaro o qualche nero, ma non muoversi per non dare l’impressione di essere uno di quelli che rifiutano chi viene da lontano. Dipenderà proprio dalle camicie di poliestere anche il loro proverbiale fetore? Magari vestono sintetico pure le rosse… E con questo ho messo fuori tutto il campionario del razzismo olfattivo. Messo fuori e falsamente debellato con motivazioni di chimica inorganica esterne all’oggetto del sospetto e delle gratuite ingiurie che mettono l’altro al tappeto per montarci sopra e sentirsi più alti e forti. Nani sulla schiena dei corpi ammassati al suolo di chi è ontologicamente diverso. In fondo e in superficie puzzano (puzziamo) anche i WASP, Bianchi-Anglo-Sassoni-e-Protestanti, i francesi imbevuti di profumo e gli italiani che lasciano scorrere cascate di acqua lungo i tubi dei cessi cittadini.
E intanto penso e ripenso di togliermela di dosso questa maledetta camicia, penso di lasciarla sulla sedia e andarmene distratto o scappare. Ma ho paura degli sguardi e delle api (sempre che non siano vespe).
E mentre sono immerso nei miei pensieri, Heide arriva al tavolo e mi dice che per oggi il suo lavoro e la mia assistenza finiscono qui.
Oelde, Münster, cinque agosto 2004
Oggi si torna ad Oelde. Indosso la maglietta arancione elettrico che ho comprato al Pomigliano Jazz Festival e scelgo io le zone da fotografare da una lunga lista di setting commissionati dall’assessorato alla cultura del Comune di Oelde: una scultura, un ruscello, un altro Biergarten (questa volta cittadino) e il Jüdischer Friedhof, il cimitero ebraico. Inutile dire che è soprattutto quest’ultimo al centro dei miei interessi, ma resto ancor più affascinato da un piccolo ponte su una traiettoria dell’acqua di Eraclito che scorre incessante anche da queste parti.
Il Jüdischer Friedhof é molto piccolo. Una cinquantina di tombe dedicate ad ebrei di Oelde morti tra la prima metà dell’Ottocento e gli anni ‘40 del XX secolo. Alcune lapidi portano i segni di scalfiture, forse recenti. Su una si legge a malapena la scritta “Ruhe in Frieden!”, “Riposa in pace!”. Non posso fare a meno di associare Germania, Friedhof e Jüdischer con lo sterminio. Mi dico che nessuno dovrebbe farne a meno. E mi compiaccio con questo piccolo comune che non vuole dimenticare e che ai vecchi concittadini ebrei ha dedicato una lapide nella piazza del Municipio.
A sinistra dell’entrata del cimitero ci sono le tombe più antiche incise frontalmente coi tipici caratteri del gotico tedesco e decorate, sul lato posteriore, coi segni misteriosi dell’ebraico. A destra, quattro lapidi moderne di bel marmo grigio sormontate dalla stella di Davide. L’ultimo sepolcro della serie è dedicato a Josua Hope, nato il 7 luglio del 1878 e morto il 17 settembre del 1934. Rifletto sul valore simbolico di questo nome: Josua Hope, Joshua Speranza. Mi sembrano indicative anche le sue date di nascita e morte.

Osservo altre lapidi con lo stesso cognome o con cognomi simili legati alla stessa speranzosa radice: “Hier ruht Josua Hoffmann”, “geb. 4.9.1842 – gest. 10.1.1904”; “Hier ruht ein edles Herz” (Qui riposa un nobile cuore) “Fräulein Rosa Hoffmann” (la signorina Rosa Speranzosa, oso tradurre)… Ironie des Schicksals, tragica ironia della sorte. Mi sento patetico. Mi dico che sarebbe il caso di pensare alle quotidiane intolleranze di oggi, alla millenaria mancanza di rispetto dell’altro; mi dico che sarebbe il caso di pensare ad altro. O forse no, non sarebbe il caso. E mentre mi dico e penso questo ed altro, una vespa si posa sul mio braccio. Sono sicuro che è una vespa; dunque, erano api quelle dell’altro ieri al Biergarten. Ora non ho più dubbi. Resto immobile a guardarla aspettando che se ne vada. È più brutta delle api del Biergarten. Comincio a preoccuparmi. Ma resto ancora fermo, vittima della vecchia convinzione che se tu non le aggredisci non ti aggrediranno. E invece l’assassina mi infilza sul braccio il suo pungiglione.
Rileggo quanto ho scritto e sono assalito dal timore che questa stramaledetta puntura venga letta come un’allegoria o una volgare comparazione. E invece è solo un fatto leggermente irritante che, mentre scrivo, sto ancora a qui grattare. Intanto altre due vespe mi ronzano intorno. Heide crede sia per via della mia sgargiante maglietta arancione. Praticamente un richiamo per gli insetti. Come fossi una pianta o un fiore…
Come cazzo mi vestirò per la prossima sessione di fotografie? Che dovrò mettermi addosso per evitare sudore molesto e punture di vespe, o di api?
Bielefeld, sei agosto 2004
Oppure mi rintano in casa in pigiama a coltivare il mio blog ed aspetto i commenti di chi mi accuserà di scarsa sensibilità, razzismo o intolleranza, e magari qualcuno mi darà una pacca sulla spalla e mi inciterà ad affrontare il mondo di fuori con le sue vespe e fiori.
gaetano vergara (c) 2004