Fino all’anno scorso, per arrivare ad una delle sedi della scuola in cui insegno, si percorreva una strada che aveva di fronte il Vesuvio; ora, di fronte a quella strada e accanto alla scuola, c’è un enorme colata di cemento che impedisce di vedere il Vesuvio e l’orizzonte. Dicono che diventerà un megacentro commerciale.
Solo dopo aver attraversato i cancelli della scuola si può di nuovo intravedere il vulcano e una linea interrotta dell’orizzonte.
Probabilmente tutto questo vuol dire qualcosa che non so dire in altre parole.
Fuori programma, I Vesuvi di Aitan. In sottofondo, l’intro di “Chi tene ‘o mare” di Pino Daniele. Al sax tenore, James Senese.
Dite tutto quello che volete e avete ragione di dire sui social, ripetete che si sostituiscono alla realtà, che rubano il nostro tempo, che ci fanno perdere i contatti umani e le relazioni uno a uno. Tutto questo è vero o relativamente vero. E non è tutto. Diciamolo, diciamolo senza riserve che Facebook è l’incarnazione del male assoluto in cui ci dibattiamo, e diciamo pure che lo diciamo continuamente su Facebook che Facebook è il male assoluto. Diciamo pure che anche Instagram e TikTok sono il male assoluto.
Ma ammettiamo anche che qualche volta questi maledetti social network servono pure ad ampliare lo spettro delle nostre possibili conoscenze, dandoci l’occasione di venire a contatto con persone che hanno il nostro idem sentire o con artisti che suscitano il nostro interesse e la nostra partecipazione emotiva. È il caso della conoscenza che ho fatto prima su Facebook e poi in presenza con Enzo Crispino, sensibile artista nato qui a Frattamaggiore, nella stessa terra in cui sono nato io, un paio di anni prima di me, ma trasferitosi all’età di 15 anni a Bibbiano, in provincia di Reggio Emilia (socc’mel, Bibbiano!)
Personalmente, sono rimasto subito incantato dai suoi lavori fotografici. Ricordo ancora distintamente la sua prima foto che ho visto in rete. Eccola qua.
…
Mi ha lasciato senza fiato la ricerca cromatica di questa perfetta composizione che campeggia anche sulla copertina del suo libro fotografico: “La bellezza perduta”, pubblicato nel 2018 da Corsiero Editore.*
In ogni modo, solo qualche mese dopo aver visto le sue prime foto sui social, ho saputo che si trattava di un artista di origini frattesi trapiantato a Reggio Emilia, che, è il caso di ricordarlo, è il centro propulsore di tanti artisti della fotografia (a partire dall’antesignano Luigi Ghirri) oltre ad ospitare, dal 2006, un importante festival internazionale intitolato alla Fotografia Europea.
E in quella terra fertile di immagini impresse, mentre lavorava come tornitore metalmeccanico,** Enzo Crispino ha coltivato il suo talento che gli ha fatto meritare una nomina a Maestro di Fotografia Artistica all’Accademia Internazionale d’Arte Moderna di Roma. Ed è di tutta evidenza che Enzo un Maestro e un Artista lo è a tutti gli effetti. Le sue opere sono esposte in vari musei e gallerie d’Europa e d’America e gli hanno dedicato articoli e pubblicazioni alcune delle principali riviste specializzate di mezzo mondo. Ma è soprattutto la qualità del suo sguardo a contraddistinguerlo. I titoli e le onorificenze vengono dopo.
Insomma, per una volta si celebra nel controverso spazio di Villa Laura, un evento degno di un bene comune di valenza culturale, quale potrebbe essere questo storico edificio frattese ristrutturato con denaro pubblico ed ora dato in fitto ad un’università privata.
In realtà, questa è la seconda volta che Enzo espone a Fratta, ma io, colpevolmente, mi sono perso la prima mostra tenuta a dicembre del 2019 nella Sala Consiliare del Comune. Ieri, invece, liberandomi da ogni impegno, sono corso alla prima di questa nuova esposizione dedicata ai siti archeologici di Paestum e di Pompei. E mi sono trovato di fronte a due splendide collezioni di pittorismo fotografico.
L’una, quella dedicata a Pompei, caratterizzata da cieli saturi di colore che risaltano come un fondale teatrale nello spazio scenico dei ruderi della nostra memoria; l’altra, quella incentrata su Paestum, contrassegnata da colori diafani, fantasmatici, in cui il verde della natura sembra affiorare come una apparizione tra i resti dei templi. Due serie di lavori molto diversi tra loro, ma accomunate da una grande e certosina ricerca cromatica e compositiva che si iscrive nella tradizione del vedutismo inglese.
Le foto di Paestum sono dichiaratamente ispirate agli acquarelli dell’artista ed archeologo anglosassone Edward Dodwell, ma anche nei paesaggi pompeiani riecheggia lo sguardo della pittura dei neoclassicisti e dei romantici inglesi.***
Quello di Enzo Crispino è uno sguardo poetico che ricrea la realtà, citando lo sguardo degli artisti del passato che lo hanno ispirato e nutrito (non a caso, seguendolo in rete, ho scoperto che il fotografo frattese/emiliano si dedica anche alla scrittura di poesie e partecipa a concorsi in cui risulta spesso tra i premiati).
Aggiungo che ieri ho avuto anche modo di parlargli, di conoscerlo da vicino e di scoprire la bella persona che contiene il grande artista: una persona modesta e riflessiva che presenta le tracce di chi è partito da umili condizioni ed ha sudato per fare di se stesso l’uomo e il maestro d’arte che è oggi. Una persona che porta dentro di sé il senso delle sue radici (che si diverte a rievocare e sentire rievocare dai suoi amici dei tempi in cui, ragazzo, lavorava ‘ncoppa ‘e filatoie), ma ha saputo anche mettere a frutto le esperienze maturate in una nuova terra che lo ha cambiato, non senza prima fargli soffrire le pene della migrazione.
Peraltro, ho saputo da lui medesimo che ha a regalato le sue opere esposte a Villa Laura alla Città di Frattamaggiore, che spero sappia valorizzare e apprezzare questa generosa donazione per tutto quello che rappresenta e per il valore artistico che contiene ed emana.
* Facendo un’ulteriore ricerca in rete ho scoperto che quella stessa foto è stata anche scelta da un gruppo rock francese, i Valparaiso, per illustrare la copertina del loro primo album intitolato “Broken Homelands”.
** Non a caso il secondo libro fotografico di Enzo Crispino, sempre edito da Corsiero, è dedicato allo spazio industriale visto con gli occhi di chi lo ha conosciuto dall’interno e si intitola significativamente “Otto ore”.
*** In altre mostre che possiamo ammirare nel suo ricco portfolio, l’artista frattese si è dichiaratamente ispirato a due numi tutelari della pittura romantica inglese: John Constable e William Turner.
Bellissima serata in memoria di due musicisti frattesi di prim’ordine: Gaetano Capasso e Pasquale Del Prete.
Stasera, sul palco del Teatro De Rosa di Frattamaggiore (Napoli, Italia del Sud), si è esibito il quartetto di Daniele Scannapieco con Michele Di Martino al piano, Tommaso Scannapieco al contrabbasso e Luigi Del Prete alla batteria.
Nella seconda parte della serata, al quartetto si è unito il bravo e creativo cantante grumese e internazionale Walter Ricci. Molto intense e raffinate le interpretazioni di Tea for two, Bud Powell, Fly me to the moon, Pennies from heaven e Guarda che luna.
Perfetto l’interplay tra i cinque musicisti che hanno dato la splendida impressione di divertirsi suonando; e il divertimento e la gioia di suonare si sono trasmessi anche al pubblico (cosa per niente ovvia nelle esibizioni di musica jazz, dove, il più delle volte, quando i musicisti si divertono, l’uditorio si annoia).
Daniele Scannapieco è stato allievo di Gaetano Capasso e oggi insegna sassofono al conservatorio di Salerno, nelle stesse stanze in cui aveva insegnato clarinetto il maestro frattese. Luigi Del Prete è, invece, il figlio di Pasquale e da lui ha appreso i primi rudimenti delle percussioni e della batteria. Ora è un musicista sensibile, capace di stare sempre nel ritmo e di trascinare il fluire della musica. Sono ormai almeno quindici anni che lo seguo e lo vedo crescere con gusto e piacere.
Le ance e la batteria sono strumenti ricorrenti nella storia recente della musica frattese. Faccio solo qualche nome da affiancare al clarinettista Gaetano Capasso e al batterista Pasquale Del Prete, certo di dimenticarne altri: i fratelli Munari, Franco Del Prete, Franco Schiavitelli e il maestro Antonio Volpicelli con cui ho avuto l’onore di condividere il palco insieme con il figlio Francesco (anche lui clarinettista, oltre che sassofonista) e con il chitarrista Francesco ‘Perzico’ Di Giuseppe.
La musica ha il potere di farmi fare pace con Frattamaggiore, la città in cui sono nato, vivo e mi incazzo un giorno sì e l’altro pure.
Seconda edizione del premio dedicato al batterista e paroliere frattese.
Ieri sera, nel Teatro De Rosa di Frattamaggiore, si è tenuta la seconda edizione del Premio dedicato a Franco Del Prete per iniziativa della famiglia e del manager amico Pasquale Capasso, con l’ausilio del Mediterraneo Reading Festival ed il patrocinio dell’amministrazione comunale frattese.
Qui a Frattamaggiore (dove sono nato e vivo anch’io) Franco Del Prete è una sorta di genius loci, un’icona locale che si affianca all’altro Francesco, il precursore della Scuola musicale napoletana Francesco Durante (1684-1755), “si parva licet componere magnis” (mi sono svegliato molto lat(r)ino stamattina).
Al batterista e paroliere frattese la città ha dedicato un anfiteatro all’aperto in cui si sarebbe dovuta tenere anche la seconda edizione del premio. Ma l’instabilità climatica di questi giorni ha fatto pensare che sarebbe stato meglio svolgere l’evento al chiuso di un teatro. La serata è stata presentata con la sua solita verve da Lino D’Angiò ed è stata costellata da numerosi premi attribuiti agli artisti che si sono avvicendati sul palco con esibizioni sempre legate alla vita artistica di FDP.
Segue una rassegna rapida e dettagliata dei brani e degli interpreti che si sono esibiti ieri sul palco del De Rosa.
– In apertura Ida Rendano ha cantato “Un’ora sola ti vorrei“, il brano del 1938 riproposto negli anni ’60 dagli Showmen, il gruppo degli esordi di Franco Del Prete, Mario Musella e James Senese. Da lì sarebbe cominciato tutto. Ida Rendano è stata accompagnata dalla meravigliosa “resident band” della serata formata, in ordine alfabetico, da:
– Flex Aiello alla chitarra elettrica – Andrea Balbucea alle tastiere – Andrea Carboni alle percussioni – Vincenzo Di Girolamo alla chitarra classica – Tony Panico al sax tenore e soprano – il mio buon amico Filippo Piccirillo al piano elettrico – Gianluca Russo al basso
Alla batteria, raccogliendo il testimone del padre, c’era Francesco Del Prete (che durante l’evento ha spesso ceduto le bacchetta ad altri batteristi ospiti e premiati).
– Il secondo brano della serata, cantato da Toni Guido, è una canzone pubblicata per la prima volta quest’anno nell’ultimo album di Iva Zanicchi (“Gargana”). Si chiama “Vola colomba” ed è stata scritta da Franco Del Prete su musica di Sal Da Vinci e Gianni Guarracino. Purtroppo, Franco non ha avuto il tempo di vedere la prima edizione su disco di questo brano. In ogni modo, fin dalla prima strofa ci rendiamo conto che siano di fronte ad una perla che dice molto della sua sensibilità e della sua perizia artistica:
E se io fossi fuoco scalderei Quelli che hanno freddo come te Ma su questa terra sono una fiammella E se io fossi acqua disseterei Quelli che hanno sete come te Ma della pioggia non sono che una goccia Sei io fossi venti soffierei Di notte mi trasformerei In un orchestra di Alisei Che copre voci che sentire non vorrei
– A seguire “Ma che senso ha“, brano portato al successo da Eduardo De Crescenzo e cantato ieri da Toni Guido, che, praticamente è stato il nono membro della resident band della ricca serata artistica.
Ma che senso ha la libertà scritta sui muri della città
– Tommaso Primo ha ricevuto il premio per il miglior testo scritto in napoletano e ci ha fatto ascoltare, prima, il suo brano “Onorato delitto ‘e passione” (una storia d’amore e morte, dichiaratamente priva di morale e insegnamenti) e, poi, “Maria Maddalena“, bellissima canzone scritta da FDP e da Jennà Romano e riletta ieri in un arrangiamento minimale con l’accompagnamento di Andrea Carboni alle percussioni e Gianluigi Capasso alla chitarra (il nome di Gianluigi non appariva sui manifesti, ma, per quanto non stessi seduto alle prime file, credo di aver riconosciuto la sua barba e il tocco delicato e ritmicamente sostenuto e preciso della sua chitarra suonata senza plettro). Aggiungo che, per me, l’ascolto di Maria Maddalena ha rappresentato il primo picco emotivo della serata.
– L’atmosfera torna incandescente con “Ma aro’ vaje?” suonata dalla resident band al completo.
– Yuri Menna (cantautore napoletano e internazionale) ha interpretato, accompagnandosi dalla sola chitarra ritmica come l’artista di strada che era, la sua composizione “I just wanna hold you” e il brano di FDP “‘A terra mia“.
– Poi è stata la volta del grande Patrizio Trampetti. Patrizio ha presentato con Jennà Romano e con il giornalista e senatore Sandro Ruotolo un brano di strettissima attualità che hanno composto tutti e tre insieme: “La vita degli altri“. Una canzone che narra la storia di Irina sullo sfondo della guerra russo-ucraina e della sempre opportuna citazione di Brecht che ci ricorda che dopo la guerra “Fra i vinti la povera gente faceva la fame. / Fra i vincitori faceva la fame la povera gente ugualmente“. E per me è stato il secondo picco emotivo favorito anche dalla dinamica della voce di Patrizio e dalle sue sapienti impennate. Poi lo hanno raggiunto sul palco Carlo Avitabile alla batteria e Maria Russo alla voce per ricordarci che “‘A vita po’ cagna‘”, la vita può cambiare…
– Con la sua consueta intensità interpretativa in bilico tra il teatro e la canzone d’autore, Massimo Masiello ci ha fatto sentire “Occhi di Marzo“, altro brano del repertorio di Eduardo de Crescenzo scritto da FDP.
– A questo punto sarebbe dovuto salire sul palco a ritirare un premio alla sua fulgida e lunghissima carriera un altro grande musicista frattese, un altro batterista che per FDP è stato una importante fonte di ispirazione: Gegé Munari. Purtroppo, però, il grande Gegé, oggi ottantottenne, non è potuto venire da Roma (dove vive da decenni) ed ha ritirato il premio in sua vece il suo amico Mimmo “Papparella” Del Prete. Apro una parentesi. Gegé e suo fratello Pierino sono stati due grandi precursori del drumming jazz in Italia. Frattamaggiore, come spesso ho detto, ha una grande tradizione di batteristi che ora si prolunga con Luigi Del Prete (un altro Del Prete. “Ma chistu prepete nun steve mai quieto?“, citazione da Lino D’Angiò). È una cosa che lo scorso anno ebbi modo di ricordare allo stesso Gegé Munari (che, purtroppo, non conosco di persona) in una videoconferenza organizzata dalla mia amica Stefania Tallini e Gegé, simpaticamente, ricordò che una volta con un grande jazzista americano (se non ricordo male, si trattava di Tony Scott) stava pensando di dedicare un brano alla sua città d’origine ed intitolarlo, sentite un po’, “F Major“. Beh, io dico che è ancora in tempo.
– Di seguito, Enzo Gragnaniello, che con FDP e i suoi Sud Express ha pubblicato nel 2011 l’album “Radice”, ci ha fatto ascoltare due brani del suo repertorio che tanto piacevano a Franco (“Vasame” e, ops!, l’altro ora mi sfugge) e poi ci ha ricordato l’uomo FDP, il loro comunicare in silenzio, le carezze sul viso che prodigava alle persone cui voleva bene.
– E nel novero di queste persone, come ha ricordato con sincera commozione Simona, l’adorata e adorante figlia di Franco, c’era anche Dario Sansone, il cantante dei Foja, che ha scelto di farci ascoltare “Fiore ‘e limone“. Personalmente, sono stato molto contento della scelta, dato che considero “Fiore ‘e limone” una delle canzoni più belle de “La chiave” (2018), l’ultimo album pubblicato da FDP con i Sud Express. Sansone ha completato la sua session con una canzone tratta da “Miracoli e Rivoluzioni”, l’ultimo lavoro artistico dei Foja premiato ieri come miglior album dell’anno.
– Subito dopo sono stati premiati due batteristi molto ammirati e bene amati da FDP: Gennaro Barba (che ha prestato il suo “progressive” groove al brano “Fai come vuoi“) e Vittorio Riva, precisissimo session man e turnista tra i più attivi del pop italiano (che ieri sera ha suonato la batteria nel tostissimo brano scritto da Franco per James Senese “‘Ncazzato nire“, dove Toni Panico si è esibito in uno dei suoi pregevoli assoli al sax tenore).
– Antonio Del Gaudio alla voce e Lorenzo Natale al piano ci hanno regalato una versione straniata, coraggiosa ed espressionistica di “Van Gogh“, accentuando il carattere non convenzionale di un brano che era il meno pop di “Cante Jondo”, un album bellissimo di Eduardo De Crescenzo scritto in collaborazione con FDP e Gianni Guarracino e suonato da musicisti del calibro di Vittorio Remino, Ernesto Vitolo, Joe Amoruso e Naná Vasconcelos, oltre che dagli stessi Franco Del Prete alla batteria e Gianni Guarracino alle chitarre.
– Di seguito è stata la volta di Maurizio Capone. Insieme con Jennà Romano alla chitarra e alla voce, il percussionista e cantautore dei BungtBangt ci ha fatto sentire la più bella versione che abbia mai ascoltato di “Veleno“, accompagnando il canto con una tanica di plastica e dei cimbali di latta riciclata e aggiungendo anche una strofa di suo pugno (peccato che Jennà sembrava essere molestato da qualche problema tecnico con l’amplificazione o con la pedaliera). Poi, accompagnandosi con la scopa elettrica (una vera e propria ramazza su cui Capone ha messo un elastico e un microfono per elettrificarla e trasformala nella “scopa di Jimi Hendrix”) ci ha scosso con un suo brano di struggente attualità: quel “‘O sang è sang” che ci esorta fin dentro le viscere delle nostre coscienze a svegliarci e a finire questa fottuta guerra (qualunque essa sia).
Scetateve che è tardi guagliù Firmammela sta guerra guagliù Luvate ‘e fierre a dinto ‘e sacche guagliù Ascite ‘a chisto ingrippo guagliù E mo arapite l’uocchie guagliù Vuie state a capa asotto guagliù Ma a vuie ‘o core nun se spezza guagliù Missili bombe e canne mozze guagliù Mo basta mo Mo basta mo O sang è sang O sang è sang
Lui ha scritto questo pezzone nel ’94. Ma purtroppo il suo “mo basta” ci insegue anche oggi e ci inseguirà anche domani. Ma non so quanti siano disposti ad ascoltare.
– La tensione è rimasta alta con la lettura recitata di “Ecce homo“, un testo di FDP magistralmente interpretato da Pio Del Prete con l’accompagnamento di Jennà Romano al bouzouki.
– Nel pre-finale, Ella Armstrong (figlia dell’immortale Louis), dopo aver essersi esibita in tre classici del song book americano (tra cui Summertime e What a Wonderful World), ci ha fatto ascoltare una convincente versione di “Andrà così“, brano del repertorio di Eduardo De Crescenzo e Franco Del Prete. La cantante statunitense, ma residente in Francia, si è avvalsa dell’accompagnamento di quattro musicisti italiani: Marco Mantovanelli (piano), Daniele Antonucci (chitarra), Massimo Gaudiano (basso) e Nicolò Salis (batteria).
– Di seguito, è stato consegnato il premio “un maestro nell’anima” a Michelangelo Mosca, ex allievo di batteria di FDP, che ha suonato con la resident band la canzone “Vera“, tradotta con successo anche in spagnolo.
– Per finire, la resident band al completo, con di nuovo Francesco Del Prete alla batteria, ci ha salutato sulle note di “E la musica va“.
C’è chi l’anima che ha, la soffocherà, rassegnato alla mediocrità C’è chi l’anima che ha, la difenderà, Non aspetterò, mio amore, che ritorni qui da me
E la musica va E va e va, e va e va E va e va E la musica va
E così anche un convinto antimilitarista come me si è trovato, in una calda giornata di agosto, a combattere la sua personale guerra contro l’animale assurto a simbolo della pace (almeno nella sua versione femminile), quello che a giusta ragione ho sentito definire in Germania il ratto dei cieli.
Segue una vecchia immagine di quando questi pennuti scacazzanti ancora avevano la loro dimora di fronte casa mia.
E stavo più tranquillo anch’io. Prima dell’invasione.
Finché non ti entra in casa, la guerra è solo un incendio visto da lontano o un paragrafo di un libro di storia.
A meno che non ti arrivi la polvere sul tavolo (sta capitando anche questo, con l’abbattimento di questo palazzone) oppure si abbia un conseguente aumento del prezzo del gas e dell’olio di semi di girasole.
Momenti di riconciliazione, abbattimento e ricostruzione
Ormai da qualche giorno sono rientrato a Fratta, nel quartiere di Chiazza Mantano, dove sono nato e vivo da più di mezzo secolo. Dopo il bagno di mare e civiltà dei giorni trascorsi a Blanes, sono stato assalito da un senso di vuoto e di inappartenenza. Nostalgia per una città di mare ben organizzata, attenta alla difesa dei beni comuni, piena di verde e di spazi pubblici attrezzati; una città senza traffico, nonostante la marea di turisti riversati sul lungomare. Qui, invece, tutto come lo avevo lasciato, e io sono tornato a sentirmi un po’ più straniero nella terra dove sono nato, come quando ero ragazzo e cominciavo a esplorare l’Europa in cerca d’altro e di un presunto me stesso che non era altro che quello che facevo per cambiare quello ero, in funzione di quello che mi sarebbe piaciuto diventare (per quanto, allora come ora, non sappia dire cosa). Poi, mentre mi arrovellavo nei miei pensieri e nelle mie malinconie, come manna giunta dal cielo pigro di internet, mi sono imbattuto in questo video che sto ascoltando in loop come un antidepressivo che mi sta aiutando a uscire dall’astenia e dal torpore per ritrovare l’amore per la mia terra e per riappropriarmi dei miei sogni per cambiare Fratta e me stesso. Un modo, anche, per ritrovare l’amore per la mia terra e riappropriarmi dei miei sogni di rifondazione e cambiamento.
Il video si intitola Jazz Mantana, ed è uno splendido omaggio alla mia terra e al mio quartiere, Chiazza Mantano, che un tempo fu la periferia di Frattamaggiore sorta nei pressi di una palude di fango e acque stagnanti (un pantano, appunto) da cui, nel secolo scorso, è venuta fuori tanta musica contaminata col jazz e con gli altri suoni provenienti dai bassifondi angloamericani e, più tardi, anche con le sonorità provenienti dal resto del mondo.*
Il brano è stato composto, arrangiato e suonato dai TProject di Gino Frattasio (basso e programmazione) e Pasquale Marchese (batteria e percussioni), con il suggestivo e avvolgente intervento al sax tenore di Giovanni Sorvillo e con la produzione di Ciro Bianco (ingegnere del suono). Apprendo dalla rete che “Jazz Mantana” è la prima di undici tracce di un album di prossima uscita su cui i TProject stanno lavorando da quattro anni. Le foto del video che raffigurano le strade di Via Roma, Via Croce San Sossio e Via Vittorio Veneto (il cuore di Chiazza Mantano) sono state in gran parte prestate dall’Istituto di Studi Atellani e selezionate da Marino Landolfo. Si alternano e si sovrappongono con le immagini di grandi jazzisti internazionali (tra gli altri, Lester Young, Charles Mingus, Elvin Jones, Sonny Rollins, Chet Baker, John Coltrane e Charlie Parker) e con le foto di alcuni musicisti locali (i fratelli Munari, che cominciarono la loro carriera suonando il jazz per gli americani delle basi NATO, Franco Del Prete, cofondatore degli Showman e dei Napoli Centrale, e Larry Nocella, il grande sassofonista di Battipaglia che a Chiazza Mantano era di casa). Di tanto in tanto le immagini si animano con qualche frammento video dei musicisti del TProject nell’atto di suonare e registrare il brano che stiamo ascoltando. Se vede pure ‘a casa mia, comm’era e comm’è, e quella di Franco Del Prete! Siamo entrambi talmente chiazzamantanesi che Franco, da ragazzo, lavorava nel bar di mio nonno materno e per tutto il resto della sua vita ci incontravamo e salutavamo con affetto dappertutto, in salumeria, dal giornalaio, dal fruttivendolo, nel bar Mastrominico dove suonava fino a tarda notte con Larry Nocella, fuori casa sua e fuori casa mia. Ed io ricordavo che nel juke-box del bar del nonno risuonavano sempre le sue canzoni…
Da un punto di vista più strettamente musicale “Jazz Mantana” è un bel brano di jazz rock dall’andamento lento e suggestivo che ricorda il Miles Davis degli ultimi anni (soprattutto quello anni ‘80 degli album arrangiati e prodotti da Marcus Miller), ma ha anche una sua mediterraneità (riscontrabile fin dalle prime battute di uno strumento a corde che potrebbe essere un oud o una mandola) che ci riconducono alle produzioni di Chick Corea, John McLaughlin e Al Di Meola, ed anche dalle parti del Perigeo e dei Napoli Centrale, of course. In ogni modo, i riferimenti significano poco ed hanno il vizio della soggettività (per il tappeto sonoro elettronico, caldo e ipnotico avrei potuto parlare anche del jazz scandinavo di un Nils Petter Molvær o di quello inglese di John Surman, tano per moltiplicare gli esempi). Quello che conta è che il brano ha una sua personale forza evocativa e il suo incedere fluisce in modo liquido e insinuante nelle orecchie e nell’animo dell’ascoltatore, grazie anche al recitare ruvido di Pasquale e alle note graffianti del sax di Sorvillo. Potente e suadente la linea di basso che percorre i 5 o 6 minuti di musica.
Ascoltandolo mi sto un po’ riconciliando con la mia terra e sto facendo pace con questo invadente me stesso in perenne abbattimento e ricostruzione. Come il cemento del mio quartiere e della mia città.
Tre Note
* Ricordo, a piè di pagina, che prima dell’unità d’Italia e ancora fino al primo dopoguerra, Frattamaggiore era divisa in chiazze – quartieri storici – che presumibilmente si svilupparono a raggiera intorno al centro della città, denominato Chiazza d’Agno, dove “agno(lo)” vuol dire “angelo”. A Chiazza d’Agno (oggi più comunemente definita ‘Mmiezzo ‘e Fratta) c’era la chiesa di San Sossio, risalente agli ultimi anni dell’Alto Medievo, e più tardi anche la sede del Municipio. Gli altri punti nevragici della città erano popolarmente conosciuti come Chiazza Pertuso (un “pertugio” alle spalle della chiesa); Abbascio all’Arco (oggi Piazza Riscatto); ‘Nmont’Accetta (zona residenziale più moderna sviluppata ai tempi del fascismo; come si evidenzia dall’accetta di questo suo toponimo che pare essere una rievocazione dell’ascia del fascio littorio effigiata su un muro di quella che è oggi Via Padre Mario Vergara); Sfasciacarrozza (oggi Voltacarrozza, zona lungo il lato destro della provinciale per Afragola, così chiamata perché la strada era così malridotta da rompere le ruote dei carri). E ancora; ‘Nmonte San Giuanne (oggi Via Genoino), Abbascio a’ Cupa (tra via Matteotti, sede storica del Liceo Durante, e via Cumana); ‘Ngoppe ‘e filatore (Via Fiume); ‘Aret’a Iacciera (Via Carmelo Pezzullo, sede di una ghiacciera); ‘Ngoppe ‘a Muntagnella (zona rialzata di Chiazza Mantano, parallela a Via Vittorio Veneto); ‘Ngoppe ‘e Filangieri (tra Via Vergara e la provinciale Fratta-Afragola, sede storica della ragioneria); ‘Nmonte ‘Icienzo (Via Amendola); ‘Ngoppe ‘a Carantonia (Via Biancardi); ‘Nmonte ‘e Scieme (zona periferica in cui negli anni ‘30 il dottor Tropeano fece costruire Villa Laura per ospitare persone con problemi psichici e psichiatrici); Abbascio ‘a Palla (via XXXI Maggio); ‘A Torre ‘e Palumme (torretta, ormai cadente, priva di parte dei merli, situata nella zona di Chiazza Mantano più vicina alla piazza centrale di Chiazza d’Agno)… E di certo dimentico qualche altro toponimo caratteristico della mia città, “sola abbandonata / invisibile spiata / fiera disprezzata / feroce incontrollata / ma è la mia città”.** “Ma che bella città – ah, ah, ah, ah. Sento l’acqua alla gola – ah, ah, ah, ah. Forse è un colpo di mano – oh, oh, oh, oh. Forse è stata la scuola – ah, ah, ah, ah, ah. Io venivo di là… Ah, ma che bella città… Ah!”***
** Da “La mia città“, brano di Edoardo Bennato dall’album “Pronti a salpare” del 2015.
*** Da “Ma che bella città“, brano di Edoardo Bennato dall’album “I buoni e i cattivi” del 1974. Come passa il tempo! Come sono lente a cambiare le cose dalle nostre parti.
Un paio di millenni fa, Cesare Ottaviano Augusto, il primo imperatore di Roma, cominciò a concepire un intricato sistema amministrativo per assicurarsi continuità nel potere: creava continuamente nuove cariche pubbliche e le faceva durare poco, in modo da moltiplicare la sua rete di clientele e consensi, assicurandosi, però, che nessuno potesse consolidare un livello di potere tale da poterlo scavalcare. Una serie di contentini che, più che all’interesse per la cosa pubblica, puntavano all’interesse personale degli amministratori e dell’imperatore.
Una storia che si ripete da duemila anni a livello locale e a livello (sovra)nazionale; a volte come tragedia e a volte come farsa.
Oggi, per esempio, come è già capitato numerose altre volte, a Frattamaggiore si sta organizzando un ennesimo rimpasto della giunta. Un fatto che si ripete ciclicamente cercando di accontentare gli interessi di questo e di quello per raggiungere un equilibrio instabile in cui sembra contare veramente poco l’interesse per la cosa pubblica e per i beni comuni. Senza alcuna apparente attenzione per la continuità amministrativa e per il compimento delle azioni messe in atto dai singoli assessori.
Mi vengono in mente certe commedie di Feydeau, tutte fatte di intrecci tragicomici, porte sbattute, falsi moralismi, promesse non mantenute, amori fugaci e tradimenti. E trovo sempre più difficile avere fiducia nella capacità della politica di migliorare la vita dei cittadini. Anche a livello locale; localissimo.
A riprova della ricorsività della storia, metto qua sotto uno screenshot di un gennaio di sette anni fa, in cui dicevo cose simili (con toni più impudenti e ingiuriosi dai quali con l’età mi sono allontanato), riferendomi ad un altro rimpasto nella giunta comunale di Frattamaggiore, capitanata dallo stesso sindaco di ora, figlio di un altro sindaco che aveva amministrato la città a cavallo tra il secondo e il terzo millennio.
Il clima si innalza, si sciolgono i ghiacciai, si alza il livello delle acque; dell’Olanda restano solo gli edifici degli ultimi piani dei grattacieli; piazza San Marco scompare; Piazza Dante viene sommersa dalle acque e la villa comunale di Frattamaggiore diventa un lido circondato da palazzine vista mare.