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La metafisica dei tramonti
19 venerdì Ago 2016
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29 mercoledì Giu 2016
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21 giovedì Apr 2016
Posted immagini, riflessioni, vita civile
inSe qualche estraneo, di qualsiasi colore, cultura, culto o religione, irrompesse a casa mia e si prendesse il po’ di cose che conservo oppure sfasciasse tutto, mi incazzerei, certo che mi incazzerei. Soprattutto se mettesse le mani sui miei cd, sui miei libri e sui libri e i giocattoli della piccola.
Ma questo non mi fa diventare automaticamente un giustiziere delle notte né mi fa schierare a favore delle blateranti richieste che puntano a difendere la propria roba con unghie, denti e colpi di fucile sparati all’impazzata sul primo che mette piede nel territorio ristretto dell’altrui proprietà privata. (“Cazzo, era il postino!”, “Accidenti, hai ucciso l’amante della signora del quarto piano!”, “Bastardo, sono tuo cugino Giovanni, avevo messo la parrucca per farti uno scherzo”, “Sorbole, Luisa, ho sparato allo specchio nel corridoio. Ma dici che porta sfiga?”).
Se mai servisse a qualcosa, la legge avrebbe soprattutto la funzione di difendere noi stessi dagli istinti distruttivi che ci assalgono contro chi ci fa del male, evitando che possiamo arrivare a giudizi sommari, esecuzioni in pubblica piazza, faide inarrestabili o risposte spropositate rispetto al torto presunto o subito.
E invece, rimbalzano da bar a tivvù, social network e parlamento voci, vomiti e rutti che affermano la centralità assoluta della sicurezza e invocano il diritto alla legittima difesa per casi sempre più ampli e vaghi.
Tutto questo mi fa molta paura, anche perché vedo tranquilli impiegati del catasto copiare e incollare terribili proclami degni del taglio di mani del sistema legislativo islamico o della sedia elettrica pre-beccariana degli Stati Uniti d’America.
Dite quello che volete e spargete pure in giro la vostra droga fatta di sospetto e paura, io cerco ancora di restare umano e continuo a credere che queste sono le classiche battaglie di retroguardia di una destra sempre più allargata, dilagante e dominante. Forse sarà pure vero che la sicurezza, come ripete la vulgata politico-popolare, non è né di destra né di sinistra. Ma questa pressante richiesta di armarsi e sparare, questa strenua difesa della proprietà privata, questa legge della giungla con la colonna sonora di Mezzogiorno di fuoco, sono parte di una cultura destrorsa che urla a pieni polmoni, ascolta con la pancia e ragiona coi coglioni.
Insomma, se siete anche voi in attesa dell’improbabile referendum ammazzacattivi, rassegnatevi, siete fascisti, filonazisti oppure insalvinati, il che, forse, è pure peggio.
Una considerazione al margine al confine di questo pensiero: quante certezze nelle magnifiche sorti dell’umanità e del sol dell’avvenire sono crollate con quel muro…!
22 lunedì Feb 2016
Posted immagini, riflessioni, vita civile
inQuesto fatto che i social ci fanno stare in mezzo agli altri restando lontano dal mondo e dai suoi odori ha i suoi effetti collaterali. Vedi persone timide presentarsi come leoni, donne e uomini pieni di pudore scrivere di passioni violente e sboccate, ragazzi violenti copincollare frasi tenere e iperromantiche e vecchietti riservati dibattere con acerbo furore. Facebook è uno specchio della realtà che sta davanti, dietro e di lato rispetto a questi schermi; ma i suoi specchi sono specchi deformanti che ingrossano, sfilzano, ingrassano, incattiviscono e imbellettano la realtà extravirtuale.
Tra tutte queste deformazioni grottesche, quella che mi incuriosisce di più è la veemenza che noto in certe discussioni che nascono e muoiono in rete. Non te lo aspetti che l’impiegato del quarto piano che quando lo incontri sembra aver paura anche di salutare possa incazzarsi tanto parlando di calcio, di Sanremo o di politica internazionale. È come se la nostra voce uscisse ingigantita dalle cavità di una maschera indossata con scarsa o nulla consapevolezza del suo potere di amplificazione.
Certi comportamenti mi ricordano i cambiamenti che subiamo un po’ tutti quando siamo in macchina. Chiusi in quella scatoletta che è un prolungamento della nostra casa, ci sentiamo in diritto di fare e dire cose (dita nel naso, rutti, urla, bestemmie, imprecazioni) che non ci si sogneremmo mai di dire e di fare camminando a piedi, per strada, tra persone conosciute e sconosciute. Ma là dentro, protetti come nel ventre materno, l’opinione altrui è vissuta come un’invasione, come un’orda di extracomunitari che ti arriva in casa e ti ruba l’orologio della prima comunione e la biancheria di famiglia, e cominci a imprecare come un ergastolano in cella di isolamento.
disfraz [sm]: maschera (f), travestimento
disfrazar [v tr]: travestire, mascherare
08 lunedì Feb 2016
Posted da lontano, immagini, vita civile
inStorie di canapa e di cambiamenti
La mia bisnonna, madre del mio nonno paterno, la chiamavano ‘A principale, ma il suo nome era Orsola, Orsola Farina, un nome che mi ha sempre fatto pensare al freddo polare e agli orsi bianchi. Era una signora pratica, donna Orsola, una femmina concreta, tutta dedita alla famiglia e al lavoro; una donna temutissima dai braccianti e dalle “pettinatrici” che lavoravano nella sua azienda e forse anche da molti dei suoi e miei parenti più prossimi e lontani.
Una dissacrante versione familiare vuole che il mito della sua incredibile capacità di tenere sotto controllo i dipendenti della sua azienda fosse dovuto al fatto che il marito, disertore, si nascondesse tra le balle di canapa e cogliesse l’occasione per spiare i lavoranti, per poi riportare alla moglie notizie di quelli che rubavano, gozzovigliavano, rallentavano la produzione, sprecavano i materiali o mal lavoravano. Ma è probabile che queste siano solo ricostruzioni leggendarie e irriverenti. Quello che è certo è che la canapa era il fulcro della sua vita e la materia prima su cui si sosteneva gran parte dell’economia frattese fino alla prima metà del ‘900.
Sarà stato per questo che donna Orsola volle farsi ritrarre tra le balle di canapa come una delle lavoranti della sua azienda, ma con lo sguardo dritto di chi è abituato a comandare e non si fa intimidire da nessuno, nemmeno da quel pittore venuto da chissà dove.
“Ritratto di Orsola Farina detta ‘A Principale” di Luigi Avitabile, 1939 -olio su tela, 100x110cm.
Io l’ho conosciuta, la bisnonna, quando già la sua mente vacillava. Il donnone che un paio di decenni prima faceva tremare chiunque incrociasse il suo sguardo si era trasformato in una stramba vecchina che faceva ridere nipoti e bisnipoti e suscitava tristezza e sconforto in tutti quelli che intravedevano in lei i segni della loro stessa decadenza.
Erano arrivati gli anni ’70, la canapa era stata sostituita da più economiche e meno lavorate fibre sintetiche; Donna Orsola aveva cominciato a vivere in un appartamentino piccolo borghese, l’azienda aveva chiuso da anni e il patrimonio si era esaurito ancora prima. Lei, però, credeva di abitare ancora nel suo “palazzo” padronale che intanto era diventato un condominio di 46 appartamenti e non so quanti negozi: vedeva noi bambini scorrazzare giù al cortile e gridava che le galline erano scappate dal pollaio e giravano in bici; andava dal dentista e voleva pagare in centesimi di lira; tagliava, lavava e stendeva ad asciugare i polsini della vestaglia per non sprecare soldi, tempo e acqua a lavare tutta una vestaglia macchiata solo su un polsino; scambiava le barbe di mio padre e di mio zio Gennaro per dei missionari della comunità del nipote Mario, per il quale lei, sempre così attenta al valore del denaro, era disposta ad elargire un obolo destinato ai poveri della Birmania o di altri paesi sconosciuti e lontani. Ma il ricordo più vivido che ho della bisnonna Orsola risale a quando mi nascondevo sotto il suo letto coi miei cugini e la vedevo parlare allo specchio con il suo riflesso: pensava di comunicare con la sorella e finiva sempre per irritarsi quando, d’improvviso, quel vecchio corpo piegato dagli anni spariva dietro l’anta dell’armadio.
Col tempo, sai, tutto passa e se ne va: le schiene si curvano, le menti si affievoliscono, gli edifici crollano e i ricordi si nascondono ai bordi degli specchi. Ma a volte ritornano con forza momenti del passato ed anche usi, modi e tradizioni che sembravano destinati a definitiva sparizione. Non si muove su una linea retta la storia; piuttosto segue percorsi a zig zag, spirali, parabole e curve che si richiudono su se stesse.
Ora, pare che anche la produzione e la trasformazione della canapa possano avere una nuova vita qui a Frattamaggiore, in questo territorio avvallato tra Napoli e Caserta, nelle stesse zone in cui erano impegnati a lavorarla e venderla donna Orsola e le donne e gli uomini che erano alle sue dipendenze.
Per come la vedo io, sarebbe molto bello assistere a questa rinascita della tradizione canapiera locale, ma con condizioni e contratti di lavoro da terzo millennio e senza l’occhio severo della Principale affacciata al balcone a guardare le galline scorrazzare in bici o ritratta con le mani intente a intrecciare la canapa che era stata lavorata da qualcun altro.
Campagna, campagna,
comme è bella ‘a campagna,
Ma è cchiù bella p’o padrone
ca se regne ‘e sacche d’oro
e ‘a padrona sua signora
ca si ‘ngrassa sempre cchiù
ma chi zappa chesta terra
pe’ nu muorz’ ‘e pane niro
ca ‘a campagna s’arritrova
d’acqua strutt’ e culo rutto
[…]
Campagna, campagna
comme è bella ‘a campagna
è cchiù bella p’e figlie
do padrone da terra
ca ce vene sulamente
cu ll’amice a pazzià,
ma po’ figlio do bracciante
‘a campagna è n’ata cosa
‘a campagna è sulamente
rine rutt’ e niente cchiù.
Campagna, campagna,
comme è bella ‘a campagna.
Sono versi di Franco Del Prete, un altro frattese, cantati dai Napoli Centrale in un memorabile disco del ’75 che ascoltavo da ragazzino dal jukebox del bar del mio nonno materno, dove Franco, da ragazzino, aveva lavorato. Ma questa è un’altra ed è la stessa storia di paese, di provincia e di periferia.
12 martedì Gen 2016
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30 mercoledì Dic 2015
Posted immagini, otherstuff, riflessioni
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I folletti delle statistiche di WordPress.com hanno preparato un rapporto annuale 2015 per questo blog.
Clicca qui, se vuoi vedere il rapporto completo.
25 venerdì Dic 2015
Posted immagini, recensioni, vita civile
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Ieri si è concluso il mio progetto dedicato alla “Fuga in Egitto” nell’arte e nella realtà dei profughi di ogni tempo e religione, ma gli auguri di Buon Natale di oggi ve li ho voluti fare sfruttando una delle tante immagini che mi sono avanzate.
È un’acquaforte del grande Rembrandt (1606-1669) con un bizzarro Giuseppe che trascina il classico ciuchino con un abbigliamento che sembra quello di un Babbo Natale ante litteram.
A questa immagine involontariamente natalizia affido i miei migliori auguri di giustizia, bellezza e pace in terra; e rivolgo questi auguri a tutte le donne e a tutti gli uomini di buona volontà e buone azioni. Agli altri non dico niente.
P.s. Visto che siamo nel pieno delle feste, vi mando un link a tutto il mio piccolo progetto dedicato alla “Fuga in Egitto” di cui parlavo all’inizio di questo post. Prendetevi un momento di pausa e lasciate che un po’ di arte vi accarezzi gli occhi e la mente.
Se siete anche religiosi, c’è di che inginocchiarsi e meditare; se non lo siete, potete meditare anche in piedi.
https://aitan.tumblr.com/tagged/egipto
Vittore Carpaccio, XVI secolo
Per concludere, in appendice all’appendice, un piccolo albero di parole:
*
Cola
Coca&
made in
o a un babbo rosso
davanti a un presepe
con gli occhi pieni di gioia
Ma è sempre bello vedere un bambino
Questi son giorni di abeti, diabeti e che palle.
21 sabato Nov 2015
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27 martedì Ott 2015
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Per non parlare del soffritto di maiale prossimo venturo…
Che già me lo sto pregustando
immaginando mari rossi
in cui immergere generose
forchettate di vermicelli o spaghetti.
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