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Un mucchio di opinioni sulla scuola, sulla formazione e sull’istruzione
Ensinar não é transferir conhecimento, mas criar as possibilidades para a sua própria produção ou a sua construção.
ovvero (traducendo ed ampliando molto liberamente il pensiero di Paulo Freire):
Insegnare non consiste nel travasare sapere, ma nel creare le possibilità per l’apprendimento e lo sviluppo di nozioni utili per sopravvivere ed orientarsi nella realtà e per la produzione o la costruzione di idee e di conoscenze che ci servono per cambiare il mondo e noi stessi.

Sulla scuola tutti abbiamo un’opinione. Bene o male un po’ di scuola l’abbiamo fatta tutti e tutti abbiamo congiunti, discendenti, madri, figli o figlie che la stanno facendo, da un lato o dall’altro della cattedra. E poi la scuola offre un servizio pubblico pure quando è privata e gli insegnanti, di riffa o di raffa, li paghiamo noi. E anche i bidelli, gli impiegati di segreteria, i funzionari, i ministri e gli ispettori…
Eccheccacchio, qua tutti abbiamo il diritto di dire la nostra, di esprimere critiche e affastellare punti di vista, idee e ricette risolutive.
La scuola è di tutti, mica del personale scolastico, dei presidi e dei legislatori!
La scuola è il volano della società; anzi, no, è un suo specchio; no no è un luogo di educazione e di rieducazione, un laboratorio di diffusione del sapere, una caserma ben organizzata, una palestra per la vita, uno spazio di competizione che ti prepara per la giungla che sta là fuori; no, no, non ci siamo proprio, la scuola è tutt’altro da quello che dici, è uno spazio di condivisione che ti abitua a convivere e a collaborare con gli altri; seee se, tutte stronzate: leggere, scrivere e far di conto, e poi patria, famiglia e religione, per preparare il cittadino di oggi e di domani, dare competenze per il mondo del lavoro; ad ognuno a seconda delle sue capacità, ad ognuno in merito al suo merito; la scuola deve abituare al cambiamento, deve sviluppare il senso critico, la scuola; educare, formare, inculcare i valori, questo ed altro deve fare la scuola.
Insomma, chi considera gli alunni come dei vasi vuoti, chi come un fuoco da accendere; chi la scuola la vuole ben cotta, chi al sangue e chi nuda e cruda. E poi ci sono quelli che vogliono la scuola statale e quelli che la vogliono cattolica e confessionale, quelli che la vogliono pubblica e quelli che la vogliono privata; privata di tutto.

Per quello che mi riguarda, come insegnante, non credo di dover riempire vasi né ritengo di dover indicare ai miei alunni cosa pensare; ma ho la velleità di dare alle nuove generazioni qualche strumento per scoprire, capire e cambiare qualcosa del mondo immenso che sta fuori e dentro ciascuno di noi.
Insegno loro che se davvero vogliono essere donne e uomini liberi, debbono continuare a liberarsi dalla loro ignoranza e cominciare a pensare in modo critico e autonomo. Li esorto a non diffondere il pensiero altrui senza prima rifletterlo in sé stessi e farlo loro. Mostro che la cultura è una chiave e un grimaldello, ma anche un’arma letale che, se non impariamo ad usare in modo proprio, può essere usata contro di noi da chi ci manipola e ci sfrutta col nostro placido consenso.
Cerco di convincerli a rispettarsi e rispettare se stessi e il mondo in cui conviviamo. Ripeto che chi è civilizzato riconosce la piena umanità degli altri e quindi li tratta nella stessa maniera e con la stessa attenzione che vorrebbe per sé.
Insisto sul fatto che abbiamo qualcosa da imparare da tutte le persone in cui ci capita di imbatterci (se guardiamo le cose in prospettiva, i peggiori maestri ci sono serviti da insegnamento quanto i migliori, dato che hanno costituito per noi dei modelli da evitare, degli esempi negativi che mostrano con tutta evidenza quello che non va fatto).
Cerco di non far confondere i mezzi e gli strumenti con i fini e con il senso della realtà. La vita è la vita e un telefonino è un telefonino. Dentro la vita ci può essere un telefonino, ma non si può identificare l’una con l’altra o l’altro con l’una.
Di tanto in tanto creo con i miei studenti anche dei conflitti, perché credo che lo scontro generazionale li aiuti a crescere e a diventare adulti e responsabili.
E poi cerco di sparire.
Un proverbio, credo sia un proverbio turco, dice che un “un buon insegnante è come una candela, si consuma per illuminare la strada per gli altri”. Un buon insegnante (e in fondo anche un padre buono e un buon padre) insegna come imparare, e quando gli alunni hanno davvero imparato a muoversi da soli, diventa inutile la sua guida e può rintanarsi in un angolo e sparire; si spegne come si spegne una candela che ha fatto già il suo tempo e svolto la sua funzione.
Mi illudo, infine, che da alunni autonomi e responsabili non possano venire fuori rigurgiti fascisti; sogno che nella vita cercheranno figure autorevoli, più che figure autoritarie. (Fin dai primi anni, li educo a non chiedermi il permesso neanche per andare in bagno. Spiego loro che se non si esce uno alla volta si crea il caos nei corridoi, cerco di convincerli che durante le spiegazioni non è il caso di allontanarsi dalla classe – a meno che non si abbia l’illusione di aver capito già tutto -, e poi li faccio uscire uno alla volta liberamente, senza chiedere niente a nessuno, senza interrompere il dialogo formativo e dopo essersi assicurati che non sia uscito qualcuno prima di loro).
E poi mi adopero affinché siano e si sentano meno soli in un’epoca di narcisismo, disperate solitudini e conformismo esasperante.

Roba difficile, in verità, il mestiere di insegnare. Ma quando si riesce, sono soddisfazioni impagabili (per quanto mal pagate, a dire il vero. Ma questa è un’altra storia che non voglio affrontare nemmanco in parentesi, per il momento).