Non si chiama più Ministero dell’educazione nazionale come ai tempi di Mussolini. Non si chiama più neanche Ministero della pubblica istruzione o Ministero dell’università e della ricerca o solo Ministero dell’Istruzione (quando si è scorporata l’istruzione dall’università e dalla ricerca). Non è più né MPI né MI né MIUR né MUR. Oggi giustamente abbiamo il MIM, il Ministero dell’istruzione e del Merito, che indica fin dal nome che l’Italia e gli italiani hanno la scuola che meritano.
Che poi quella M finale andrebbe aggiunta anche all’università, alla sanità, alla giustizia, al governo e all’intero parlamento visto che abbiamo anche il parlamento, il governo, la giustizia, la sanità e l’università che meritiamo!
Anzi, a volte penso che meritiamo questo ed altro, per quanto siamo incolti, sciattoni, creduloni, sfasati e sfaldati.
Fatta l’Italia si dovevano fare gli italiani. E in tanti si sono fatti, in verità. Di sostanze varie.
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Ma voglio lasciare anche un messaggio positivo che affido a un ricordo che sono andato a controllarmi usando i potenti mezzi della rete. Nel 2012 Margherita Hack – astronoma, astrofisica, simpatica e magnifica divulgatrice scientifica con marcato accento toscano e prima donna italiana a dirigere un osservatorio astronomico – in un’intervista a L’Espresso, in risposta all’aziendalizzazione della scuola promossa dall’allora ministro Profumo, dichiarò, tra le altre cose: “La scuola non è un’impresa, deve formare delle persone, non è solo il luogo dove imparare più o meno bene certi concetti.” “Dovrebbe privilegiare e promuovere quelli che vengono dalle classi più povere, perché è naturale che un ragazzo che nasce in una famiglia di operai, dove vede pochi libri, si trovi più a disagio di uno che nasce in una famiglia di professori. Dovremmo invece creare scuole a tempo pieno in cui si dedica molto tempo proprio ai giovani che vengono dalle classi più disagiate. Premiare il merito è giusto, certo, però bisogna tener conto delle condizioni di partenza.” “Il merito non si può valutare solo in base al rendimento, ma occorre valutarlo tenendo conto del punto di partenza, dall’impegno di una persona nel superare le difficoltà. E le difficoltà sono diverse a seconda dell’ambiente in cui uno è nato. Merito vuol dire impegno, costanza, forza di affrontare le difficoltà.”
Dagli stalli alle stalle e dalle stalle alle stelle.
Tra rivelazioni di Pulcinella ed oneri per lo Stato
Finalmente dal Ministero dell’Istruzione e del Merito si rendono conto dell’esistenza dei diplomifici, un sistema truffaldino per erogare titoli a persone non disposte a impegnarsi nello studio; un segreto di Pulcinella con sede specialmente in Campania e pseudo-studenti sparsi in tutta la penisola. Insomma, qui nel napoletano si prepara la minestra riscaldata e adulterata, ma a mangiarla vengono da ogni dove, pagandola, tutto sommato, a buon mercato (e poi magari sono proprio questi consumatori provenienti da fuori porta i primi a sputare nel piatto dove hanno mangiato e ad accusare i malaffari della malavita meridionale).
Con l’aggravante dei contributi statali erogati alle paritarie nel Paese che nell’articolo 33 della Costituzione stabilisce che “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, SENZA ONERI PER LO STATO” (i caratteri cubitali li ho aggiunti io per sottolineare un’incongruenza che mi appare evidente e scandalosa, checché ne dicano cattolici, postfascisti, pseudoliberali e neoliberisti del mio stivale); e il risultato paradossale che ne consegue è che chi sceglie di fare gli Esami di Stato in un diplomificio/partitario riceve pure 500 euro di sussidi statali (che provengono anche da mie tasse e tributi, da quanto ne so).
Personalmente, pur svolgendo attività di insegnamento da oltre trenta anni, ho avuto la fortuna di non aver mai messo piede in una scuola privata o paritaria, neanche per l’umiliazione di fare da commissario esterno in classi di 35 alunni di varia provenienza che si presentano agli esami con crediti altissimi, tali da rendere molto difficile una bocciatura anche quando si attribuiscono valutazioni gravemente negative alle prove scritte e orali. E una gran parte di questi alunni è molto probabile che quelle aule non le abbia mai frequentate prima di quegli esami, per quanto risultasse “regolarmente iscritto negli elenchi”.
Insomma, il pentolone è stato scoperchiato, ora si spera che si vada avanti e che non ci si limiti agli annunci giornalistici. Dal ministero già ci dicono che per fronteggiare questo fenomeno in espansione si avrà bisogno di aumentare il contingente degli ispettori; bene, lo si faccia. Ma per certe cose potrebbe cominciare ad agire anche la magistratura. Da quanto mi consta, è già capitato in passato che siano state chiuse scuole paritarie in cui si registrava la presenza di studenti che stavano facendo i soldati a Kabul o che giocavano in nazionale in giorni in cui risultavano in classe. Ma non voglio lamentarmi preventivamente o porre pregiudiziali antigovernative. Per ora, lo ribadisco, ritengo già che sia un bene il fatto che si cominci a parlarne. Poi, magari, sarebbe il caso di gettare uno sguardo anche sui laurifici e i maneggi delle università a distanza.
Oppure aboliamoli proprio questi titoli di studio, o chiudiamo tutte le scuole e le università pubbliche e private, e non se ne parli più.
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Di seguito una breve clip video illustrativa che integra il testo e le immagini.
Specifico che, salvo il primo e l’ultimo fotogramma, tutte le illustrazioni di questo video sono state integralmente realizzate sfruttando l’intelligenza artificiale di PicsArt. Senza oneri per lo Stato.
Chavales, gli esami non finiscono mai, ma questi di Stato, per voi, ormai sono belli e conclusi. (Per me, no. Io sono come quei secondini, che vedono tanti detenuti uscire di galera, ma loro restano sempre là, dentro le stesse mura reclusive e protettive.)
Sicuramente, come ogni anno, quando saranno esposti i voti finali, qualcuno sarà contento, qualcuno resterà deluso e qualcun altro si sentirà sottovalutato o sentirà sopravvalutato qualche compagno di classe. Succede sempre così. Però, tenete sempre presente che voi non siete quei numeri. Quei numeri sono solo la risultante dei vostri crediti e delle vostre performance scritte e orali. Voi siete altro e la vostra vita è altrove, anche se molti dei vostri ricordi resteranno fissi nella gabbia dorata di questi anni.
Ma, per l’amor del cielo e della terra, non pensate che la vostra formazione possa fermarsi qua. Non smettete di leggere, di appassionarvi e di farvi domande. Imparate ogni giorno qualcosa che non sapevate il giorno prima: una ricetta di cucina, un nuovo trucco, il nome di un calciatore, un passo di danza, una canzone che vi è rimasta appiccicata, una parola sconosciuta…
Un popolo povero di parole è un popolo manipolabile. Se davvero volete essere donne e uomini liberi, dovete continuare per tutta la vita a liberarvi dalla vostra ignoranza e non dovete illudervi mai di essere arrivati alla fine del vostro processo di formazione umana e culturale. State attenti alle scorciatoie e a chi sembra offrire soluzioni facili a problemi difficili e complessi. Dubitate di tutto, anche di queste mie parole e delle cose che vi abbiamo insegnato a scuola; ma dubitate prima di tutto di voi stessi, della correttezza dei vostri giudizi e della bontà delle vostre azioni. Poi, però, se siete certi di avere ragione, puntate i piedi, pretendete che vi ascoltino e prendetevi quello che è vostro!
Come a scuola, qualcuno di voi si sarà fermato alle prime righe, qualcuno sarà arrivato fin quaggiù e qualcun altro, dopo aver letto, andrà a leggersi anche i due link.
Ma ormai non ci sono più voti. Basta con le ricompense, le etichette e i ricatti in forma di numero. E basta anche con le spiegazioni, le conversazioni infinte e i tentativi di risvegliare le anime addormentate. Con voi, aggio fernuto ‘i fa’ ‘o prufessore.
Ma mi resta la speranza che a scuola vi abbiamo fornito qualche strumento per scoprire, capire e cambiare qualcosa del mondo immenso che sta fuori e dentro di ognuno di voi.
¡Enhorabuena a todo el mundo y buena suerte en cada una de las futuras pruebas que tengáis que enfrentar!
Hasta siempre, querid@s ex alumn@s del Filangieri de Frattamaggiore.
La despedida de los alumnos del último curso del año escolar 2022-23
Negli scorsi due giorni, una cena e un pranzo in pizzeria con le mie due quinte di quest’anno, due gruppi di ragazzi che ci lasciano per affrontare la vita fuori dalle mura familiari, angoscianti e protettive della scuola. Ho notato in entrambi i momenti conviviali una nostalgia preventiva e un attaccamento alla scuola vissuto con molta più intensità che nelle classi dei diplomandi di tre, quattro o cinque anni fa. In alcuni casi, sembra che si siano trovati così bene da non volersene andare (come quelle case materne – o paterne – che si fa difficoltà a lasciare per vivere una vita autonoma, responsabile e indipendente).
Sia in quinta F che in quinta BT, c’è stata qualcuna o qualcuno che ha letto lunghe lettere ai prof, ma soprattutto ai compagni, per ricordare gli anni trascorsi insieme. E i contenuti qualche volta erano ironici e divertenti, ma più spesso assumevano toni malinconici, riflessivi, commoventi e sentimentali.
Queste nuove generazioni mi sembrano più fragili, ma anche più sensibili di quelle degli anni passati. (Forse sono anche più forti di quanto fossimo noi, che i sentimenti tendevamo a nasconderli, qualche volta anche a noi stessi.) È come se i due anni di covid abbiano rafforzato i legami e la voglia di stare insieme di questi ragazzi che sono cresciuti negli anni della grande chiusura. E nel corso delle letture sono scappate anche tante lacrime (ma di covid, indicativamente, si è parlato poco o niente).
Preferisco, comunque, lasciare in foto qualche momento di allegria e convivialità. Per i pianti c’è sempre tempo. Troppo!
Per il resto, spero che a scuola siamo riusciti a fornire qualche strumento per scoprire, capire e cambiare qualcosa del mondo immenso che sta fuori e dentro di ognuno di loro. E auguro a tutti mucha suerte per l’esame e per le future prove che dovranno affrontare fuori e dentro dall’Istituto Filangieri.
Mi auguro ed auguro loro che ognuno possa dare sempre il meglio di se stesso e trovare qualcuno pronto a recepirlo!
Un mucchio di opinioni sulla scuola, sulla formazione e sull’istruzione
Ensinar não é transferir conhecimento, mas criar as possibilidades para a sua própria produção ou a sua construção.
ovvero (traducendo ed ampliando molto liberamente il pensiero di Paulo Freire):
Insegnare non consiste nel travasare sapere, ma nel creare le possibilità per l’apprendimento e lo sviluppo di nozioni utili per sopravvivere ed orientarsi nella realtà e per la produzione o la costruzione di idee e di conoscenze che ci servono per cambiare il mondo e noi stessi.
Sulla scuola tutti abbiamo un’opinione. Bene o male un po’ di scuola l’abbiamo fatta tutti e tutti abbiamo congiunti, discendenti, madri, figli o figlie che la stanno facendo, da un lato o dall’altro della cattedra. E poi la scuola offre un servizio pubblico pure quando è privata e gli insegnanti, di riffa o di raffa, li paghiamo noi. E anche i bidelli, gli impiegati di segreteria, i funzionari, i ministri e gli ispettori…
Eccheccacchio, qua tutti abbiamo il diritto di dire la nostra, di esprimere critiche e affastellare punti di vista, idee e ricette risolutive.
La scuola è di tutti, mica del personale scolastico, dei presidi e dei legislatori!
La scuola è il volano della società; anzi, no, è un suo specchio; no no è un luogo di educazione e di rieducazione, un laboratorio di diffusione del sapere, una caserma ben organizzata, una palestra per la vita, uno spazio di competizione che ti prepara per la giungla che sta là fuori; no, no, non ci siamo proprio, la scuola è tutt’altro da quello che dici, è uno spazio di condivisione che ti abitua a convivere e a collaborare con gli altri; seee se, tutte stronzate: leggere, scrivere e far di conto, e poi patria, famiglia e religione, per preparare il cittadino di oggi e di domani, dare competenze per il mondo del lavoro; ad ognuno a seconda delle sue capacità, ad ognuno in merito al suo merito; la scuola deve abituare al cambiamento, deve sviluppare il senso critico, la scuola; educare, formare, inculcare i valori, questo ed altro deve fare la scuola.
Insomma, chi considera gli alunni come dei vasi vuoti, chi come un fuoco da accendere; chi la scuola la vuole ben cotta, chi al sangue e chi nuda e cruda. E poi ci sono quelli che vogliono la scuola statale e quelli che la vogliono cattolica e confessionale, quelli che la vogliono pubblica e quelli che la vogliono privata; privata di tutto.
Per quello che mi riguarda, come insegnante, non credo di dover riempire vasi né ritengo di dover indicare ai miei alunni cosa pensare; ma ho la velleità di dare alle nuove generazioni qualche strumento per scoprire, capire e cambiare qualcosa del mondo immenso che sta fuori e dentro ciascuno di noi. Insegno loro che se davvero vogliono essere donne e uomini liberi, debbono continuare a liberarsi dalla loro ignoranza e cominciare a pensare in modo critico e autonomo. Li esorto a non diffondere il pensiero altrui senza prima rifletterlo in sé stessi e farlo loro. Mostro che la cultura è una chiave e un grimaldello, ma anche un’arma letale che, se non impariamo ad usare in modo proprio, può essere usata contro di noi da chi ci manipola e ci sfrutta col nostro placido consenso. Cerco di convincerli a rispettarsi e rispettare se stessi e il mondo in cui conviviamo. Ripeto che chi è civilizzato riconosce la piena umanità degli altri e quindi li tratta nella stessa maniera e con la stessa attenzione che vorrebbe per sé. Insisto sul fatto che abbiamo qualcosa da imparare da tutte le persone in cui ci capita di imbatterci (se guardiamo le cose in prospettiva, i peggiori maestri ci sono serviti da insegnamento quanto i migliori, dato che hanno costituito per noi dei modelli da evitare, degli esempi negativi che mostrano con tutta evidenza quello che non va fatto). Cerco di non far confondere i mezzi e gli strumenti con i fini e con il senso della realtà. La vita è la vita e un telefonino è un telefonino. Dentro la vita ci può essere un telefonino, ma non si può identificare l’una con l’altra o l’altro con l’una. Di tanto in tanto creo con i miei studenti anche dei conflitti, perché credo che lo scontro generazionale li aiuti a crescere e a diventare adulti e responsabili. E poi cerco di sparire. Un proverbio, credo sia un proverbio turco, dice che un “un buon insegnante è come una candela, si consuma per illuminare la strada per gli altri”. Un buon insegnante (e in fondo anche un padre buono e un buon padre) insegna come imparare, e quando gli alunni hanno davvero imparato a muoversi da soli, diventa inutile la sua guida e può rintanarsi in un angolo e sparire; si spegne come si spegne una candela che ha fatto già il suo tempo e svolto la sua funzione. Mi illudo, infine, che da alunni autonomi e responsabili non possano venire fuori rigurgiti fascisti; sogno che nella vita cercheranno figure autorevoli, più che figure autoritarie. (Fin dai primi anni, li educo a non chiedermi il permesso neanche per andare in bagno. Spiego loro che se non si esce uno alla volta si crea il caos nei corridoi, cerco di convincerli che durante le spiegazioni non è il caso di allontanarsi dalla classe – a meno che non si abbia l’illusione di aver capito già tutto -, e poi li faccio uscire uno alla volta liberamente, senza chiedere niente a nessuno, senza interrompere il dialogo formativo e dopo essersi assicurati che non sia uscito qualcuno prima di loro). E poi mi adopero affinché siano e si sentano meno soli in un’epoca di narcisismo, disperate solitudini e conformismo esasperante.
Roba difficile, in verità, il mestiere di insegnare. Ma quando si riesce, sono soddisfazioni impagabili (per quanto mal pagate, a dire il vero. Ma questa è un’altra storia che non voglio affrontare nemmanco in parentesi, per il momento).
Due anni dopo il bando previsto dal Decreto Dipartimentale n.499 del 21 aprile 2020, si sta tendendo in questi giorni il concorso ordinario per diventare insegnanti di scuole medie e superiori, il lavoro che svolgo con molte soddisfazioni e qualche frustrazione da più di trent’anni.
Leggo di tanti candidati (oltre 400 mila) per i circa 26 mila posti disponibili. Leggo di un’altissima media di respinti alla prima prova: si parla di percentuali che oscillano tra l’80% e il 90% di non idonei al test preselettivo, sostenuto al computer con domande a risposte multiple basate su argomenti inerenti alla classe di concorso, alla lingua inglese ed alle nuove tecnologie. La modalità, insomma, è sul modello dei quiz per la patente. Ed è proprio questa modalità di selezione ad essere ora sottoposta al vaglio della critica.
Ma io credo che non ci si possa soffermare solo su questo versante della questione. Credo che questo quizzone sia solo lo specchio di una crisi più generale, la punta dell’iceberg di un sistema che si sta dissolvendo. Credo che siamo arrivati a un corto circuito di un maledetto circolo vizioso in cui giriamo da decenni. Il classico cane che si morde la coda. Perché, alla fine dei conti, ogni Paese ha la scuola che merita. (Le scuole dovrebbero formare il Paese. Ma non possono essere il problema e la soluzione.)
Va be’, ci sto girando intorno. Torno all’attualità. Questi quiz hanno le loro criticità, ma pure loro non sono buoni o cattivi in sé. Se si usano in funzione preselettiva, come prima scrematura per verificare il possesso delle coordinate e delle competenze minime per svolgere una determinata mansione, beh, ben vengano. Ma io ho sentito parlare di domande assolutamente nozionistiche e fondate sulla ricerca del pelo nell’uovo. E leggo anche (senza aver verificato in prima persona, in verità) di opzioni di risposte multiple pressoché sovrapponibili (tipo aggettivi del tutto simili usati in opzioni di risposta diverse oppure date con pochi giorni, pochi mesi o pochi anni di differenza che possono essere scelte solo in virtù di una memoria prodigiosa o a caso o a culo). Ho letto perfino di domande formulate con dati errati o scritte in un italiano incerto e traballante.
Ovviamente tutto questo non va per niente bene e di certo non aiuta a selezionare la migliore classe docente a disposizione di questo scalcagnato Paese. Peraltro, conosco personalmente candidati preparati e divorati dal fuoco della passione formativa che sono stati fatti fuori per una manciata di punti (ma in fondo questa era anche una lotteria).
Poi ci sono molte altre cose che non vanno bene in questa storia, ma, insisto, sono tutte cose assolutamente inserite in un sistema Paese che presenta sempre di più le sue gravi lacune e contraddizioni. Non si tratta di una semplice e spiacevole eccezione, purtroppo.
Tanto per farvi indignare ancora un po’, elenco qualcuno di questi punti problematici che vengono messi in evidenza da questa bocciatura di massa:
– Università pubbliche che sfornano vagonate di laureati (molti dei qualche con voti di fascia alta o anche coronati con lode) che poi, in concorsi pubblici, rivelano che in larga maggioranza non sono in grado di superare un quiz preselettivo.
– Insegnanti precari che non riescono a “confermare” il proprio ruolo di insegnati, ma che il sistema continuerà a utilizzare tra i banchi di scuola.
– Candidati all’insegnamento che sono diventati docenti a tempo determinato acquistando crediti con ridicoli e scandalosi corsi a pagamento.
– Candidati che svolgono anni di precariato in squallidi diplomifici al solo scopo di acquistare punti e punteggi (magari dopo essersi pure diplomati e laureati in una di queste fabbriche di titoli di ogni livello o in università estere che sono costate alle famiglie fior di quattrini, e magari hanno pure vissuto l’esperienza fuori porta come una specie di vacanza premio).
– Disparità di risultati tra i candidati del Nord e quelli del Sud (non l’ho ancora verificata sui numeri, ma la ritengo probabile, in base a una disparità di formazione che comincia già dai giardini di infanzia e dalle scuole elementari, quasi tutte a tempo prolungato al Nord, quasi tutte solo mattutine al Sud).
– Scarsa attenzione, già in questa fase preselettiva, per le competenze (ed anche per le conoscenze) relative alle metodologie didattiche che chi insegna dovrebbe utilizzare per permettere ad ogni studente di raggiungere il massimo successo formativo.
– Futuri insegnanti che non sono in grado di accendere un computer che si preparano a lavorare in una scuola e in una realtà sempre più digitalizzata.
– La scarsa considerazione sociale per questo mestiere che porta molti a sceglierlo solo per avere un posto sicuro, per godere di un cospicuo numero di giorni di vacanza e per assicurarsi una pensione di anzianità. (Salvo rendersi conto, dopo aver conquistato il posto in cattedra, che la vita di un insegnante può essere meno comoda di quanto sembrasse dal di fuori).
Mi fermo qua, l’elenco sarebbe più lungo di così. Ma, ribadisco, si tratterebbe solo di uno specchio (magari un po’ deformato) di una società complessivamente in crisi. La scuola dovrebbe servire da volano per cambiarla e migliorarla questa società. Ma bisognerebbe fare un serio sforzo per uscire dal circolo vizioso. Bisognerebbe investire più risorse (umane e materiali) e metterci tutta la volontà politica per agire il cambiamento.
“Investiremo per prima cosa in educazione, per seconda cosa in educazione e per terza cosa in educazione. Un popolo istruito è in grado di scegliere nel migliore dei modi, nella vita, ed è molto difficile che lo ingannino i corrotti e i bugiardi.”
Questo lo ha detto José ‘Pepe’ Mujica, ex Presidente dell’Uruguay, dal quale ci sarebbe molto da imparare. In Italia, invece, la tendenza di ogni governo – di destra, di centrodestra, di sinistra, di centrosinistra, di sedicente aldilà del bene e del male e oltre la destra e la sinistra… – è sempre la stessa: tagliare fondi alla scuola. Un’ignobile costante.
Sarebbe il caso che facessimo un’indagine nazionale, un esame di coscienza collettivo per chiederci cosa vogliamo dalla scuola e capire dove stiamo sbagliando. Dai ministri ai dirigenti, a tutto al personale della scuola e agli stessi genitori. Stiamo dando poca centralità alla formazione delle nuove generazioni. Stiamo svalutando la scuola anche agli occhi dei nostri figli. Invece di svecchiarla (perché anche di questo ci sarebbe bisogno) la stiamo affossando.
Io, da parte mia, certe cose le dico da tanto tempo (avevo 22-23 anni quando ho cominciato a lavorare nella scuola come animatore teatrale), sto invecchiando a forza di ripeterle; ma lo so bene che le mie parole hanno la stessa forza di persuasione dei miei richiami alla giustizia ed alla pace nel mondo.
“La scuola è fondamentale. Non abbandonarti, non abbandonarla. Io tutto quello che so fare l’ho imparato tra i banchi di scuola mentre i professori spiegavano e io pensavo ad altro, disegnavo e facevo piedino con la gamba della sedia.”
“Poi ogni tanto qualcuno di loro mi distraeva per cercare di ficcarmi qualcosa in testa. Un’impresa piuttosto inutile, in verità, in cui si impegolavano sia i migliori che i peggiori insegnanti che popolavano le mie mattinate.”
“Ma a dirla tutta, qualcosa dei migliori mi è pure restato. Schegge di frasi che continuano a risuonare tra i miei pensieri e qualche espressione buffa buttata là per caso o apposta per farmi alzare la testa dal banco e distogliermi dalle mie preoccupazioni.”
“Eppure, personalmente credo di aver imparato di più dai miei peggiori maestri che da quelli buoni. Ognuno di quei cattivi insegnanti, a modo suo, mi è servito da modello di quello che non avrei dovuto dire o non avrei dovuto fare, una volta lasciati i banchi di quelle aule buie.”
“Insomma, loro hanno cercato di ammorbarmi la vita. Ma non sono riusciti a farlo più di quanto mi ammorbassi già da solo.”
“Tu, però, non abbandonarla la scuola. Stare da soli, chiusi in casa con i propri pensieri non è la stessa cosa che mettersi a pensare in mezzo a quel bruisio, coi tuoi coetanei intorno che pensano ai cazzi loro. E l’università della strada può darti noie e maestri perfino peggiori.”
Giles Ravager “Avrei potuto fare di più, ma sono contento di quello che non ho fatto. Confessioni di un indolente che non si pente di nulla e di niente.” Inexistent Edizioni, 2022
Come lavoratore della conoscenza, non mi spaventa tanto l’idea di essere sostituito da un robot o da un algoritmo che faccia al mio posto le operazioni più manuali e ripetitive che attengono alla mia attività lavorativa, quanto il pensiero che qualcuno monetizzi il tempo libero che deriva dalla digitalizzazione senza che io ne tragga alcun vantaggio.
Il digitale è un mezzo di per sé innocente che va im-piegato a vantaggio dell’uomo. Non è dannoso di per sé, può essere dannoso un suo uso distorto, acritico o non consapevole. Un po’ come l’acqua, che la puoi usare per bere, per lavarti, per sguazzarci dentro o per affogare. In questi termini la digitalizzazione del lavoro dipendente può essere perfino intesa come uno strumento di liberazione, un modo per affrancarsi dall’alienazione e dalle catene (non solo quelle di montaggio…).
Se, per esempio, posso creare un test autocorrettivo che mi fa risparmiare il tempo e la scocciatura di passare in rosso decine e decine di errori dei miei alunni, non può che farmi piacere, visto che il tempo che dedico a un’attenta realizzazione di una prova digitale contenente le chiavi di risposta è ampiamente compensato dal tempo che risparmio nella correzione. Oltre al fatto che, a lavoro concluso, ho maggiore agio nell’analizzare gli errori singoli e quelli ricorrenti e concepire strategie per mettere a punto quello che non è arrivato ai ragazzi nel processo di apprendimento. Inoltre, credo che anche gli alunni si avvantaggino dei test autocorrettivi, dal momento che possono ricevere il risultato della loro produzione in modo più rapido e oggettivo.
E poi, restando nell’ambito dei vantaggi offerti dal mezzo, può risultare utile anche la possibilità di registrare lezioni per proporre una visione asincrona e replicabile, oppure usare lavagne interattive, preparare presentazioni multimediali, creare spazi di condivisione, aprire le mura di casa e di scuola alla realtà esterna, avere a disposizione un mare sterminato di dati in cui imparare a navigare, organizzare cacce al tesoro online…
Insomma, entro certi limiti, ben venga la digitalizzazione dell’insegnamento e di altre attività lavorative di tipo intellettuale. L’importante, però, è che il tempo che si risparmia e la possibilità di replica delle attività salvate si trasformi in tempo libero per il dipendente salariato e non in ulteriore profitto per il datore di lavoro o in una diminuzione (ulteriore) dei posti di lavoro disponibili.
Se i padroni della ferriera vogliono per loro la capra dell’algoritmo e il cavolo del nostro tempo, ci dobbiamo far sentire e affermare con forza i nostri sacrosanti diritti. Cosa che nel mondo della scuola siamo piuttosto incapaci di fare.
Gli istituti scolastici sono chiusi, ma la scuola è aperta e operativa, anche qui in Campania, dove la distanza è stata più persistente e prolungata che altrove. La telematica, con tutti i suoi limiti e con le sue molteplici possibilità, ci è venuta in soccorso è ci ha permesso di continuare a tenere aperto un canale di comunicazione e formazione con i nostri studenti e, magari, anche a sentirci tutti meno soli. La DAD non va né esaltata né demonizzata. Come capita spesso in ambito formativo, dobbiamo imparare, piuttosto, a prendere dal semi-nuovo che avanza il buono che c’è e scartare quello che non funziona.
Alla luce di queste vaghe considerazioni, provo a fare un elenco (concreto) di quello che va e di quello che non va nella didattica a distanza. Mi fondo sulla mia esperienza (che risale almeno a venti anni prima della didattica nell’epoca del covid); ma chiedo anche il vostro contributo per approfondire i punti di forza e le debolezze di questa modalità di formazione digitale.
Cosa non funziona in DAD – Qualsiasi tipo di insegnamento che preveda lo sviluppo della manualità o della psicomotricità del discente (dall’apprendimento della scrittura nella scuola dell’infanzia e in prima elementare all’approfondimento dello studio di uno strumento musicale o di uno strumento di lavoro nei livelli superiori) – Lezioni esclusivamente trasmissive (45-60 minuti di parlato no stop) – Interrogazioni fiume (un discente che parla da casa, magari sbirciando da un libro, mentre i suoi compagni se ne stanno per i fatti loro aspettando che il tempo passi) – Lezioni prive di sussidi visivi (dove per sussidi visivi intendo anche la semplice condivisione di una lavagna, un evidenziatore che sottolinei le parole chiave di un testo, la visione condivisa di un’immagine significativa…) – Lezioni prive di sussidi audio (da semplici condivisioni di un brano musicale o cantato a video opportunamente scelti nel mare magnum della rete) – Dibattiti che non prevedano il rispetto dei turni di parola – Piena ricezione dei bisogni emotivi dell’alunno – Piena inclusione dei più fragili e di chi non ha dispositivi e spazi casalinghi adeguati per sostenere serenamente le attività di formazione a distanza – Saturazione del tempo libero degli alunni con enormi quantità di assegni “a casa”, anziché privilegiare le attività sincrone, magari svolte in piccoli gruppi di condivisione.
Cosa funziona in DAD – Lezioni che alternino diversi tipi di attività e interazione tra discenti e tra discenti e docente/i – Possibilità immediata di mostrare contenuti tratti dalla rete – Possibilità di creare gruppi di lavoro utilizzando strumenti di condivisione – Brainstorming attuati condividendo lo stesso documento o la stessa lavagna tra tutti i discenti o in gruppi di 4 o 5 – Cacce al tesoro attuate sfruttando le risorse della rete – Attività di problem solving realizzate singolarmente o a piccoli gruppi – “Circle Time” e altre forme di dibattito e discussione che prevedano l’intervento a turno di tutti i discenti – Uso di lavagne interattive – Possibilità di imparare facendo e acquisire maggiore competenza e consapevolezza nell’uso delle nuove tecnologie – Presentazione di slide predisposte dal docente o dai discenti in modalità flipped classroom – Visioni di video da commentare in forma orale o scritta – Redazione di questionari e formulari online – Presentazione da parte del docente della propria postazione di lavoro ed eventualmente anche del proprio spazio casalingo per rendere più “calda” la comunicazione.
Certo, resta un grande, enorme problema: con la DAD le relazioni umane vengono mediate dallo strumento digitale e finiamo per sentire la mancanza anche dele pacche sulle spalle, degli sgambetti sulle scale e delle sigarette fumate di nascosto in bagno (ma la verità è che tutta la nostra esistenza, non solo quella scolastica, sta sacrificando spazi di vita sociale e incrementando una sorta di “e-vita social” che ci sta profondamente e intrinsecamente trasformando). Può essere triste. Può destare in noi preoccupazioni e timori. Ma non possiamo adagiarci sulle nostre paure e vivere di nostalgia. Bisogna fare di necessità virtù. Dobbiamo cercare di rendere caldo lo strumento mantenendo con i discenti un rapporto di interazione umana e, al tempo stesso, sfruttare al meglio le potenzialità del mezzo per fare in modo che questo non sia un momento di frustrazione o un lungo periodo di vuoto formativo.
Personalmente ho notato che ho molta più difficoltà a umanizzare il rapporto con la classe prima, in quanto sento di non essere ancora riuscito a instaurare con loro una autentica relazione che, inevitabilmente, si fonda anche su sguardi, intese, complicità, battute, incoraggiamenti, ramanzine che è più facile fare guardandosi negli occhi in presenza. E’ come se gli alunni delle altre classi li avessi già “agganciati” negli scorsi anni, quando la nostra attività si svolgeva tutta in aula. Con loro, ora, è più facile tenere viva a distanza una interazione che si era già innescata in presenza. Il mio problema è ora come riuscire ad instaurare un rapporto più umano e personalizzato anche con questi nuovi alunni che ho visto troppo poco da vicino.
La scuola italiana – quasi tutta – ci ha buttato il sangue in questo periodo di pandemia per non lasciare da soli i suoi alunni. Il fatto che questo non sia stato percepito nemmeno da molti di quelli che avevano i figli a casa “intrattenuti” dagli insegnanti in videoconferenze o in altre attività di didattica a distanza è un segno, un brutto segno; una controprova della scarsa considerazione che ha questo Paese per i lavoratori dell’istruzione e della formazione nazionale.
(Anche se, per altri versi, è comprensibile che in un periodo di crisi e di incertezze sul futuro, si scatenino casi di invidia sociale e guerre tra poveri; perché forse è il caso di rammentarlo che i prof italiani, mediamente, per quanto non indigenti, di certo ricchi non sono).
Certo, se in questo Paese si dà un valore così scarso all’insegnamento e agli insegnanti, qualche responsabilità va sicuramente attribuita anche a una parte della classe docente che svolge questo mestiere in modo sciatto e distratto. Non lo nego. Ma non si può buttare il bambino e il suo insegnante insieme con l’acqua sporca.
In ogni modo, se restate inesorabilmente convinti che la classe docente italiana sia nel suo complesso scadente e inoperosa, abbiate il coraggio civile di chiedere la chiusura dei servizi scolastici nazionali. Se i prof non fanno niente, meglio smettere di pagarli e investire in altro le scarse risorse pubbliche disponibili. Facciamo che ognuno se li istruisce da solo i propri figli. Aboliamo il diritto-dovere allo studio e i titoli che ne conseguono. Trasformiamo gli istituti scolastici in palestre private o in megadiscoteche. Abbattiamo le università pubbliche o vendiamole ai privati. Torniamo alla giungla e alle sue leggi non scritte e i professori mandiamoli a spalare merda, che più di questo non meritano. Poi mettiamo pure i nostri figli a osservarli e deriderli mentre spalano. Che in fondo qualche volta già lo fanno.