(ma un orgoglio piccolo piccolo perché quello grande è un orgoglione)
non mi appassionano inni e bandiere aborrisco eserciti flotte nazionali e combriccole di circolo quartiere o città
l’italiano è la mia patria e il napoletano la lingua madre che mi ha dato latte natali e ragù
e doppe ca ‘e magnate / che cacchio vuo’ cchiù?
…
E lo so che i colori della foto fanno pensare più alla bandiera dell’Irlanda che a quella italiana. Giustamente me l’hanno detto in tanti che avrei dovuto sostituire le carote con le pummarole o i rafanelli (rossi fuori e bianchi dentro). Ma il soffritto in cui si fa rosolare la carne del ragù della domenica è così che si fa.
Le esigenze della gastronomia vengono prima di quelle dei colori degli stracci colorati che chiamiamo bandiere.
Lignasanta ponteca, ‘nzeccosa, ‘nzuvarate, ‘nzaravegna e ‘ntaccosa.
E aggia ditto tutte cose.
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Si ‘na zuppa e cachisse ‘nzuvarate. Lignasanta moscia e ‘nfracetata. Cchiu azzecosa ‘i ‘na socra, ‘i ‘na mosca o ‘na cacata.
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Il cachi, conosciuto anche come diospero, caco o cachis (e talvolta scritto anche con la kappa) è un frutto ammantato di mistero che sa di Estremo Oriente, come suo cugino il loto. Pare che in Cina sia coltivato come albero da frutta da epoche anteriori alla nascita di Cristo, mentre in Italia si sono impiantati i primi frutteti nella seconda metà del 1800, prima nel salernitano e poi in Sicilia e in Emilia Romagna.
Nel giardino di mio nonno materno avevamo un paio di alberi di lignasante (li chiamavamo così nel nostro dialetto di periferia)* e io sono rimasto sempre affascinato dal suo colore intenso e autunnale e dalla disposizione a forma di stella (o di fiore) dei suoi semi legnosi che da piccoli aprivamo con i denti per scoprire dentro delle miniature bianche che avevano un incredibile forma di forchetta, coltello o cucchiaio.
Apprendo oggi che secondo una tradizione contadina il tipo di posata che veniva fuori in autunno era un segno che serviva a prevedere come sarebbe stato l’inverno a venire: freddo tagliente con il coltello, mite con la forchetta e nevoso con il cucchiaio.
Un’altra cosa che fin da bambino mi affascinava di questo frutto arancione e legnoso era quel brivido che mi provocava quando era acerbo. La lingua sembrava ritirarsi e mi restava attaccata al palato. Stavo addentando un frutto “‘nzaravegno“, come si diceva nella varietà del vernacolo napoletano che parlavamo a Frattamaggiore. Col tempo ho sentito altre varianti dialettali utilizzate per definire quella sensazione di stordimento e semiparesi dell’interno della bocca, una ricchezza di termini che corrisponde all’italiano allappante e che ho voluto raccogliere nei versi polidialettali che avete letto all’inizio di questo testo. Un’invettiva contro una persona acerba e molesta che ti blocca e ti intontisce (ma magari, in qualche modo modo perverso, ti provoca anche piacere). Una persona tossica, come si direbbe oggi.
Ah, dimenticavo, mia madre mi ha insegnato che per riconoscere se un cachisso è ancora acerbo e allappante, bisogna inciderlo con un unghia e notare come si presenta la polpa: se ci sono delle striature color legno è maturo, se non ci sono è allappante, acerbo ed anche astringente. Banalmente, non bisogna fidarsi dal manto liscio e attraente, si deve grattare oltre la scorza.
E che il prossimo inverno sia forchettoso e pieno di buoni frutti per ognuno e per tutti!
* Anche in spagnolo la lignasanta, oltre che caqui e persimonio, viene definita “palo santo“, probabilmente perché matura tra ottobre e novembre e, come il melograno (in spagnolo granado), è presente sulle tavole iberiche durante la festività di “Todos los Santos”.
Pasquale Vergara e Antonietta Esposito in concerto con alcuni frammenti classici e meno classici della latinità
Ieri sera, per il terzo appuntamento dell’Estate in Villa (Frattamaggiore, Via Siepe Nuova), il prof.Pasquale Vergara ha presentato una versione riveduta dei suoi Carmina rock, una interessante e gustosa conferenza-spettacolo incentrata su una decina di frammenti memorabili della letteratura latina che il prof ha musicato in lingua originale e poi tradotto in dialetto napoletano, unendo il tutto in una serie di pregevoli canzoni multilingue.
Rispetto allo spettacolo di due anni fa, questa nuova versione era più divulgativa e godeva dell’accompagnamento vocale di Antonietta Esposito che ha aggiunto armonia, colore e un tono più folk e popolare alle canzoni proposte. Io, per motivi strettamente personali (che in quanto tali non spiegherò qui) mi sono perso la prima parte dello spettacolo, anche se qualcosa l’ho vista attraverso le dirette Facebook, mentre mi avvicinavo al parco che ospitava l’evento, e qualcos’altra l’ho ricostruita attraverso i video registrati da Mimmo “Postulando” (che, peraltro, in un paio di brevi intervalli ha letto alcuni suoi versi ermetici, pirotecnici e piroettanti).
In ogni modo, questa di Pasquale è un’operazione acrobatica e funambolica ben riuscita, grazie alla sua creatività e alla sua competenza musicale e letteraria cui si sono aggiunte le qualità canore di Antonietta.
Negli arrangiamenti di ieri sera, tutti i brani sono stati cantati prima da Pasquale con i loro testi originali in lingua latina (e in un caso anche in greco omerico) e poi da Antonietta in napoletano. In alcuni momenti, poi, si aggiungeva la seconda voce di Pasquale che o cantava anche lui in dialetto partenopeo oppure accavallava il cantato dialettale di Antonietta al latino, creando un interessante impasto di voci di diverse tonalità e sonorità linguistiche. In questi ultimi casi, ascoltando le due lingue all’unisono, si è anche evidenziata la precisione metrica e prosodica della traduzione di Pasquale attraverso la corrispondenza degli accenti e del numero di sillabe tra la versione latina e quella napoletana.
Tra quello che ho visto e sentito dal vivo, in diretta o in differita, provo a ricostruire l’evento con piglio da paleografo di testi antichi e… contemporanei.
Il primo brano era l’incipit dell’Odissea tradotto in latino da Livio Andronico in Virum mihi, Camena, insece versutum e in napoletano da Pasquale con Parlame, Camena, dell’ommo frisco e accuorto e cantato come un mantra prima in greco, poi in latino e, infine, in napoletano.
A seguire la tarantellla falecia basata sui famosissimi versi di Catullo che dedica a Lesbia la sua quantità crescente di baci (musicalmente il brano è reso attraverso un tempo inconsueto di 5/4): Damme mille ‘e sti vase e ancora ciento. Mille ancora e po’ doppo ancora ciento. E po’ ancora ati mmille e po’ ati cciento. Quanno po’ ne sarranno chiù migliare, ammiscammole pe’ perdere ‘o cunto, senza la mala mmiria ‘e chistu munno ca nun po’ suppurtà tutte sti vase… ca nun po’ suppurtà tutte sti vase…
Subito dopo, una strofa della quarta ecloga delle Bucoliche di Virgilio che è diventato un bel canto popolare introdotto da un gradevole arpeggio e poi cantato in latino prima solo da Pasquale, poi da Pasquale e Antonietta, sempre in latino, in due tonalità diverse e, infine, in napoletano a due voci.
Il quarto brano era la Tarentilla di Nevio con la sua vivace descrizione di una giovane tarantina di facili costumi che “comm’a ‘na palluccia zompa a cca’ e allà” passando da un uomo all’altro.
Di seguito, il celeberrimo Carpe Diem oraziano, tradotto in napoletano con un efficace Campa ‘o mumento, nun penzà a niente, ‘e chello ca ‘a ciorta te po’ astipà…
Poi tre chicche: la “anima vagula blandula” dell’imperatore Adriano, l’“odi et amo” di Catullo (trasformata in una struggente e tenerissima ballad) e la “rosa pristina” di Bernardo di Cluny, che, prima di Pasquale Vergara, in modi diversi avevano ispirato, nell’ordine, la Yourcenar (per Le memorie di Adriano), Stefano Benni (che pure si è cimentato nella traduzione dell’amore/odio catulliano in napoletano) e Umberto Eco (che ha usato i versi del De contemptu mundi di Bernardo de Cluny per il titolo de Il nome della rosa ed anche per ricordarci che alla fine di tutto, ed anche alla fine di una lettura, quello che ci resta sono solo nomi, nomi nudi).
In fondo, è questo un classico: un testo che non si esaurisce alla prima lettura, uno scrigno che non si finisce mai di scoprire; una voce che, se sai ascoltare, continua a parlare anche a te, e ad ogni rilettura sentirai nuova o rinnovata; un testo con cui puoi giocare, montandolo e rimontandolo in lingue e in modi diversi, come ha fatto abilmente Pasquale Vergara in questo concerto a due voci e due o tre lingue.
Cfr.
…
Grand finale con il Pervigilium Veneris (“La veglia di Venere”), un componimento anonimo di età imperiale romana che ci ricorda che
Cras amet qui numquam amavit Quique amavit cras amet.
Ovvero, nell’efficace traduzione di Pasquale:
Chi nun ha amato maje, dimane amarra‘ E chi ha amato già, pure dimane adda ama’.
Aggiungo una traduzione in italiano per i non napoletano-parlanti che non conoscono manco il latino:
Ami domani, chi non ha amato mai, e chi ha già amato, anche domani deve amare.
Come il primo brano, anche questo suona come un mantra multilingue che è servito per congedare piacevolmente e amorevolmente il pubblico intervenuto ieri in contemporanea con la terza partita di campionato del Napoli (che, purtroppo, è andata persa. E Va be’, che dire? Imbribus obscuris succedunt lumina solis. Dopo le oscure piogge, seguono le giornate di sole).
Chiudo questo mio testo con un auspicio: lo spettacolo di Pasquale Vergara dovrebbe essere portato nei licei. Sarebbe un modo efficace per rivitalizzare i classici latini e per far capire qualcosa della latinitas e della metrica latina e barbara alle nuove generazioni. Potrebbe essere anche una strada per dare ai giovani la possibilità di confrontarsi con opere che non si finirà mai di scoprire e riscoprire; miniere inesauribili in cui ritrovare parti di se stessi e del proprio presente, in qualunque epoca o condizione si legga il loro prezioso lascito; superfici riflettenti in cui ci pare di intravedere anche le sagome di chi si è rispecchiato prima di noi.
Perché in un classico trovi sempre qualcosa da saccheggiare o da imparare e una musicalità che è capace di incarnare e trascendere ogni tempo e ogni concetto.
Pasquale docet (anche mo che è andato in pensione)…
In napoletano usiamo l’espressione “Nun me fa’ cummattere!” (letteralmente “Non farmi combattere”) per rivolgerci a qualcuno che ci sta facendo perdere la pazienza, come una sorta di monito affinché la smetta di esacerbare i nostri animi. Personalmente, mi fa pensare a una madre e ad bambino irrequieto (che potrei essere io a otto-nove anni, o mio fratello, mio cugino, un ragazzino spagnolo che mi tormentò l’anima in una stazione di Jaén…). Lui sbuffa, non riesce a stare un attimo fermo, la interrompe mentre lei parla al telefono, dà un calcio a un pupazzo e rompe due bicchieri, spegne la televisione e sale su una sedia appoggiando le mani sull’inferriata del balcone. Lei, esasperata, sbotta:
“Basta, basta! Nun me fa cummattere!
Nun-me-fa–cu–mma-tte-re!“
L’ultima frase la scandisce, come se volesse cercare di entrare nella testa del bambino ed avvertirlo che la misura è colma; come se volesse essere sicura che questa volta lui la stia veramente ascoltando e agisca di conseguenza, prima che tra loro scoppi una tempesta dalle conseguenze imprevedibili. Un modo severo per implorarlo di smetterla, un avvertimento, un deterrente, un ultimatum per riconquistare un po’ di pace, o almeno una tregua che le dia il tempo per rimettersi in sesto prima di continuare a battagliare.
Nun me fa’ cummattere! Non farmi combattere!
Suvvia, non fa-te-ci–com-ba-tte-re!
Che poi questo mantra del contenimento, questo
Non fateci combattere. Non fateci combattere. Non fateci combattere.
sarebbe il caso di gridarlo tutti i giorni, sulla faccia di coloro che vogliono coinvolgerci nel gioco perverso della guerra. Di ogni guerra.
E ja’, anciate pace, nun facite ‘e scieme, nun ce facite cummattere. Smettetela, una buona volta, di trascinarci nei vostri conflitti armati! Lasciateci in pace! Non fate i bambini! Statevi un po’ fermi e riconsiderate le cose, provatele a vedere da altri punti di vista, dubitate delle vostre granitiche certezze; poi sediamoci intorno a un tavolo, stabiliamo cosa non si debba fare e impegniamoci ad analizzare che cosa si possa fare e come farlo per evitare un escalation di sofferenze. Poco per volta. Ma senza più l’uso di clave, spade, bazooka e altri strumenti di indiscriminata distruzione individuale o di massa.
E che diamine! Non siamo mica dei cavernicoli in contesa per un pezzo di dinosauro sanguinante, non siamo mica delle bestie feroci in cerca di cibo o dei mostri affamati di potere o di vendetta!
A proposito del napoletano, del frattese e del mio lessico familiare
Cosa pensate dell’annosa questione che cerca di stabilire se il napoletano sia una lingua o un dialetto?
Dal mio punto di vista di partenopeo di provincia, considero il napoletano un dialetto e il frattese, che io parlo e scrivo correntemente, una sua variante. Il che non significa che il napoletano e la variante frattese abbiano meno valore dell’italiano o che il frattese sia superiore o inferiore al napoletano che si parla al porto, nel centro storico, al Vomero, a Posillipo, nella 167 o a Caivano. Non è certo un problema di gerarchia o di classificazioni, e nemmeno di dipendenza dell’uno dall’altra. Un idioma nazionale ufficiale non è un sistema di comunicazione di maggior rango rispetto a un dialetto né esistono categorie glottologiche per raggruppare sistemi più o meno degni, giusti o corretti. In fondo, come sosteneva il linguista di ascendenza ebraica Max Weinreich, una lingua non è altro che un dialetto dotato di un esercito e di una marina (“A shprakh iz a dialekt mit an armey un flot”). Anche se proprio l’italiano costituisce una splendida eccezione, visto che cominciò a diffondersi nella penisola ben prima che ci fosse un Paese unito sotto la stessa bandiera e le stesse armate.
Ma torniamo al mio dialetto materno. Benamato, beninteso. Il napoletano – come il veneto, il barese o il bergamasco, tanto per aggiungere qualche altro esempio – è un idioma proprio e particolare di un territorio più o meno vasto che non ha alle spalle un’egemonia politica tale da poterlo far imporre nelle scuole e nella burocrazia (tranne in una breve parentesi, per quello che ne so io, avvenuta tra il 1442 e il 1501, quando il re Alfonso V d’Aragona lo prescrisse come lingua ufficiale della cancelleria del regno; ma si tratta, appunto, di parentesi e di eccezione). Di fatto, oggi come in passato, non posso andare al comune e chiedere un certificato di nascita in napoletano; similmente, non ho la possibilità di iscrivere mia figlia a una scuola dove si studi su libri scritti in catanese o in molisano o si spieghino le scienze e l’economia in dialetto romanesco, in meneghino o in puteolano. E finché ci verrà da ridere pensando a un trattato filosofico, a un saggio scientifico o anche solo a un articolo di cronaca scritto integralmente nel nostro dialetto, vorrà dire che siamo lontani dal considerarne “ufficiale” e “normale” il suo uso scolastico, burocratico, accademico e amministrativo. A tutto questo bisogna aggiungere il fatto che, generalmente, un dialetto è molto meno codificato di una lingua. Infatti, dei dialetti esistono numerose varianti, nessuna delle quali si impone sull’altra come “corretta” o preferibile; anche perché tutte le lingue vernacolari e i dialetti sono insofferenti alle regole, alle classificazioni, alle accademie ed alle grammatiche normative. In genere, non esiste nemmeno un sistema unico e standardizzato che permetta di scriverlo tutti allo stesso modo.
Se si cominciasse a insegnarlo a scuola (come hanno fatto in Spagna con il catalano, il gallego e il basco) si dovrebbe scegliere uno standard che costringerebbe le comunità di parlanti a utilizzare un unico codice scritto e orale. Cosa che a me, personalmente, non farebbe affatto piacere. Il dialetto è per sua natura anarchico e insofferente a briglie e regole fisse.
È un argomento che ho affrontato spesso sul mio blog, ma senza pretese scientifiche, e mi piacerebbe sentire ora la vostra opinione al riguardo.
Vi prego, però, di evitarmi bufale e pipponi sul napoletano seconda lingua ufficiale d’Italia e patrimonio dell’umanità secondo quanto dichiarato e certificato dal Professor Pinko Palin, dalla Real Accademia Borbonica o dall’UNESCO medesima.
Mi rendo conto che per certi versi la mia è una prospettiva più sociologica che linguistica, ma cerco conforto o opposizione tra i linguisti e i dialettologi che si trovassero a passare per questa pagina, scansando sia le posizioni trionfalistiche che quelle improntate a un carattere normativo oppure a uno spirito bacchettone o denigratorio.
Naturalmente, sono ben consapevole del fatto che il napoletano, il sardo, il veneto, il milanese, il romanesco e, in diversa misura, anche molti altri dialetti italiani hanno una loro dignità letteraria. Ma questo mi pare che sia un altro discorso che, per quanto interessante, tocca solo parzialmente la questione linguistica che ho posto (e postato) in questa sede. Peraltro, personalmente, scrivo spesso in vernacolo e ci sono concetti e sentimenti che esprimo meglio in pseudo-napoletano che in italiano. Ma questo non mi fa pensare al mio dialetto come a una lingua. Per certi versi, come ho detto è scritto spesso, considero il dialetto come il mio idioma materno e l’italiano come la mia lingua paterna. O viceversa.
Che pena e che tristezza,
a Pullecenella ‘o vedeno
sulo quanno va ‘ncarrozza,
ma si cade pa’ via
o se scassa a cavezza,
tutte quanno o trattano
ca manco ‘a munnezza,
pecché ‘a furtuna addora
e ‘o dulore puzza
pecché ‘a furtuna addora
e ‘o dulore puzza
pecché ‘a furtuna addora
e ‘o dulore puzza
‘e pesce fracete
e scorze ‘e maruzze.
Qui una versione strumentale musicata, suonata e cantata (male) da me medesimo: