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A proposito del napoletano, del frattese e del mio lessico familiare

Cosa pensate dell’annosa questione che cerca di stabilire se il napoletano sia una lingua o un dialetto?

Dal mio punto di vista di partenopeo di provincia, considero il napoletano un dialetto e il frattese, che io parlo e scrivo correntemente, una sua variante. Il che non significa che il napoletano e la variante frattese abbiano meno valore dell’italiano o che il frattese sia superiore o inferiore al napoletano che si parla al porto, nel centro storico, al Vomero, a Posillipo, nella 167 o a Caivano. Non è certo un problema di gerarchia o di classificazioni, e nemmeno di dipendenza dell’uno dall’altra. Un idioma nazionale ufficiale non è un sistema di comunicazione di maggior rango rispetto a un dialetto né esistono categorie glottologiche per raggruppare sistemi più o meno degni, giusti o corretti. In fondo, come sosteneva il linguista di ascendenza ebraica Max Weinreich, una lingua non è altro che un dialetto dotato di un esercito e di una marina (“A shprakh iz a dialekt mit an armey un flot”). Anche se proprio l’italiano costituisce una splendida eccezione, visto che cominciò a diffondersi nella penisola ben prima che ci fosse un Paese unito sotto la stessa bandiera e le stesse armate.



Ma torniamo al mio dialetto materno. Benamato, beninteso.
Il napoletano – come il veneto, il barese o il bergamasco, tanto per aggiungere qualche altro esempio – è un idioma proprio e particolare di un territorio più o meno vasto che non ha alle spalle un’egemonia politica tale da poterlo far imporre nelle scuole e nella burocrazia (tranne in una breve parentesi, per quello che ne so io, avvenuta tra il 1442 e il 1501, quando il re Alfonso V d’Aragona lo prescrisse come lingua ufficiale della cancelleria del regno; ma si tratta, appunto, di parentesi e di eccezione).
Di fatto, oggi come in passato, non posso andare al comune e chiedere un certificato di nascita in napoletano; similmente, non ho la possibilità di iscrivere mia figlia a una scuola dove si studi su libri scritti in catanese o in molisano o si spieghino le scienze e l’economia in dialetto romanesco, in meneghino o in puteolano. E finché ci verrà da ridere pensando a un trattato filosofico, a un saggio scientifico o anche solo a un articolo di cronaca scritto integralmente nel nostro dialetto, vorrà dire che siamo lontani dal considerarne “ufficiale” e “normale” il suo uso scolastico, burocratico, accademico e amministrativo.
A tutto questo bisogna aggiungere il fatto che, generalmente, un dialetto è molto meno codificato di una lingua. Infatti, dei dialetti esistono numerose varianti, nessuna delle quali si impone sull’altra come “corretta” o preferibile; anche perché tutte le lingue vernacolari e i dialetti sono insofferenti alle regole, alle classificazioni, alle accademie ed alle grammatiche normative. In genere, non esiste nemmeno un sistema unico e standardizzato che permetta di scriverlo tutti allo stesso modo.

Se si cominciasse a insegnarlo a scuola (come hanno fatto in Spagna con il catalano, il gallego e il basco) si dovrebbe scegliere uno standard che costringerebbe le comunità di parlanti a utilizzare un unico codice scritto e orale. Cosa che a me, personalmente, non farebbe affatto piacere. Il dialetto è per sua natura anarchico e insofferente a briglie e regole fisse.

È un argomento che ho affrontato spesso sul mio blog, ma senza pretese scientifiche, e mi piacerebbe sentire ora la vostra opinione al riguardo.

https://aitanblog.wordpress.com/2006/01/23/mother-dialect/

https://aitanblog.wordpress.com/2014/01/30/in-difesa-del-dialetto-materno/

Vi prego, però, di evitarmi bufale e pipponi sul napoletano seconda lingua ufficiale d’Italia e patrimonio dell’umanità secondo quanto dichiarato e certificato dal Professor Pinko Palin, dalla Real Accademia Borbonica o dall’UNESCO medesima.

Mi rendo conto che per certi versi la mia è una prospettiva più sociologica che linguistica, ma cerco conforto o opposizione tra i linguisti e i dialettologi che si trovassero a passare per questa pagina, scansando sia le posizioni trionfalistiche che quelle improntate a un carattere normativo oppure a uno spirito bacchettone o denigratorio.



Naturalmente, sono ben consapevole del fatto che il napoletano, il sardo, il veneto, il milanese, il romanesco e, in diversa misura, anche molti altri dialetti italiani hanno una loro dignità letteraria. Ma questo mi pare che sia un altro discorso che, per quanto interessante, tocca solo parzialmente la questione linguistica che ho posto (e postato) in questa sede.
Peraltro, personalmente, scrivo spesso in vernacolo e ci sono concetti e sentimenti che esprimo meglio in pseudo-napoletano che in italiano. Ma questo non mi fa pensare al mio dialetto come a una lingua.
Per certi versi, come ho detto è scritto spesso, considero il dialetto come il mio idioma materno e l’italiano come la mia lingua paterna. O viceversa.

https://aitanblog.wordpress.com/2011/08/11/667/

Va be’. Mi fermo qua.

‘A meglia parola e’ chella ca nun se dice e nun se sente; percio’, facite cunte ca nun aggio ditto niente.