Dice: “Si stava meglio quando si stava peggio”. Non è vero, gli dico, eravamo noi che stavamo meglio; senza la sciatica, la sordità incipiente, le cosce mosce mosce, il disallineamento con la realtà e col tempo, il calo dei desideri e la paura dell’imminenza della fine.
Anche la nostalgia di certi luoghi che hanno segnato la nostra vita, in fondo non è altro che una forma di rimpianto per l’epoca che corrisponde a quel luogo; non si ha nostalgia degli spazi, si ha nostalgia dei tempi andati e della nostra gioventù arenata in quei tempi che non torneranno più.
Questo lo diceva Schopenhauer, oppure Proust, o Borges che citava entrambi o solo uno dei due.
Non mi ricordo più.
E anche se inventassero la macchina del tempo saremmo sempre noi con il carico dei nostri anni a tornare nei luoghi della nostra memoria, e non sarebbe la stessa cosa correre su quella spiaggia o passeggiare tra quei sentieri con le ginocchia che scricchiolano e la preoccupazione che il vento tra i radi capelli possa essere di danno ai nostri polmoni.
In fondo, la conosciamo tutti la delusione di tornare in un luogo da cui mancavano da tempo e vedere che quello stesso luogo non è più lo stesso.
Le vittime innocenti delle guerre in un video dei Tproject
…
La storia è una buona maestra ma i suoi alunni sono svogliati e disattenti. Per quanti esempi lei tracci sulla lavagna del tempo, loro non vogliono e non riescono a imparare.
Di guerra si continua a morire. E non si muore solo da soldati.
E così, ogni 27 gennaio torniamo a piangere i morti del ‘900 senza svestirci della nostra indifferenza di fronte ai morti disseminati sui campi del presente. Morti di ogni età e di ogni latitudine che continuano a cadere sotto le bombe; come i bambini di questo video dei Tproject di quattro anni fa. Morti di guerra, di fame e di stenti o rimasti orfani a seguito dei conflitti degli adulti.
Troppo comodo considerare il passato come un film commovente e poi continuare ad essere indifferenti di fronte alle morti, ai razzismi e alle discriminazioni che crescono ogni giorno dentro e fuori di noi.
Non facciamo della memoria un altro sepolcro imbiancato, lasciamola agire nel corpo della nostra società e nelle nostra stessa coscienza, per fare meglio e diventare migliori. Rendiamoci conto che è insensato celebrare un rituale della memoria commuovendosi per ciò che stato, senza muoversi davanti a ciò che è e torna a ripetersi. Come se non ci fossero altre strade da percorrere, tracciare o creare.
…
“La memoria della Shoah, serve sì a onorare il passato e le vittime, ma è soprattutto uno strumento per il presente e per il futuro affinché ciò che è stato, non possa ripetersi mai più. Per questo abbiamo tutti il dovere di ricordare“. (Moni Ovadia)
Errori, invenzioni, pericoli e principi etici di ChatGPT
Il mese scorso, dopo averlo tenuto d’occhio per qualche settimana, ho messo sotto stress (si fa per dire) il bot di ChatGPT, con risultati che potete vedere qui.
Ora che le chiacchiere e le preoccupazioni sul chatbot di OpenAI dilagano, gli ho chiesto di parlarmi del suo successo e delle discussioni che ne sono scaturite
E lui, tomo tomo, cacchio cacchio, mi fa:
ChatGPT è un modello di linguaggio di ultima generazione sviluppato da OpenAI. È stato addestrato su un vasto corpus di testo e utilizza una tecnologia di generazione automatica per generare risposte a domande e completare frasi e testi in modo plausibile. Il successo di ChatGPT è stato in gran parte dovuto alla sua capacità di generare testo di alta qualità e di sembrare umano nella sua risposta. Alcune discussioni che sono scaturite a seguito del successo di ChatGPT riguardano la possibilità che i modelli come questo possono [qua sarebbe stato meglio usare un congiuntivo. – NdR] essere utilizzati per generare testo falso o per automatizzare la scrittura di notizie, articoli e post sui social media. Ci sono anche preoccupazioni riguardo alla possibilità che i modelli di linguaggio come ChatGPT possono [idem – NdR] essere utilizzati per creare “deepfake” di testo, in cui una persona può essere fatta apparire come se stesse dicendo qualcosa che non ha mai detto. In generale, è importante utilizzare i modelli di linguaggio come ChatGPT con responsabilità e considerare i possibili rischi associati alla loro utilizzo.
Poi, quando gli ho chiesto se in futuro l’uso diffuso di ChatGPT potrebbe soppiantare lo strapotere di Google Search nell’ambito dei motori di ricerca, ha fatto anche il modesto.
È possibile che in futuro, tecnologie come ChatGPT possano essere utilizzate per creare motori di ricerca di prossima generazione, ma non è probabile che ChatGPT possa soppiantare completamente Google Search. Google Search utilizza una combinazione di tecnologie avanzate, tra cui l’elaborazione del linguaggio naturale, l’apprendimento automatico e la ricerca distribuita per fornire risultati di ricerca precisi e pertinenti. Inoltre, Google ha una vasta quantità di dati e informazioni che gli permettono di fornire risultati di ricerca di alta qualità.
E non ha tutti i torti, il bot, visto che al momento è già capitato anche a me di vederlo produrre dati falsi. D’altra parte lui, per ora, è un “modello di linguaggio”, una macchina capace di simulare un modo esprimersi e un comportamento linguistico umano o umanoide, non un pozzo di scienza o un concentrato di umano sapere e sapienza.
Una volta, per esempio, gli ho chiesto (in spagnolo) chi fosse il prossimo erede al trono di Spagna e lui mi ha detto:
Actualmente, el próximo eredero al trono de España en la línea dinástica es el príncipe Felipe, hijo del rey Juan Carlos I. Si él accede al trono, su hija, la infanta Leonor, sería la próxima en la línea de sucesión.
Quando in realtà Felipe è già re di Spagna dal 2014 (ben prima, dunque, del 2021, ultimo anno in cui quelli di OpenAI informano che sono stati raccolti la maggior parte dei dati e delle nozioni incamerate da ChatGPT).
Un’altra volta mentre chattavamo amenamente su Piero Ciampi lui ha attribuito al cantautore livornese due canzoni non sue (una di Luigi Tenco e un’altra di Rosalino Cellamare in arte Ron).
Ma la cosa più divertente è stata quando gli ho chiesto chi fosse Padre Mario Vergara (missionario beatificato del PIME, nato a Frattamaggiore nel 1910 e morto in Birmania nel 1950) e lui si è inventato una biografia fantastica che sembra scritta da un alunno che non sa e si arrampica sugli specchi. Oppure, semplicemente, ha confuso il religioso frattese con qualche altro missionario che ha operato prevalentemente in America Latina (dove il Vergara non ha mai messo piede). Ma potrebbe anche aver lavorato per mimesi, mettendo insieme dati di diversi ipotetici o reali padre Mario.
– Mi puoi parlare di Padre Mario Vergara?
– Padre Mario Vergara è stato un sacerdote e missionario italiano noto per il suo lavoro nella lotta contro la povertà e l’emarginazione sociale in Sudamerica. È stato fondatore della Fondazione Don Mario Vergara, un’organizzazione senza scopo di lucro che si occupa di assistenza sociale e sviluppo comunitario in Argentina, Paraguay e Uruguay. Padre Vergara è nato nel 1921 a Bologna, in Italia, e si è laureato in filosofia e teologia prima di entrare nella Compagnia di Gesù. Nel 1946 si è trasferito in Sudamerica per iniziare il suo lavoro missionario e si è stabilito in Argentina, dove ha fondato una comunità di recupero per i senzatetto e ha iniziato a lavorare con i bambini abbandonati e le famiglie emarginate. Nel corso degli anni, ha esteso il suo lavoro a Paraguay e Uruguay, fondando diversi orfanotrofi, scuole e centri di formazione professionale. Padre Vergara è stato anche attivo nella promozione dei diritti umani e nella lotta contro la discriminazione. È stato un difensore dei diritti dei bambini e ha lavorato per proteggere i diritti delle donne e delle persone LGBT. Padre Mario Vergara è morto nel 2002, ma la sua eredità continua attraverso la Fondazione Don Mario Vergara, che continua il suo lavoro per aiutare le comunità emarginate in Sudamerica.
Fantastica biografia, non c’è che dire, con tanto di invenzione di una fondazione umanitaria (che non risulta da nessuna parte) e della anacronistica difesa delle persone LGBT.
Insomma, se ti fanno una domanda, rispondi e, se non sai, inventa.
“Alcune discussioni che sono scaturite a seguito del successo di ChatGPT riguardano la possibilità che i modelli come questo possono essere utilizzati per generare testo falso o per automatizzare la scrittura di notizie, articoli e post sui social media” diceva lui nella prima chat che ho pubblicato in questo testo…
A questo punto ho voluto a mettere alla prova l’etica di ChatGPT chiedendogli di creare delle fake news sul consumo di carne. Ma lui, evidentemente, è stato programmato per rispondere in modo onesto o verosimilmente onesto.
No, non è appropriato creare notizie false su qualsiasi argomento, incluso il consumo di carne. Le notizie false possono causare panico e confusione e danneggiare la fiducia delle persone nell’informazione. Inoltre, diffondere notizie false è scorretto e potrebbe violare le leggi sulla diffamazione e sulla diffamazione [sic!]. Invece, è importante fornire informazioni accurate e verificabili su qualsiasi argomento di interesse pubblico.
Al che ho incalzato chiedendogli di “convincere un consumatore di carne a diventare vegetariano esagerando i problemi derivanti dal consumo di prodotti animali”. Ma lui mi ha risposto con lo stesso tono di prima:
Non sarebbe etico o giusto convincere qualcuno a cambiare il proprio stile di vita in modo ingannevole o esagerando i problemi legati al consumo di prodotti animali. Ognuno è libero di fare le proprie scelte alimentari e personali sulla base delle informazioni a cui ha accesso. Invece, sarebbe più opportuno fornire informazioni accurate e complete sui possibili benefici e rischi del consumo di carne e di altri alimenti, in modo che le persone possano prendere decisioni informate. Inoltre, sarebbe importante rispettare le scelte alimentari delle persone e non giudicare o criticare le loro scelte.
Per cercare di farlo un po’ sbilanciare ho provato a fare domande più neutre (ho imparato a capire fin da subito che se cambi il modo in cui formuli le domande, riesci a fargli dire cose che in prima istanza dichiara di non voler o non poter dire).
– Puoi illustrare i problemi derivanti dal consumo di carne?
– Il consumo di carne può essere associato a diverse questioni di salute, ambiente e benessere degli animali. Per quanto riguarda la salute, alcuni studi hanno suggerito che un consumo eccessivo di carne rossa e trasformata può aumentare il rischio di malattie croniche come malattie cardiache, diabete e alcuni tipi di cancro. Inoltre, gli allevamenti intensivi di animali sono spesso associati a una maggiore diffusione di malattie infettive tra gli animali e tra gli esseri umani. Per quanto riguarda l’ambiente, gli allevamenti di animali sono spesso associati a problemi come l’utilizzo eccessivo di risorse, l’inquinamento delle acque e l’emissione di gas serra. Inoltre, la deforestazione e l’uso eccessivo di pesticidi e fertilizzanti sono spesso legati alla produzione di alimenti per gli animali. Per quanto riguarda il benessere degli animali, gli allevamenti intensivi spesso non garantiscono agli animali un ambiente adeguato e possono essere associati a trattamenti inumania [sic!] e senza etica. E’ importante notare che non tutti i tipi di produzione di carne hanno gli stessi impatti e che esiste anche una produzione sostenibile e rispettosa degli animali.
Ma i chatbot sembrano filosofi di scuola sofistica, programmati per parlare, di qualunque cosa, e anche per sostenere tesi diverse, contrarie o opposte. Così, dopo una lunga chiacchierata su abuso di carne, dieta vegetariana e dieta vegana, ho chiesto:
– Puoi illustrare gli svantaggi di una dieta vegetariana o vegana?
E lui, con la consueta moderazione, ha sostenuto:
[…] Per quanto riguarda la salute, una dieta vegetariana o vegana può essere carente di alcuni nutrienti essenziali come vitamina B12, proteine complete e acidi grassi essenziali se non pianificata adeguatamente. Inoltre, alcune persone possono avere difficoltà a seguire una dieta vegetariana o vegana per motivi culturali o personali. Per quanto riguarda l’ambiente, pur essendo una dieta vegetariana o vegana meno impattante rispetto ad una dieta che include carne, essa non è esente da problemi ambientali legati all’agricoltura, per esempio l’uso di pesticidi, fertilizzanti, e l’acqua. Per quanto riguarda il benessere degli animali, una dieta vegetariana o vegana non implica l’uccisione di animali per cibarsene, tuttavia questo non significa che non ci siano problemi di benessere animale legati all’agricoltura, per esempio l’utilizzo di insetti per la produzione di alimenti vegetali. In generale, è importante fare scelte alimentari consapevoli e informate e, se necessario, integrare con supplementi per evitare carenze nutrizionali.
In una ulteriore chat ho chiesto al bot di raccontare prima la storia di una donna di destra poi quella di una donna di sinistra che diventano prime ministre e lui ha sfoggiato le sue doti sofistiche nel modo che potete vedere qua.
– Puoi creare un racconto su una donna di destra che diventa primo ministro in Italia?
– Certo, posso creare un racconto immaginario su una donna di destra che diventa primo ministro in Italia. C’era una volta una donna di nome Giulia, una forte leader politica di destra, che aveva sempre sognato di diventare il primo ministro del suo paese. Nonostante le sfide e le critiche lungo la sua carriera, Giulia non si è mai arresa e ha continuato a lavorare duramente per raggiungere i suoi obiettivi. Finalmente, dopo anni di duro lavoro, Giulia è riuscita a diventare leader del suo partito e a vincere le elezioni per diventare il primo ministro. Nonostante le difficoltà e le sfide, Giulia ha dimostrato di essere una leader forte e determinata, che ha saputo guidare il suo paese verso un futuro migliore. Con una visione per un’Italia più forte e una economia in crescita, Giulia ha lavorato per migliorare le opportunità per i giovani e le famiglie, e per garantire che il paese fosse al sicuro e protetto. Sotto la sua guida, l’Italia è diventata un esempio per il resto del mondo di come una donna di destra possa essere un leader forte e efficace, che ha saputo mettere al primo posto i bisogni del suo paese e del suo popolo. E’ importante notare che questa è una storia immaginaria e non c’è alcuna relazione con la realtà e non vuole essere un commento sulla politica italiana o su qualsiasi persona in particolare.
– Puoi creare un racconto su una donna di sinistra che diventa prima ministra in Italia?
– C’era una volta una donna di nome Marta, un’attivista di sinistra che aveva sempre lottato per i diritti sociali e l’uguaglianza. Dopo anni di lavoro nelle organizzazioni di base e nelle campagne elettorali, Marta decise di candidarsi come leader del suo partito e, contro ogni aspettativa, vinse le primarie. Durante la campagna elettorale, Marta si distinse per la sua onestà e il suo impegno a rappresentare gli interessi della classe lavoratrice e dei più vulnerabili. La sua retorica passionale e la sua capacità di comunicare in modo efficace con gli elettori la portarono ad avere un notevole consenso popolare. Alla fine delle elezioni, il suo partito ottenne la maggioranza dei seggi e Marta divenne la prima donna a ricoprire la carica di Primo Ministro in Italia. Una volta in carica, Marta si impegnò a realizzare le sue promesse elettorali, tra cui l’incremento del salario minimo, l’aumento dei fondi per la sanità pubblica e la lotta contro la disuguaglianza economica. Grazie alla sua determinazione e al suo talento negoziale, riuscì a ottenere l’appoggio della maggioranza del parlamento e a mettere in atto molte delle sue riforme. Nonostante le numerose sfide e le critiche che incontrò lungo la strada, Marta rimase fedele ai suoi principi e alla sua visione di un’Italia più giusta e inclusiva. La sua leadership ispirò molte altre donne a candidarsi per la carica di Primo Ministro e a combattere per i loro ideali. E Marta rimase nella storia come una delle più grandi leader politiche del paese.
Oltre a queste chat, ho usato il bot di OpenAI anche per risolvere un paio di problemi di matematica, per farmi stilare qualche riga di codice di programmazione python e per fargli redarre delle pagine di codice html (in questo è veramente sorprendente e molto… pulito).
Per concludere, dopo tante sessioni, ho imparato che con ChatGPT bisogna:
– saper chiedere – modulare in modo diverso le domande in base a quelli che sono i risultati attesi e lo stile di risposta che si vuole ottenere – non fidarsi fino in fondo dei dati forniti dalle risposte – rileggere le risposte con spirito critico e senza prendere tutto per oro colato.
Alla fine dei conti, resto convinto che l’uso spinto e accelerato dell’intelligenza artificiale che ci sta avvolgendo e travolgendo in questi mesi rappresenta un nuovo radicale cambiamento nel modo in cui saranno create e ricevute le informazioni, e potrebbe perfino modificare inesorabilmente il modo in cui verranno generate e diffuse le idee e risolti problemi e problematiche umane vecchie e nuove. Ma bisogna stare attenti e seguire gli sviluppi con occhio critico e attento per governare e prevenire i possibili rischi del nuovo mezzo (incluso l’uso pigro della chat, l’allontanamento dalla realtà extravirtuale, l’iperconnessione, l’atrofizzazione della creatività umana e la sostituzione del lavoro umano con il lavoro dell’intelligenza artificiale). Insomma, si stanno diffondendo nuovi paradigmi, si sta creando un modo nuovo di apprendere e stare al mondo e non è il caso di restarsene a guardare in modo inerme e acritico, come se la cosa non ci riguardasse.
Personalmente, il rischio più forte che intravedo è un generale appiattimento, una mancanza di guizzi, una progressiva perdita di senso. Ma di questo credo che parlerò qualche altra volta, se crederò che avrà senso parlarne. Altrimenti lo chiederò al bot e poi copincollerò la sua risposta e fingerò di averla scritto io. Come avrei potuto già fare con questo post.
Considerazioni sull’importanza del non dimenticare lasciate qua qualche giorno prima del 27 gennaio, quando saremo saturi di discorsi sulla memoria, col rischio che tutte quelle belle parole si annullino a vicenda o si confondano nel brusio generale, come il frinire fastidioso di un grillo parlante tra la folla fastidiosa di grilli che coprono le loro voci una sull’altra in un vociare indistinto e molesto.
Dobbiamo conoscere il nostro passato. Dobbiamo amare, odiare, perpetrare, rinnovare e ribaltare le nostre tradizioni. Rivoltare come un calzino la nostra storia e tornare a indossarla come cosa nuova. La dimenticanza è la porta di accesso all’indifferenza. E l’indifferenza è la fine della storia, l’epilogo di ogni forma di vita viva e degna di essere vissuta.
Se non sai da dove vieni, vai dove vai vai e non ti trovi mai. Se non sai da dove vieni, non capisci nemmeno dove sei arrivato. Se non sai da dove vieni, dovresti almeno provare a cercarti. L’atto stesso di cercare, potrebbe aiutarti a sanare mancanze e ferite.
Cercare e, cercando, cercarsi.
L’ignoranza, qui, diventa un reato contro se stessi, oltre che contro il mondo.
Dobbiamo conoscere il nostro passato per avere un futuro degno di essere vissuto e non sprecare il presente.
Dobbiamo conoscere il nostro passato e usarlo come uno specchio deformato.
Dobbiamo conoscere il nostro passato per capire dove abbiamo sbagliato.
Dobbiamo conoscerci per farci un po’ migliori e migliorare il mondo che ci gira intorno.
Fare. Fare e, facendo, farsi.
Ma ve le le immaginate tutte queste spirali di miglioramento che si liberano dalla nostra immaterialità e si incontrano con le spirali di miglioramento delle persone che gravitano nel nostro raggio d’azione e vibrano congiuntamente con altre spirali provocando un effetto moltiplicatore che si riverbera per ogni meridiano e parallelo dell’orbe terracqueo e si innalza orgoglioso fino al cielo?
Un circolo virtuoso di persone che sanno da dove vengono e decidono insieme dove vogliono andare.
Concerto per Piero Ciampi all’Auditorium Bianca D’Aponte di Aversa di JR & friends
Ieri, nell’auditorium Bianca D’Aponte di Aversa, si è tenuto uno splendido concerto per ricordare Piero Ciampi, uno dei tanti artisti che abbiamo imparato ad apprezzare più da morti che in vita. Mannaggia ‘a morte!
Il concerto si inseriva in una più ampia serie di eventi che, a partire dal 19 gennaio, si sono tenuti in una decina di città sparse in tutta Italia sotto l’egida del Premio Ciampi – Città di Livorno.
Piero Ciampi morì quarantatré anni fa, nel gennaio del 1980, a soli 45 anni d’età, dopo una vita vissuta ai margini della società e del sistema musicale italiano. “Una vita a precipizio”, per dirla con le parole del suo brano “L’assenza è un assedio”.
Ciampi era un artista per artisti, un disperato, un non allineato, uno dei primi cantautori italiani, un maudit, un maledetto che qualche volta sembrava anche compiacersi della sua maledizione e dei litri di vino e whiskey che ingurgitava con sfrenata passione. Uno con “tutte le carte in regola / Per essere un artista: / Ha un carattere melanconico, / Beve come un irlandese. / Se incontra un disperato / Non chiede spiegazioni / Divide la sua cena / Con pittori ciechi, musicisti sordi / Giocatori sfortunati, scrittori monchi”.
Questi che avete appena letto racchiusi tra due virgolette sono versi della sua canzone “Ha tutte le carte in regola“, un brano ripreso anche da Gino Paoli in un album del 1980 che raccoglieva una serie di composizioni di Ciampi, pubblicata proprio nell’anno della sua prematura morte.
“Ha tutte le carte in regola” sembra essere anche una sorta di anello di congiunzione tra il livornese Ciampi e l’ambiente musicale napoletano, visto che la band che in quegli anni accompagnava Paoli era formata integralmente da musicisti partenopei di prim’ordine. C’erano Gianni Guarracino alle chitarre, Fabrizio D’Angelo alle tastiere, Aldo Mercurio al basso, Rosario Iermanno e, in un brano, anche Toni Esposito alle percussioni, Elio D’Anna al sax e Franco Del Prete alla batteria. Ed ecco che, proprio attraverso questo album preso in prestito dal maestro Franco Del Prete, Jennà Romano si avvicina all’arte compositiva di Piero Ciampi, innamorandosene a tal punto da realizzare nel 2012 un documentario e un intero album dedicati al nostro perdente di successo.
L’album di JR si intitolava “…e se il mondo somigliasse a Piero Ciampi…”, come il concerto di ieri sera e, dentro una meravigliosa copertina di Salvatore Di Vilio, includeva quattro classici di Piero Ciampi: “Il vino” (cantata in napoletano) “Tu no”, “Ha Tutte le carte in regola” e “In un palazzo di giustizia”, più cinque brani inediti “La fiamma di una candela”, “Quello che ho di te”, “La Troia”, “Maria” e “Una vita corta”.
Il concerto di Aversa ha fatto rivivere la passione ciampiana di Jennà amplificata dall’ausilio di una serie di artisti ed amici del suo entourage artistico: il sassofonista Giovanni Sorvillo, i pianisti Filippo Piccirillo e Lorenzo Natale, il cantautore Antonio del Gaudio, l’attore Pio Del Prete, il cantante, autore e attore teatrale Patrizio Trampetti, cui si è aggiunto uno “straniero” di grande pregio e valore, il cantautore Porfirio Rubirosa from Venezia, Italia del Nord.
Porfirio, come tutti gli artisti che si sono avvicendati ieri sul palco dell’Auditorium D’Aponte, è un cantautore fuori dagli schemi, ma auguriamo a lui e a tutti loro di non essere anche fuori mercato e di essere pienamente riconosciuti per il loro talento prima di diventare postumi. Anche se è il caso di dire – con Patrizio Trampetti – che ormai sembra non esserci nemmeno più un mercato per chi continua ostinatamente a realizzare dischi.
La verità è che “qui continuiamo a preoccuparci del supporto su cui si conserverà la musica nelle nostre case e tra le nostre cose (vinile, cd, pendrive, cloud, ri-vinile) mentre il mercato musicale da solido sta diventando liquido, gassoso, evanescente. Con tutte le conseguenze del caso per le maestranze, i manager, i maneggioni, i maestri, i mestieranti e i mercanti che gravitano intorno al tempio.”
Ne parlavo proprio su questa pagina qualche anno fa. E da allora le cose sonno solo peggiorate.
Ma proviamo a rivivere il clima ed i contenuti del concerto di ieri.
Lo spettacolo si è aperto con due brani di Jennà Romano di atmosfera ciampiana: “Quello che ho di te” e “La fiamma di una candela”.
Poi, accompagnandosi al bouzouki e intrecciando le sue note con il piano sapiente di Filippo Piccirillo, Jennà ha cantato “Tento Tanto”, un brano di Piero Ciampi (mai pubblicato prima della sua morte e ricavato da un provino su nastro) che Jennà aveva già interpretato un paio di anni fa con Roberto Del Gaudio e che ha riarrangiato per questa serata con un bel finale a tempo di tango.
Di seguito, un altro brano di JR, “Zollette di stelle”.
Io sono quello che non ha mai avuto un ombrello e se piove d’amore non si sa riparare. Io sono quello che tra zollette di stelle si ferma a guardare ma senza toccare, senza mangiare.
[…] Io sono quello che è morto vivo a dieci anni che ha visto solo la musica così da lontano e si è fatto prendere la mano.
Sono le cose che guardo la sera che mi fanno sentire che il mio stomaco è vivo e vivo anche se vivo male e vivo per me.
A questo punto si è unito a Jennà e a Filippo, Antonio Del Gaudio per cantare una bella versione a due voci di “Non chiedermi più”, un valzer struggente e disperato di Ciampi, il suo unico brano inciso a due voci con Lucia Rango e ripubblicato recentemente nel bellissimo album “Lucia Rango canta Piero Ciampi” (Anni Luce, 2022).
Poi Antonio Del Gaudio, con la sua lucida follia surreal-dadaista ci ha fatto sentire il suo monologo di Duccio, in cui interpreta un padre e un figlio su una spiaggia fronte mare. Il papà cerca di leggere il giornale, mentre il figlioletto, invece di giocare alle formine, formula un crescendo di domande imbarazzanti ed esistenziali che vanno da “Cosa c’è dopo il mare?” su su fino a Dio, l’infinito e oltre. Il tutto con un sottofondo pianistico sapientemente suddiviso tra la voce del padre accompagnata dalla mano sinistra sulla tastiera e quella del figlio dalla destra.
Anche in questa follia aleggiava lo spirito di Ciampi, come nella rabbia del brano di JR “Pensare libero”, costruito su un anaforico “Mi sono rotto il cazzo” ripetuto decine di volte come in un mantra liberatorio di chi vuole affrancarsi dai condizionamenti, dai luoghi comuni, dai politici corrotti e dagli imperativi del mercato.
Sempre di Jennà anche, “Dietro quelle porte”, introdotto dalla voce recitante di Pio Del Prete. A seguire, “‘A vita è mo”, un bel testo postumo di Franco Del Prete musicato e arrangiato da Jennà come un moderno bolero latino e cantato ieri sera insieme con Lorenzo Natale, che lo accompagnava anche al pianoforte.
Molto bella e sentita la versione di “Tu no”, classico ciampiano, interpretata da JR accompagnandosi, in solitaria, alla chitarra. Poi è stata la volta di un’altra composizione di Jennà, “Brilla una stella”, dedicata a Bianca D’Aponte, talentuosa cantautrice aversana scomparsa improvvisamente all’età di 23 anni, quando aveva ancora tante emozioni da condividere e tutto lasciava credere che non le mancasse tempo… È stato molto commovente ascoltare quel brano nell’auditorium a lei dedicato in una serata dal forte impatto emotivo in cui aleggiavano gli spiriti di Bianca, di Ciampi, di Francesco Silvestri, di Fausto Mesolella, di Franco del Prete e di tanti artisti ed amici che ci hanno lasciato troppo presto; incluso Jeff Beck, un’altra stella del suo firmamento che JR aveva anche rievocato nel suo libro di racconti e canzoni “Il lanciatore di donne”. Jeff Beck ci ha lasciato una decina di giorni fa, ma qualche volta mi è sembrato di sentire anche lui, ieri sera, tra le corde delle chitarre e le pedaliere di Jenna’.
Di seguito, due brani di Ciampi accompagnati, il primo, da Filippo e, il secondo, da Lorenzo al pianoforte (ed anche alla voce): due pezzoni: “Il Vino” (nella versione napoletana di JR) e “In un palazzo di giustizia”.
A questo punto è arrivato Pofirio Rubirosa, l’ospite del Nord, che ha tenuto sapientemente la scena con un trio di bei brani: – “La confusione”, una sua canzone quanto mai attuale e pungente – “Ha tutte le carte in regola”, cantata insieme con Jennà – “La Troia” di Jennà che ha saputo fare sua con verve istrionica accresciuta dall’accompagnamento del sax potente e graffiante di Giovanni Sorvillo che faceva da controcanto alle voci di Porfirio e JR.
Ma lasciate che vi dia un consiglio: andatevi a sentire anche l’ultimo brano di Porfirio, “Il lussurioso”, un bella canzone suggellata da una coda erotico-pinkfloydiana. Porfirio è un ciampiano di stretta osservanza; una passione, mi ha detto, che è pari solo a quella che ha per Papà Dylan (Bob, intendo).
Dopo, una divertente e divertita esecuzione de “La mela” ad opera di Jennà Romano e Giovanni Sorvillo, il concerto si è concluso con la voce sempre fresca e potente di Patrizio Trampetti, che ha interpretato la sua “Feste di Piazza“, portata al successo da Edoardo Bennato nel ‘75, nell’album “Io che non sono l’imperatore”.
Gran finale con tutti gli artisti sul palco a cantare “Il Vino” di Ciampi in italo-napoletano con coro e accompagnamento clap clap del pubblico soddisfatto e numeroso.
E io stamattina qua a riscrivere la serata a modo mio prima di buttarmi nei ritmi forsennati di una nuova settimana:
Andare camminare lavorare il passato nel cassetto chiuso a chiave il futuro al Totocalcio per sperare il presente per amare non è il caso di scappare andare camminare lavorare andare camminare lavorare dai, lavorare!
[…]
(Pompieri, pompieri!) E che cos’è questo fuoco? Pompieri, pompieri, voi che siete seri, puntuali Spegnete questi incendi nelle case, nelle anime, nei conventi Rapide fughe, rapide fughe, rapide fughe
Da bambino rompevo gli specchi per vedere cosa c’era dall’altra parte e cercavo il tempo tra le pagine dei calendari e gli ingranaggi degli orologi. Più grande allungavo le mani per afferrare la luna e fare luce ai miei giorni bui.
Oggi ce la metto tutta per trovare il bene in chi mi fa del male e rinvenire qualche attimo di gioia nella persistenza del dolore. Oggi ce la metto tutta, per ritrovare un po’ di pace tra le tempeste. Oggi ce la metto tutta per evitare la disperanza, nonostante anni ed anni di delusione e frustrazioni.
Oggi c’è la metto tutta, tutta ce la metto, ma non è mai abbastanza.
Una delle cose più importanti nella scrittura è capire dove e quando mettere il punto
Similmente nella vita quotidiana
Nella realtà delle cose
Tra una cosa e l’altra
E nel giusto punto
…
…
Appunto
…
Oggi, nella messaggistica scritta, sempre in bilico tra la scrittura e il parlato, terminiamo raramente le nostre frasi con il punto. E quando lo facciamo, veniamo letti come trancianti o, peggio, come artificiali. Se metti un punto vuol dire che non vuoi più parlare con me. O che non sei spontaneo. Vuoi tenere tutto sotto controllo. Perfino la sintassi e il tono emotivo della conversazione. Con uno così meglio metterci un punto
Appunto
…
…
Per due punti passa una sola retta Ma ciascuno dei due punti per i quali passa una sola retta è attraversato da un’infinità di rette A loro volta formate da innumerevoli punti
…
…
Per due punti passa una e una sola retta Ma ciascuno di essi è attraversato da infiniti fasci di rette disposte radialmente Due mondi paralleli fatti di rette che si fanno cerchi Due buchi neri in cui mi perdo passo e chiudo
Un mucchio di opinioni sulla scuola, sulla formazione e sull’istruzione
Ensinar não é transferir conhecimento, mas criar as possibilidades para a sua própria produção ou a sua construção.
ovvero (traducendo ed ampliando molto liberamente il pensiero di Paulo Freire):
Insegnare non consiste nel travasare sapere, ma nel creare le possibilità per l’apprendimento e lo sviluppo di nozioni utili per sopravvivere ed orientarsi nella realtà e per la produzione o la costruzione di idee e di conoscenze che ci servono per cambiare il mondo e noi stessi.
Sulla scuola tutti abbiamo un’opinione. Bene o male un po’ di scuola l’abbiamo fatta tutti e tutti abbiamo congiunti, discendenti, madri, figli o figlie che la stanno facendo, da un lato o dall’altro della cattedra. E poi la scuola offre un servizio pubblico pure quando è privata e gli insegnanti, di riffa o di raffa, li paghiamo noi. E anche i bidelli, gli impiegati di segreteria, i funzionari, i ministri e gli ispettori…
Eccheccacchio, qua tutti abbiamo il diritto di dire la nostra, di esprimere critiche e affastellare punti di vista, idee e ricette risolutive.
La scuola è di tutti, mica del personale scolastico, dei presidi e dei legislatori!
La scuola è il volano della società; anzi, no, è un suo specchio; no no è un luogo di educazione e di rieducazione, un laboratorio di diffusione del sapere, una caserma ben organizzata, una palestra per la vita, uno spazio di competizione che ti prepara per la giungla che sta là fuori; no, no, non ci siamo proprio, la scuola è tutt’altro da quello che dici, è uno spazio di condivisione che ti abitua a convivere e a collaborare con gli altri; seee se, tutte stronzate: leggere, scrivere e far di conto, e poi patria, famiglia e religione, per preparare il cittadino di oggi e di domani, dare competenze per il mondo del lavoro; ad ognuno a seconda delle sue capacità, ad ognuno in merito al suo merito; la scuola deve abituare al cambiamento, deve sviluppare il senso critico, la scuola; educare, formare, inculcare i valori, questo ed altro deve fare la scuola.
Insomma, chi considera gli alunni come dei vasi vuoti, chi come un fuoco da accendere; chi la scuola la vuole ben cotta, chi al sangue e chi nuda e cruda. E poi ci sono quelli che vogliono la scuola statale e quelli che la vogliono cattolica e confessionale, quelli che la vogliono pubblica e quelli che la vogliono privata; privata di tutto.
Per quello che mi riguarda, come insegnante, non credo di dover riempire vasi né ritengo di dover indicare ai miei alunni cosa pensare; ma ho la velleità di dare alle nuove generazioni qualche strumento per scoprire, capire e cambiare qualcosa del mondo immenso che sta fuori e dentro ciascuno di noi. Insegno loro che se davvero vogliono essere donne e uomini liberi, debbono continuare a liberarsi dalla loro ignoranza e cominciare a pensare in modo critico e autonomo. Li esorto a non diffondere il pensiero altrui senza prima rifletterlo in sé stessi e farlo loro. Mostro che la cultura è una chiave e un grimaldello, ma anche un’arma letale che, se non impariamo ad usare in modo proprio, può essere usata contro di noi da chi ci manipola e ci sfrutta col nostro placido consenso. Cerco di convincerli a rispettarsi e rispettare se stessi e il mondo in cui conviviamo. Ripeto che chi è civilizzato riconosce la piena umanità degli altri e quindi li tratta nella stessa maniera e con la stessa attenzione che vorrebbe per sé. Insisto sul fatto che abbiamo qualcosa da imparare da tutte le persone in cui ci capita di imbatterci (se guardiamo le cose in prospettiva, i peggiori maestri ci sono serviti da insegnamento quanto i migliori, dato che hanno costituito per noi dei modelli da evitare, degli esempi negativi che mostrano con tutta evidenza quello che non va fatto). Cerco di non far confondere i mezzi e gli strumenti con i fini e con il senso della realtà. La vita è la vita e un telefonino è un telefonino. Dentro la vita ci può essere un telefonino, ma non si può identificare l’una con l’altra o l’altro con l’una. Di tanto in tanto creo con i miei studenti anche dei conflitti, perché credo che lo scontro generazionale li aiuti a crescere e a diventare adulti e responsabili. E poi cerco di sparire. Un proverbio, credo sia un proverbio turco, dice che un “un buon insegnante è come una candela, si consuma per illuminare la strada per gli altri”. Un buon insegnante (e in fondo anche un padre buono e un buon padre) insegna come imparare, e quando gli alunni hanno davvero imparato a muoversi da soli, diventa inutile la sua guida e può rintanarsi in un angolo e sparire; si spegne come si spegne una candela che ha fatto già il suo tempo e svolto la sua funzione. Mi illudo, infine, che da alunni autonomi e responsabili non possano venire fuori rigurgiti fascisti; sogno che nella vita cercheranno figure autorevoli, più che figure autoritarie. (Fin dai primi anni, li educo a non chiedermi il permesso neanche per andare in bagno. Spiego loro che se non si esce uno alla volta si crea il caos nei corridoi, cerco di convincerli che durante le spiegazioni non è il caso di allontanarsi dalla classe – a meno che non si abbia l’illusione di aver capito già tutto -, e poi li faccio uscire uno alla volta liberamente, senza chiedere niente a nessuno, senza interrompere il dialogo formativo e dopo essersi assicurati che non sia uscito qualcuno prima di loro). E poi mi adopero affinché siano e si sentano meno soli in un’epoca di narcisismo, disperate solitudini e conformismo esasperante.
Roba difficile, in verità, il mestiere di insegnare. Ma quando si riesce, sono soddisfazioni impagabili (per quanto mal pagate, a dire il vero. Ma questa è un’altra storia che non voglio affrontare nemmanco in parentesi, per il momento).