Simmo zingare, carne ‘e sudore. Ce accampammo e facimmo cient’arte. Uno more? È lassato addo’ more. ‘A matina, a bon’ora, se parte. […]
Don Raffaele Viviani, ‘A caravana
Zingari siamo, carne di sudore. Ci accampiamo e facciamo cento arti. Uno muore? È lasciato dove muore. Di mattina, alla buon’ora, si parte.
Post di passaggio.
Più che altro una nota per mettere in mostra la rielaborazione di qualche mio vecchio disegno zingaresco e ricordare a me stesso che debbo approfondire Viviani ed il suo atteggiamento che (in superficie) mi pare ambivalente verso i popoli rom, sinti e camminanti…, ‘e zingare, insomma.
Ora che abbiamo toccato il fondo, ci resta solo da scavare per vedere se c’è una via d’uscita dall’altro capo del mondo.
(Sperando che non ci inseguano per colonizzare anche il mondo nuovo; se ancora ve ne fossero di terre vergini da sverginare, insozzare e inquinare a più non posso inseguendo un sogno dentro un fosso che sembra essere l’unica scappatoia, l’ultima via di fuga. Altrimenti bisognerà volgere lo sguardo verso lo spazio infinito. Miriadi di pianeti da occupare, riadattare a misura d’uomo e riempire di residui, resti, rifiuti e scarichi umani.)
Finché non ci estinguiamo, non vedo limiti per l’ingordigia umana e la straordinaria capacità di scavare tra le macerie da lei stessa create.
Quest’estate, di ritorno dalle vacanze, mi sono imbattuto in Jazz Mantana, la composizione dei Tproject di cui ho già parlato su queste pagine: un brano di jazz rock con tinte etniche dedicato al quartiere dove sono nato e vivo.
Ora i Tproject hanno presentato due nuove produzioni e io, nel frattempo, chiacchierando con loro, ho imparato a conoscerli e ad apprezzarli.
Tproject è una declinazione del gruppo Masadecrea, un insieme di artisti che lavorano a distanza, ma uniti da un’idea di musica intesa come laboratorio di creatività e sperimentazione (non a caso, masadecrea è una parola albanese che significa “tavolo di creazioni”). Perni del progetto sono Gino Frattasio (bassista, compositore ed esperto di programmazione, vissuto tra Arzano e S.Giovanni Vardarno e ora trasferito a Bologna), Pasquale Marchese (batterista, percussionista e compositore frattese) e Ciro Bianco (ingegnere del suono, che vive tra la Campania e le Baleari); ma il progetto si apre spesso e volentieri a collaborazioni con altri artisti, come il sassofonista Giovanni Sorvillo, i contrabbassisti Luca Varavallo ed Amedeo Ronga, il chitarrista Salvatore Acerbo, il percussionista Max Goglia, i batteristi Raffaele Natale, Paolo Scuto, Francesco Del Prete junior, Alex Perrone e Claide Magrini ed il chitarrista flamenco Santiago Lara.
La prima delle due nuove produzioni dei Tproject si intitola “The Prayer” e rappresenta una netta e chiara denuncia delle nefaste conseguenze delle guerre, di tutte le guerre.
Il brano si apre con una melodia intimista e raccolta accompagnata da piatti e suoni di campane. Poi, dopo circa un minuto e mezzo, comincia una sequenza serrata di suoni elettronici e un accompagnamento di batteria che rendono la tensione emotiva dei conflitti. Intorno al terzo minuto, il suono delle campane riportano la musica al tono raccolto della preghiera, forse anche alla speranza di una vita senza guerra.
“Je vulesse truvà pace; ma na pace senza morte”, per dirla con le parole di Eduardo.
È evidente che per i Tproject la musica è anche un mezzo per intervenire nella realtà con un punto di vista personale e sensibile ed una personale vena di laico misticismo che risalta, fin dal titolo, anche nel secondo brano che presento qui: “The road to holiness” (La strada per la santità).
Il brano, che si avvale anche della collaborazione di Luca Varavallo al contrabbasso, è un crescendo di strazio, una colonna sonora del dolore dei popoli delle migrazioni e delle guerre. Si apre con lancinanti sequenze elettroniche accompagnate da un rullante che sembra dare movimento alla marcia di diseredati che vediamo rappresentati anche nelle foto del video. Poi la marcia si interrompe e, dopo qualche battuta di sole tastiere, il suono si fa via via più pieno con l’accompagnamento della batteria, delle percussioni e del contrabbasso. Sono note struggenti, urla e lamenti che accompagnano il cammino verso una libertà di popoli che molte volte cercano la pace e trovano solo la morte.
Sembra ancora lungo il cammino e a volte si ha l’impressione di andare avanti tornando indietro.
Da allora sono trascorsi quasi 20 anni in cui ho intasato il mio pubblico diario con testi, disegni, qualche foto e, di tanto in tanto, pure con qualche ignobile composizione sonora che mi suonavo e cantavo da solo. (Il mio è sempre stato un blog autarchico, eclettico e poco allineato. Prima o poi mi metterò pure a ballare e a tiktokkare mostrando labbra a culo di gallina.)
Nel corso di queste 76 stagione c’è stato un cambio casa (nel 2011, quando traslocai baracca e burattini da Splinder a WordPress) e un periodo di semi-isolamento dovuto al trasferimento di molti vecchi amici prima su Facebook, poi su Instagram o su altre reti e trappole sociali.
Nel primo decennio del XXI secolo i lettori erano tanti e si fermavano a scambiare idee ed opinioni che spesso avevano più valore dei post stessi. Oggi restano 4 o 5 fedeli e poche decine di avventori occasionali e silenziosi che dedicano un po’ di attenzione a queste pagine e danno senso alla sua esistenza. Ma i più ammazzano diversamente il loro tempo.
(Incluso i migranti, sia quelli che fuggono da guerre vere che quelli che fuggono da battaglie perse contro la fame, lo sfruttamento e le conseguenze delle colonizzazioni.)
Dio li benedica.
(E benedica gli insubordinati e i dissenzienti. Quelli che non si lasciano convincere dai dettami dei potenti. Quelli che non si fanno incantare dai suonatori della banda e dai colori svolazzanti delle bandiere. Quelli che non si lasciano bloccare dalla paura di essere fuori dal branco o dalle minacce dei capi, dei capò e dei caporali. Quelli che continuano a pensare al di fuori dall’ordine costituito ed hanno gambe buone per uscire fuori dal mucchio. Quelli che ora piangono la terra perduta. Ma non rimpiangono il gregge, il pastore, i suoi cani ed il branco.)
Seconda edizione del premio dedicato al batterista e paroliere frattese.
Ieri sera, nel Teatro De Rosa di Frattamaggiore, si è tenuta la seconda edizione del Premio dedicato a Franco Del Prete per iniziativa della famiglia e del manager amico Pasquale Capasso, con l’ausilio del Mediterraneo Reading Festival ed il patrocinio dell’amministrazione comunale frattese.
Qui a Frattamaggiore (dove sono nato e vivo anch’io) Franco Del Prete è una sorta di genius loci, un’icona locale che si affianca all’altro Francesco, il precursore della Scuola musicale napoletana Francesco Durante (1684-1755), “si parva licet componere magnis” (mi sono svegliato molto lat(r)ino stamattina).
Al batterista e paroliere frattese la città ha dedicato un anfiteatro all’aperto in cui si sarebbe dovuta tenere anche la seconda edizione del premio. Ma l’instabilità climatica di questi giorni ha fatto pensare che sarebbe stato meglio svolgere l’evento al chiuso di un teatro. La serata è stata presentata con la sua solita verve da Lino D’Angiò ed è stata costellata da numerosi premi attribuiti agli artisti che si sono avvicendati sul palco con esibizioni sempre legate alla vita artistica di FDP.
Segue una rassegna rapida e dettagliata dei brani e degli interpreti che si sono esibiti ieri sul palco del De Rosa.
– In apertura Ida Rendano ha cantato “Un’ora sola ti vorrei“, il brano del 1938 riproposto negli anni ’60 dagli Showmen, il gruppo degli esordi di Franco Del Prete, Mario Musella e James Senese. Da lì sarebbe cominciato tutto. Ida Rendano è stata accompagnata dalla meravigliosa “resident band” della serata formata, in ordine alfabetico, da:
– Flex Aiello alla chitarra elettrica – Andrea Balbucea alle tastiere – Andrea Carboni alle percussioni – Vincenzo Di Girolamo alla chitarra classica – Tony Panico al sax tenore e soprano – il mio buon amico Filippo Piccirillo al piano elettrico – Gianluca Russo al basso
Alla batteria, raccogliendo il testimone del padre, c’era Francesco Del Prete (che durante l’evento ha spesso ceduto le bacchetta ad altri batteristi ospiti e premiati).
– Il secondo brano della serata, cantato da Toni Guido, è una canzone pubblicata per la prima volta quest’anno nell’ultimo album di Iva Zanicchi (“Gargana”). Si chiama “Vola colomba” ed è stata scritta da Franco Del Prete su musica di Sal Da Vinci e Gianni Guarracino. Purtroppo, Franco non ha avuto il tempo di vedere la prima edizione su disco di questo brano. In ogni modo, fin dalla prima strofa ci rendiamo conto che siano di fronte ad una perla che dice molto della sua sensibilità e della sua perizia artistica:
E se io fossi fuoco scalderei Quelli che hanno freddo come te Ma su questa terra sono una fiammella E se io fossi acqua disseterei Quelli che hanno sete come te Ma della pioggia non sono che una goccia Sei io fossi venti soffierei Di notte mi trasformerei In un orchestra di Alisei Che copre voci che sentire non vorrei
– A seguire “Ma che senso ha“, brano portato al successo da Eduardo De Crescenzo e cantato ieri da Toni Guido, che, praticamente è stato il nono membro della resident band della ricca serata artistica.
Ma che senso ha la libertà scritta sui muri della città
– Tommaso Primo ha ricevuto il premio per il miglior testo scritto in napoletano e ci ha fatto ascoltare, prima, il suo brano “Onorato delitto ‘e passione” (una storia d’amore e morte, dichiaratamente priva di morale e insegnamenti) e, poi, “Maria Maddalena“, bellissima canzone scritta da FDP e da Jennà Romano e riletta ieri in un arrangiamento minimale con l’accompagnamento di Andrea Carboni alle percussioni e Gianluigi Capasso alla chitarra (il nome di Gianluigi non appariva sui manifesti, ma, per quanto non stessi seduto alle prime file, credo di aver riconosciuto la sua barba e il tocco delicato e ritmicamente sostenuto e preciso della sua chitarra suonata senza plettro). Aggiungo che, per me, l’ascolto di Maria Maddalena ha rappresentato il primo picco emotivo della serata.
– L’atmosfera torna incandescente con “Ma aro’ vaje?” suonata dalla resident band al completo.
– Yuri Menna (cantautore napoletano e internazionale) ha interpretato, accompagnandosi dalla sola chitarra ritmica come l’artista di strada che era, la sua composizione “I just wanna hold you” e il brano di FDP “‘A terra mia“.
– Poi è stata la volta del grande Patrizio Trampetti. Patrizio ha presentato con Jennà Romano e con il giornalista e senatore Sandro Ruotolo un brano di strettissima attualità che hanno composto tutti e tre insieme: “La vita degli altri“. Una canzone che narra la storia di Irina sullo sfondo della guerra russo-ucraina e della sempre opportuna citazione di Brecht che ci ricorda che dopo la guerra “Fra i vinti la povera gente faceva la fame. / Fra i vincitori faceva la fame la povera gente ugualmente“. E per me è stato il secondo picco emotivo favorito anche dalla dinamica della voce di Patrizio e dalle sue sapienti impennate. Poi lo hanno raggiunto sul palco Carlo Avitabile alla batteria e Maria Russo alla voce per ricordarci che “‘A vita po’ cagna‘”, la vita può cambiare…
– Con la sua consueta intensità interpretativa in bilico tra il teatro e la canzone d’autore, Massimo Masiello ci ha fatto sentire “Occhi di Marzo“, altro brano del repertorio di Eduardo de Crescenzo scritto da FDP.
– A questo punto sarebbe dovuto salire sul palco a ritirare un premio alla sua fulgida e lunghissima carriera un altro grande musicista frattese, un altro batterista che per FDP è stato una importante fonte di ispirazione: Gegé Munari. Purtroppo, però, il grande Gegé, oggi ottantottenne, non è potuto venire da Roma (dove vive da decenni) ed ha ritirato il premio in sua vece il suo amico Mimmo “Papparella” Del Prete. Apro una parentesi. Gegé e suo fratello Pierino sono stati due grandi precursori del drumming jazz in Italia. Frattamaggiore, come spesso ho detto, ha una grande tradizione di batteristi che ora si prolunga con Luigi Del Prete (un altro Del Prete. “Ma chistu prepete nun steve mai quieto?“, citazione da Lino D’Angiò). È una cosa che lo scorso anno ebbi modo di ricordare allo stesso Gegé Munari (che, purtroppo, non conosco di persona) in una videoconferenza organizzata dalla mia amica Stefania Tallini e Gegé, simpaticamente, ricordò che una volta con un grande jazzista americano (se non ricordo male, si trattava di Tony Scott) stava pensando di dedicare un brano alla sua città d’origine ed intitolarlo, sentite un po’, “F Major“. Beh, io dico che è ancora in tempo.
– Di seguito, Enzo Gragnaniello, che con FDP e i suoi Sud Express ha pubblicato nel 2011 l’album “Radice”, ci ha fatto ascoltare due brani del suo repertorio che tanto piacevano a Franco (“Vasame” e, ops!, l’altro ora mi sfugge) e poi ci ha ricordato l’uomo FDP, il loro comunicare in silenzio, le carezze sul viso che prodigava alle persone cui voleva bene.
– E nel novero di queste persone, come ha ricordato con sincera commozione Simona, l’adorata e adorante figlia di Franco, c’era anche Dario Sansone, il cantante dei Foja, che ha scelto di farci ascoltare “Fiore ‘e limone“. Personalmente, sono stato molto contento della scelta, dato che considero “Fiore ‘e limone” una delle canzoni più belle de “La chiave” (2018), l’ultimo album pubblicato da FDP con i Sud Express. Sansone ha completato la sua session con una canzone tratta da “Miracoli e Rivoluzioni”, l’ultimo lavoro artistico dei Foja premiato ieri come miglior album dell’anno.
– Subito dopo sono stati premiati due batteristi molto ammirati e bene amati da FDP: Gennaro Barba (che ha prestato il suo “progressive” groove al brano “Fai come vuoi“) e Vittorio Riva, precisissimo session man e turnista tra i più attivi del pop italiano (che ieri sera ha suonato la batteria nel tostissimo brano scritto da Franco per James Senese “‘Ncazzato nire“, dove Toni Panico si è esibito in uno dei suoi pregevoli assoli al sax tenore).
– Antonio Del Gaudio alla voce e Lorenzo Natale al piano ci hanno regalato una versione straniata, coraggiosa ed espressionistica di “Van Gogh“, accentuando il carattere non convenzionale di un brano che era il meno pop di “Cante Jondo”, un album bellissimo di Eduardo De Crescenzo scritto in collaborazione con FDP e Gianni Guarracino e suonato da musicisti del calibro di Vittorio Remino, Ernesto Vitolo, Joe Amoruso e Naná Vasconcelos, oltre che dagli stessi Franco Del Prete alla batteria e Gianni Guarracino alle chitarre.
– Di seguito è stata la volta di Maurizio Capone. Insieme con Jennà Romano alla chitarra e alla voce, il percussionista e cantautore dei BungtBangt ci ha fatto sentire la più bella versione che abbia mai ascoltato di “Veleno“, accompagnando il canto con una tanica di plastica e dei cimbali di latta riciclata e aggiungendo anche una strofa di suo pugno (peccato che Jennà sembrava essere molestato da qualche problema tecnico con l’amplificazione o con la pedaliera). Poi, accompagnandosi con la scopa elettrica (una vera e propria ramazza su cui Capone ha messo un elastico e un microfono per elettrificarla e trasformala nella “scopa di Jimi Hendrix”) ci ha scosso con un suo brano di struggente attualità: quel “‘O sang è sang” che ci esorta fin dentro le viscere delle nostre coscienze a svegliarci e a finire questa fottuta guerra (qualunque essa sia).
Scetateve che è tardi guagliù Firmammela sta guerra guagliù Luvate ‘e fierre a dinto ‘e sacche guagliù Ascite ‘a chisto ingrippo guagliù E mo arapite l’uocchie guagliù Vuie state a capa asotto guagliù Ma a vuie ‘o core nun se spezza guagliù Missili bombe e canne mozze guagliù Mo basta mo Mo basta mo O sang è sang O sang è sang
Lui ha scritto questo pezzone nel ’94. Ma purtroppo il suo “mo basta” ci insegue anche oggi e ci inseguirà anche domani. Ma non so quanti siano disposti ad ascoltare.
– La tensione è rimasta alta con la lettura recitata di “Ecce homo“, un testo di FDP magistralmente interpretato da Pio Del Prete con l’accompagnamento di Jennà Romano al bouzouki.
– Nel pre-finale, Ella Armstrong (figlia dell’immortale Louis), dopo aver essersi esibita in tre classici del song book americano (tra cui Summertime e What a Wonderful World), ci ha fatto ascoltare una convincente versione di “Andrà così“, brano del repertorio di Eduardo De Crescenzo e Franco Del Prete. La cantante statunitense, ma residente in Francia, si è avvalsa dell’accompagnamento di quattro musicisti italiani: Marco Mantovanelli (piano), Daniele Antonucci (chitarra), Massimo Gaudiano (basso) e Nicolò Salis (batteria).
– Di seguito, è stato consegnato il premio “un maestro nell’anima” a Michelangelo Mosca, ex allievo di batteria di FDP, che ha suonato con la resident band la canzone “Vera“, tradotta con successo anche in spagnolo.
– Per finire, la resident band al completo, con di nuovo Francesco Del Prete alla batteria, ci ha salutato sulle note di “E la musica va“.
C’è chi l’anima che ha, la soffocherà, rassegnato alla mediocrità C’è chi l’anima che ha, la difenderà, Non aspetterò, mio amore, che ritorni qui da me
E la musica va E va e va, e va e va E va e va E la musica va
“Ci sono individui ed individue da cui dobbiamo imparare a stare alla larga. Sono persone che, dopo i primi approcci, non si relazionano con noi come pari, ma come tiranni, carnefici e sanguisughe. Dobbiamo imparare a sentire il loro odore di succhiasangue e scappare via prima che si avventino sul nostro collo; perché, se si attaccano, è finita. Liberarsene è impresa quasi impossibile, a meno che non scaturisca da loro stessi la volontà di occuparsi di un altro pollo o di un altro collo. E non è detto che non tornino quando avranno di nuovo necessità, ruzzo, ghiribizzo o voglia.
[…]
Spesso sia i succhiasangue maschi che le succhiasangue femmine, soprattutto nella fase seduttiva iniziale, fanno leva sul nostro desiderio di provare emozioni forti o fortissime; e sanno benissimo come procurarsele e procurarcele. Senza emozioni la vita non sarebbe nulla, neanche più una rottura di coglioni. Senza emozioni la vita non varrebbe la pena che dà. Senza emozioni la vita sarebbe un errore commesso per mancanza. Insomma, sarebbe prematuramente finita, la vita, senza emozioni, e non sarebbe nemmeno la vita. Loro lo sanno e sanno come scuoterci, come scovarci e come farsi seguire nella trama della loro ragnatela.
[…]
Capirete, dunque, che sempre all’erta bisogna stare, anche perché, molte volte, costoro sono così capaci di manipolare la realtà da presentarsi al mondo col faccino delle vittime indifese o con il piglio deciso e delicato dell’angelo salvatore, ma poi, mentre porgiamo loro la mano, la mordono e cominciano a suggere, sorbire e spolpare, fino a lasciarci stesi al suolo, pentiti e tramortiti. Incapaci di rialzarci e imboccare un altro cammino.
[…]
L’unica soluzione è non farli proprio avvicinare alla nostre vite. Perché dopo, quando ci sentiremo svuotati, defraudati ed esausti, potrebbe essere già troppo tardi.
Con loro si deve interrompere prima di cominciare. Non c’è altra soluzione.”
Da “Vamp, vampiri e vampate di flebile ingegno – Autobiografia di un succhiasangue di successo“, Giles Ravager, 2011
L’indomani di ieri è già oggi. E domani, quello che quest’oggi chiami oggi, di nuovo ieri sarà. Il tempo passa e passando va.
Va cercata nei frangenti la felicità.
La felicità è fatta di attimi di distrazione dalle sofferenze e dalle preoccupazioni che questa vita ti dà. Cupa e incessante
come gli accidenti sulla variante.
La felicità è fatta di attimi di distrazione dalle sofferenze e dalle preoccupazioni che questa vita ti dà. Dure e incessanti
come le morti in acqua dei migranti.
Solo di attimi è fatta… Il resto sono ombre scure e incessanti come nei palazzi le accozzaglie dei furfanti e in ogni dove le schiere dei questuanti che bussano anche alla mia porta mezza chiusa.
Ma io oggi non ci sono per nessuno e avrei difficoltà anche a trovarmi da solo.
Elis Regina morí a soli 36 anni (che comunque sono sempre 9 anni in più di quelli del club dei 27),* ma fu un uragano** che dilagò fuori dalle frontiere del Brasile e fece conoscere al mondo i suoni della bossa nova e della MPB (Música Popular Brasileira).
Ascoltate che energia.
Il brano si intitola “Upa Neginho” e fu composto, tra il 1964 e il 1965, da Edu Lobo per lo spettacolo teatrale “Arena Conta Zumbi” di Gianfrancesco Guarnieri e Augusto Boal. Guarnieri, figlio di antifascisti italiani trasferiti in Brasile nel 1936 (quando lui aveva solo un paio di anni), è anche autore del testo, che è una specie di inno alla negritudine.
Provo a tradurne una strofa:
Cresci, negretto, e abbracciami Cresci e insegnami a cantare Vengo da così tanta disgrazia Ma posso insegnarti molto Capoeira, posso insegnarti Malasorte, posso toglierti Coraggio, ne posso prestare Ma la libertà posso solo sperarla
L’altro autore dello spettacolo teatrale da cui è tratto Upa Neginha, Augusto Boal, è il fondatore del Teatro do Oprimido (Teatro dell’Oppresso), metodo teatrale che ha per obiettivo la ricerca di strumenti di cambiamento personale, sociale e politico per tutti coloro che si trovino in situazioni di oppressione.
Ma torniamo alla musica.
Qui vediamo, ascoltiamo e ci godiamo la Regina Elis con Toot Thielemans (armonicista, chitarrista e fischiatore belga). Erano in Svezia nel 1969. Uno spasso!
Bluesette, scritto da un europeo (lo stesso Toot Thielemans) è ormai uno standard della musica jazz basato sui ritmi e sulle armonie della musica brasiliana. Fonte di ispirazione anche per molte colonne sonore italiane.
** Furação, uragano, tornado, furia degli elementi, era uno dei soprannomi con cui era conosciuta in Brasile Elis Regina. Ma Vinicius de Moraes preferiva chiamarla “Pimentinha“, peperino, peperoncino. Un peperoncino rinsecchito e finito troppo presto per un overdose di alcol e cocaina.
Il lucchichio intermittente dei raggi sulle onde Il sole che entra attraverso le fenditure delle persiane e fa disegni di luce sui muri La luna che si rifrange nel mare in mille riflessi cullati dalle acque
Gli uomini conoscevano Las Vegas prima della scoperta delle Americhe e dell’invenzione dell’elettricità Ma forse ancora non lo sapevano che dove c’è troppa luce le ombre diventano più scure
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In appendice, un aneddoto in forma di apologo illuminante che con i versi di cui sopra c’entra molto e non c’entra niente
Alcide De Gasperi, ultimo Presidente del Consiglio del Regno e primo della Repubblica Italiana, nel 1947 andò a Cleveland per partecipare a un importante convegno internazionale che era in qualche modo una preparazione dell’European Recovery Program, il Piano Marshall di ricostruzione del vecchio continente foraggiato dai soldi e dagli interessi a lungo termine degli Stati Uniti, che dalla seconda guerra mondiale erano usciti rafforzati e vincenti. Il convegno era stato organizzato dall’allora proprietario del Time che si chiamava (guardate un po’) Henry Robinson Luce. Ma la notizia che tenne occupato per un po’ il pubblico di lettori di giornali statunitensi fu il fatto che De Gasperi e la figlia spegnevano la luce in camera quando uscivano dall’albergo, come se non si rendessero conto dell’abbondanza di risorse disponibile in Amerika.
Ah, voi, quando uscite da questo blog, non dimenticate di spegnere la luce.