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Archivi Mensili: agosto 2019

Il flamenco, l’arte universale dei gitani spagnoli (dal nomadismo all’accademia)

31 sabato Ago 2019

Posted by aitanblog in da lontano, immagini, musiche, recensioni, riflessioni, vita civile

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flamenco, gitani, zingari

Discorso di presentazione a uno spettacolo di danza popolare andalusa e gitana de las hermanas Miriam y Sara Costanzo

Señoras y señores:

Mi metto su un piedistallo ed esordisco instaurando un parallelo tra me, seduto qui tra voi, e nientepopodimeno che Federico García Lorca, in piedi, nel 1933, in una sala di Buenos Aires.
In quella conferenza del tutto simile a questa Lorca sosteneva che si annoiava ad assistere a conferenze simili a questa; gli veniva voglia di aria e di sole e temeva che da un momento all’altro sarebbe arrivato “il terribile moscone della noia che infilza tutte le teste con un tenue filo di sonno e mette negli occhi degli ascoltatori sparuti gruppi di punte di spillo.” (García Lorca, “Gioco e teoria del duende”).

Lorca, Juego y teoría del duende (cubierta)

In parole povere, come il buon Federico, mi impegno a non farvi troppo la palla e a dire cose non del tutto banali. Ma più di questo non posso fare.
Comincerò, infatti, nel più noioso dei modi, leggendo quello che ho scritto un po’ in fretta qualche ora fa senza avere né il tempo di prepararmi a dirvi tutto a braccio né la possibilità di sintetizzare ulteriormente il mio intervento.


Ci sono musiche che hanno un impatto immediato sull’ascoltatore.
Appena le senti ti viene voglia di muovere il piede ed alzare il culo dalla sedia per ballare.
Ci sono canti che ti sconvolgono, ti fanno piangere, ti fanno ridere, pescano tra i tuoi ricordi. Non importa in che lingua li stiano cantando…, parlano proprio a te e di te.

Il flamenco fa parte di questa vasta e ristretta categoria di danze, musiche e canti che toccano corde sensibili di tutti gli ascoltatori. Non è un caso il fatto che si balli, si ascolti, si suoni e “si parli” flamenco dappertutto, dalla Russia al Giappone, dal Marocco alla Lapponia.


Suppongo che tutti vi siate ritrovati qualche volta a canticchiare “Djobí Djobá” o a entusiasmarvi per una pubblicità che mostrava il corpo nudo e danzante di Joaquín Cortés o a battere le mani al ritmo di una rumba gitana in un locale di Barcellona o in un villaggio turistico di Pescopagano.Joaquín Cortés, semidio seminudo

Insomma, conta poco che siate persone favorevoli all’integrazione tra i popoli o razzisti inveterati. Il flamenco, comunque, non vi è estraneo.
Nemmeno se siete parte integrante dell’ampia maggioranza di italiani che non-sono-razzisti, ma-gli-zingari-però…

Ecco gli zingari… i rom, i sinti, i camminanti, i kalè residenti in Spagna da almeno sei secoli, los gitanos, i gitani, les gitanes che danzano sul pacchetto blu di una famosa marca di sigarette francesi…, è a loro che si deve l’invenzione, la diffusione ed anche la riformulazione in chiave moderna e contemporanea di questa musica e del “cante” e del “baile” che l’accompagnano.

pacchetto di Gitanes da 20

Fin dalle sue opache origini, il flamenco era espressione del popolo nomade dei romaní che durante le sue migrazioni attraversò l’Asia e l’Europa scambiando suoni, canti e passi di danza con i popoli del Medio Oriente, dei Balcani e del Mediterraneo…
E l’origine di quel popolo nomade è tanto misteriosa e opaca quanto quella del flamenco.
Probabilmente appartenevano a caste bistrattate che provenivano dal Punjab e dall’attuale Pakistan e che furono costrette al nomadismo da conflitti interni e dalla ricerca di migliori condizioni di vita. Non a caso ci sono tanti parallelismi tra la musica flamenca e quella tradizionale dei raga indiani. Anoushka, la figlia del grande Ravi Shankar, ha costruito melodie bellissime basate sui modi del flamenco fusi con le strutture musicali e gli strumenti della tradizione indiana.



In ogni caso, pare che dopo tante peripezie il popolo gitano emigrò dal Punjab all’Egitto per poi attraversare l’Europa e stabilirsi in terre meno ostili. (Quasi certamente il termine gitano viene da “
aegyptanus“, il che ha fatto anche ipotizzare una provenienza egiziana dei kalè spagnoli.)

Quello che è certo è che una parte di questo popolo in cammino si spinse fino all’estremo Occidente dell’Europa e divenne pressoché stanziale in Andalusia, territorio multietnico che restò tollerante con i gitani anche quando, nel 1492, furono espulsi dalla penisola iberica ebrei e arabi. Probabilmente, anche perché nel frattempo
los gitanos si erano cristianizzati e ancora oggi si devono loro alcune delle più caratteristiche manifestazioni della religiosità andalusa, come La Romería de la Virgen del Rocío (un pellegrinaggio che si tiene 50 giorni dopo la Semana Santa, nella provincia di Huelva).

La Romería de la Virgen del Rocío

Sento aleggiare sulle vostre teste il moscone della noia, ma mi sembrava necessario fare un po’ di storia di questo popolo senza storia. Anche perché sono convinto che una parte cospicua del fascino universale del flamenco derivi proprio dalla sintesi di elementi diversi che nel loro vagare di terra in terra questi gitanos andavano assumendo dai popoli e dalle culture musicali che incontravano nel cammino: canti bizantini e gregoriani, melismi della tradizione ebraica ed araba, strumenti asiatici e occidentali, chitarra spagnola, danze e percussioni indiane, balcaniche e magrebine…

Continue contaminazioni.

Benedetti contagi.
Musica che attraversa i confini e li annulla…

Ma veniamo alla storia più recente della musica popolare andalusa e gitana. Nella seconda metà dell’ottocento, la tradizione flamenca, inizialmente basata solo sul

baile accompagnato dal cante e dal battito delle mani (las palmas) si incontrò con una consolidata tradizione chitarristica. In questo stesso periodo si svilupparono a sud del fiume Guadalquivir tre “focolai” di evoluzione della musica flamenca, da cui nacquero tre distinte scuole stilistiche: Cadice, Jerez de la Frontera, e il barrio di Triana a Siviglia.
In seguito il flamenco cominciò a uscire dai campi gitani e a diffondersi prima nei “café chantant” e poi nei “tablaos” frequentati della borghesia spagnola e dai turisti in cerca di esotismo, passione latina e souvenir a pois bianchi, neri e rossi da incorniciare nella propria memoria.
Prende le mosse da qui la diffusione internazionale della musica di questi zingaracci andalusi. Cominciano a interessarsi al modo frigio del flamenco anche jazzisti del calibro di Charles Mingus, John Coltrane, Gil Evans, Miles Davis, Chick Corea, Michael Camilo… e a sua volta il flamenco comincia a contaminarsi con i ritmi sudamericani, in concomitanza con i flussi migratori ispanoamericani.



Insomma, la contaminazione continua al di là dell’EurAsia e produce nuovi frutti come lo splendido
Entre dos Aguas di Paco De Lucía, che nel 1975 fa sentire al mondo intero questa straordinaria rumba sospesa tra le acque dell’Atlantico e quelle del Mediterraneo, un meraviglioso palo de ida y vuelta, un flamenco di andata e ritorno.



Oggi si contano decine di “

palos”, ovvero di stili di flamenco differenziati in base alla melodia, alla tonalità, all’argomento trattato e al compás.
Il compás, a sua volta, è la sequenza ritmica che caratterizza i diversi tipi di palos. Di norma, viene “tenuto” con las palmas, le quali possono essere sorde, quindi realizzate creando un vuoto d’aria, oppure eseguite battendo le dita di una mano nella concavità dell’altra.
Alcuni palos sono accompagnati dalla chitarra, altri sono “a palo seco”, ovvero sono cantati a cappella, senza accompagnamento strumentale e con los bailaores che si accompagnano con palmas e zapateado, ovvero battiti di mani e scarpe che battono il tavolato di legno dando un ritmo ai movimenti sinuosi dei corpi (questo fa sì che i ballerini di flamenco siano sempre anche dei veri e propri percussionisti).



Ma ci sono anche palos senza accompagnamento di chitarra in cui sentiamo risuonare il suono di un martello percosso ritmicamente su un incudine. Si tratta di un tipo di
toná chiamato martinetes e nato forse come un canto di lavoro, visto che molti gitanos erano dediti alle attività di calderaio, fabbro e maniscalco ed erano pratici nell’uso dell’incudine e del martello.



Per fare un po’ di ordine nella varietà di

palos esistenti oggi, molti studiosi provano a distinguerli in due macrogruppi: quello del cante jondo (canto profondo), cui appartengono palos più antichi e malinconici che rappresentavano la condizione di emarginazione e sofferenza vissuta dai gitani, e quello del cante chico, basato su temi più leggeri, festosi e allegri.


Sara e Miriam si esibiranno in questo primo blocco in una alegrias lenta al compás di 12, un palo seco al compás di 4, un tango gitano al compás di 4 e una sevillanas in 3/4, tutti balli che attengono alla vena più gioiosa del flamenco.


Nel secondo blocco presenteranno brani di “flamenco fusion”, ovvero musica tradizionale gitana contaminata con musica strumentale e pop.
In particolare, le ammireremo in una coreografia basata sulla colonna sonora di Zorro, del compositore statunitense James Horner, e due brani dei Gipsy Kings (i monarchi del flamenco pop): ovvero lo strumentale Allegria e una versione aflamencada di My Way che nelle mani dei Re Gitani diventa A mi Manera.


Nel terzo blocco di balli avremo un saggio del fortunato incontro del flamenco con la musica classica. Ancora una contaminazione, benché cólta e accademica.
Confesso che in questo ambito le mie preferenze vanno all’opera autoctona di Manuel de Falla, ma Miriam e Sara hanno preferito lasciarci sulle aricinote note della Carmen di Bizet, un compositore francese trascinato dalla moda spagnola che imperversava tra gli artisti europei del Romanticismo.

In realtà, già nel ‘700 erano rimasti irretiti dai ritmi e dalle armonie della musica popolare andalusa autori del calibro di Domenico Scarlatti, Boccherini, Gluck e Mozart.

Ma fu soprattutto nell’800 e, segnatamente, in Russia e Francia, che esplose l’interesse della musica colta per il flamenco con autori come Debussy, Ravel, Rimsky-Korsakov, Tchaikovsky e, per l’appunto, Bizet, con la sua celebre opera ambientata a Siviglia di cui assisteremo ora a due quadri coreografici (la famosa habanera e una danza di stile aragonese). La Carmen è un’opera basata sul fuoco della passione, e sospesa tra eros e thanatos come piaceva ai romantici e come continua a piacere al pubblico di oggi. Un’opera senza mezze misure, tutta vestita di rosso e di nero.



Speriamo che nell’interpretarla

las dos hermanas Costanzo siano prese di nuovo dal “duende”, dal “munaciello”, da quel demone “misterioso che tutti avvertono e che nessun filosofo riesce a spiegare”.
Proprio nella conferenza con cui ho osato esordire, García Lorca affermava che el duende è uno spirito che viene dalla terra e “sale interiormente partendo dalla pianta dei piedi”, un fuoco sacro “trasmigrato dai misteri greci nelle ballerine di Cadice”.
Il che conferma il carattere tutto terreno del flamenco, un ballo dionisiaco che punta i piedi al suolo ed è tutto basato sul ritmo e sulla fisicità degli interpreti, tanto quanto la danza classica occidentale tende a liberare i piedi dal suolo per rendere i corpi eterei, leggeri, apollinei e svolazzanti…

Vedete questo demone in azione in un gruppo di foto de las hermanas Costanzo realizzate da Rosario D’Angelo.

Nel balletto classico i passi sono codificati e le coreografie predeterminate, nel flamenco l’improvvisazione la fa da padrona. Anche perché “per cercare il duende non v’è mappa né esercizio”.
“I grandi artisti della Spagna meridionale, gitani o flamenchi, sia che cantino, ballino o suonino, sanno che non è possibile alcuna emozione senza l’arrivo del duende”.
“Il duende non si ripete, come non si ripetono le forme del mare in burrasca.”

Insomma, godiamocele queste onde e lasciamoci trascinare dal ritmo. Il flamenco non è fatto per rilassare la mente o fare da sottofondo. Il flamenco è fatto per scuotere e agitare. La sua essenza attiene più alla trance degli sciamani e al fuoco dei tarantolati che alla meditazione degli asceti. Per quella consiglio Debussy, il silenzio e Satie.

Procida, agosto 2019 – Troppe imbarcazioni davanti all’orizzonte

27 martedì Ago 2019

Posted by aitanblog in invettive, otherstuff, texticulos, vita civile

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corna, munnezza, yacht

Riccastro da quattro soldi, pidocchio risagliuto e infrackettato che ti sei fatto una sciammeria con la tua amante, una prostituta di passaggio sulla tua barca o tua moglie (che fa lo stesso) e poi dalla cambusa hai gettato a mare un profilattico di sfaccimma che è arrivato in quattro e quattr’otto a riva, visto che ancorate le vostre stramaledette barcacce a pochi metri dalla spiaggia e poi riversate in acqua di tutto (la mattina l’acqua a Pozzovecchio è limpida, poi arrivate voi con i vostri gas di scarico e tutta la monnezza che consumate a bordo e il mare si intorbidisce, si insozza e si riempie della vostra lotamma), riccastro da quattro soldi, dicevo, brutto cornuto che può essere pure che quel profilattico l’ha buttato a mare il marinaio (o il cuoco o il tuo migliore amico) che si scopa tua moglie mentre tu continui a fare soldi per mantenerti la barca e l’amante di cui sopra, brutto riccastro, dicevo, spero che la prossima volta, mentre lo butti a mare quel tuo profilattico (tuo o dell’amante di tua moglie, non importa, che questi non sono cazzi miei), e comunque mentre cade in acqua il fottuto profilattico spero che ti cada per terra il posacenere della sigaretta del doposciammeria e si incendi tutta la barca, anche se poi mi dispiace che l’acqua si farà tutta nera e l’aria piena di ceneri e lapilli come fosse Pompei. Mannaggia, mi dispiace veramente che arriva questo fuoco in questa terra, mi dispiace per l’aria e per l’acqua, ma non si può fare una frittata senza rompere qualche uovo, lo diceva pure Jocker facendo una risata in faccia alla buonanima di Batman…

Sull’Amazzonia le chiacchiere stanno a zero

24 sabato Ago 2019

Posted by aitanblog in riflessioni, vita civile

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Amazzonia


Quanto siamo disposti a pagare perché non brucino le foreste?
Che siamo pronti a fare per salvarci il culo e il “nostro” polmone verde?


Sono almeno venti anni che ripeto che, se è vero come è vero che gli alberi dell’Amazzonia producono una parte cospicua dell’ossigeno della nostra atmosfera, il resto del mondo (soprattutto la parte più ricca e industrializzata del pianeta) non può limitarsi a bacchettare il Brasile (ed anche la Colombia, il Perù, il Venezuela, l’Ecuador e la Bolivia…) per consumare le proprie foreste e cercare di sfruttarle intensivamente ed estensivamente, alla stregua di come il resto del mondo ha sfruttato e cementificato nell’ultimo paio di secoli le sue terre.
Se il resto del pianeta chiamato Terra vuole che le nazioni amazzoniche difendano gli alberi delle loro sterminate foreste, invece di fare proclami per gridare che la casa brucia e pensare di imporre loro delle sanzioni, dovrebbe incrementare il fondo per la salvaguardia del polmone del mondo e foraggiare questi Paesi per trasformarli in sentinelle dell’ossigeno planetario.

Troppo facile per l’Occidente ricco e la Cina neocolonialista continuare a chiedere agli altri misure ambientaliste che non sono state applicate nel proprio territorio e che hanno contribuito alla crescita del proprio PIL e all’affossamento delle economie dei Paesi più poveri e meno industrialmente e finanziariamente sviluppati di questo martoriato pianeta.
Sono le solite pretese di chi è abituato a fare il sodomita con i deretani altrui.

Insomma, se da Nord, dall’estremo Est e da Occidente vogliamo davvero difendere le foreste del Sud della Terra, dobbiamo mettere mano alla tasca e smettere di fare chiacchiere. Altrimenti sarà inevitabile l’abbattimento delle foreste per ricavarne legname e far posto a coltivazioni più redditizie (come la soia e la coca) o a terreni da pascolo per gli allevamenti di bovini destinati a fornire una quantità crescente di alimenti a questo mondo affamato di carne, sangue e denaro facile.

Oppure, piantiamola una buona volta di chiedere ossigeno all’Africa, all’Amazzonia o a che vive lontano da qui.
Piantiamoceli fuori casa i nostri alberi!

Note in Villa

24 sabato Ago 2019

Posted by aitanblog in musiche, recensioni

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chitarra, Francesco Di Giuseppe

Stasera, nella Villa comunale di Via Siepe Nuova, a Frattamaggiore, se non siete venuti, vi siete persi un bel concerto chitarristico di Francesco Di Giuseppe; penultimo evento della manifestazione “La musica e il cinema in villa” organizzata dal Comitato “ViviAmo la Città”, dal Comitato di Quartiere “Via Siepe Nuova” e dall’Associazione Culturale “Irma Bandiera”.

Col suo consueto eclettismo (spesso su questa pagina ho mostrato le molte facce di FdG e del suo eteronimo “Perzico“), la sua perizia tecnica e la sua sensibilità musicale, Francesco si è esibito in un repertorio che ha spaziato tra la canzone napoletana (con suoi personali arrangiamenti di “Indifferentemente”, “Era di maggio”, “Passione”, “Marinariello”, “Anema e core” e “Reginella“), classici del chitarrismo spagnolo, come “Capricho árabe”, “Recuerdos de la Alhambra” (entrambi di Tárrega) e “Asturias” (scritta originariamente per piano da Isaac Albéniz), un tango di Astor Piazzolla (“Adiós Nonino“), riarrangiato per chitarra da Francesco medesimo con l’impegno di non perdere il carattere fugato e le linee armoniche e melodiche intrecciate dal compositore argentino.
Il concerto si è concluso con tre composizioni originali di FdG tratte dall’album “Music” (“Con amore”, “Tra la gente” e “Fumo“) e con una struggente interpretazione del “Tema di Deborah” (da “C’era una volta in America“) del maestrone Ennio Morricone.

Tra tremoli, arpeggi, rasgueados, complesse linee di basso, semplici melodie popolari e complesse linee armoniche, il tempo è volato via regalandoci momenti evocativi e ineffabili come la musica.

Grazie, Francesco, e grazie anche ai due ragazzi che si sono esibiti prima di lui al canto (con una versione da brivido di “Fever” di Elvis Presley) e al sassofono tenore. Mi dispiace non conoscere i loro nomi (scriveteli, se li sapete voi, nei commenti).

L’Internazionale del Malessere

23 venerdì Ago 2019

Posted by aitanblog in versiculos, vita civile

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crisi, voltastomaco

Non mi sento granché
Mi gira la testa
Ho un groppo alla gola
Perdo l’equilibrio
Sento un groviglio
nella pancia
e tra i pensieri
Mi affligge l’Africa
Mi pesa la Cina
Mi pesa la Russia
Mi addolora la Siria
Mi preoccupano
l’Afghanistan
l’Ungheria
e l’Albania
Mi manca l’ossigeno
Mi brucia l’Amazzonia
Mi fanno male
gli Stati Uniti d’America
il Regno Unito
la Francia
la Germania
e la Turchia
E me ffa vuta’ ‘o stommaco
chello ca veco ogni juorno
int’ ‘a casa mia

Come farò, ora, a dirlo alla piccola?

12 lunedì Ago 2019

Posted by aitanblog in musiche, stefania, vita civile

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memoria, nonno Nicola, Pink Floyd

I morti non sono assenti, sono invisibili, tengono i loro occhi pieni di luce nei nostri pieni di lacrime.
(Sant’Agostino)

No one sings me lullabies
and no one makes me close my eyes,
so I throw the windows wide
and call to you across the sky.
(“Echoes”, Pink Floyd, 1971)

Nessuno mi canta nenie
e nessuno mi fa chiudere gli occhi,
così spalanco le finestre
e ti chiamo tra i cieli.
(La traduzione è mia.)

How I wish,
how I wish you were here.
We’re just two lost souls
swimming in a fish bowl,
Year after year,
running over the same old ground.
What have we found?
The same old fears.
Wish you were here.
(“Wish You Were Here”, Pink Floyd, 1975)

Come vorrei,
come vorrei che tu fossi qui.
Siamo due anime perse
che nuotano in una palla di vetro.
Anno dopo anno
corriamo sullo stesso vecchio terreno.
E che abbiamo trovato?
Le solite vecchie paure.
Vorrei che tu fossi qui.
(La traduzione è mia.)

Nei prossimi giorni ripasserò tutta la discografia dei tuoi Pink Floyd, come se tu fossi qui, insieme con la donna della tua vita, nella vostra casa di sempre.

And I am not frightened of dying, any time will do, I don’t mind.
Why should I be frightened of dying?
There’s no reason for it,
you’ve gotta go sometime
I never said I was frightened of dying.
(“The Great Gig in the Sky”, Pink Floyd, 1973)

Ed io non ho paura di morire,
in qualunque momento accada,
non m’importa.
Perché dovrei avere paura di morire?
Non c’è nessun motivo,
prima o poi devi andartene.
Non ho mai detto di avere paura di morire.
(La traduzione è mia.)


Eri un uomo buono, adorato dalla tua nipotina adorata.
Ci hai lasciato in punta di piedi, attento a non disturbare.
Ma siamo rimasti attoniti, cercando di interpretare le tue ultime volontà e di sentire dentro di noi la tua voce.

Che la luce della notte illumini il tuo cammino.


La calca siamo noi

08 giovedì Ago 2019

Posted by aitanblog in da lontano, musiche, riflessioni, vita civile

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calca, mare

(Ovvero, la ricerca di sé passa per te e per me nelle stesse spiagge dello stesso mare. Salvo eccezioni.)

Ti giri intorno a fatica; c’è tanta gente; mentre torci il tuo corpo ti incontri col corpo di un altro, di un altro e di un altro ancora; sgomiti, sudi, ti lamenti della calca; ma non ti accorgi che sei tu, la calca.


Tutti ar mare,
tutti ar mare
a mostra’
le chiappe chiare,
co’ li pesci,
in mezzo all’onne,
noi s’annamo a diverti’.


Tutti al mare, tutti al mare, la facciamo noi, tutti insieme, questa sudata calca balneare in cerca di sol-lazo, pax e sol-edad.
Eppure ognuno sogna di non incontrarla, la calca, che è come dire, non incontrare se stessi in mezzo a una marea d’altri se stessi percorsi dallo stesso sogno esclusivo di pace, intimità, gioia e solitudine.
Un modo come un altro per sentirsi diversi come tutti gli altri, stando tutti in mezzo a tutti gli altri. Ognuno in cerca di sé, come te e come me, e in fondo persi tutti dentro ai fatti nostri. La calca, la calca, appunto.

In ogni modo qui, quest’estate, in giro c’è meno gente di quanto pensassi. Molta di meno, in verità.
Dove è la calca?
Dove sono gli altri che siamo noi?
Dove siamo noi?
Verranno tutti a Ferragosto o si stanno accalcando in altri siti, in altre piagge e in altri lidi?

________

In sottofondo musica ambientale cinese in presa diretta.
Ma non siamo nell’isola di Hainan.

La fresella del Che

04 domenica Ago 2019

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fresella

(Una mia poesiola d’occasione, scritta di getto per il contest poetico “Fresella Fest 2019”.
Modestamente, non solo non vinse tra uno sparuto gruppo di versi sciolti e in rima, ma non meritò nemmeno una menzione o un secondo posto…
Ah, il Che del titolo è nientemeno che Ernesto Guevara da cui rubo la chiusa e il concetto che ispira tutta la composizione, versicolo per versicolo.)


(Versione in dialetto frattese)

‘Amma essere tuoste,
tuoste comm’a
‘na tavole ‘i ponte
ca’ supporta ‘o peso
‘e ciente fravecature
e mille passe.
‘Amma essere tuoste
tuoste comm’o fierre,
‘a ‘uerra e ‘o sgarro.

‘Amma essere tuoste,
ma ‘o mumento bbuone
c’avimme sape’ ammulla’
comme ‘a ‘na fresella
ca sott’all’acqua
se fa bbona
p’ogni diente
e cu nu file d’uoglie
e doje pummarole rosse
te fa arrecreja’ a vocca,
‘o zezzenielle e l’ossere.

Amma essere tuoste,
ma nun ‘amma maje
perdere ‘a priezza,
‘o zucchero, ‘o sale
e ‘i tenerezze
‘e ‘na fresella
ca’ s’ammolla sott’all’acqua
e se squaglie ‘mmocca
pe’ te purta’ int’o mare
‘i l’alleria e de culure!

“Bisogna essere duri
senza perdere la tenerezza.”


(Versione in lingua nazionale)

Dobbiamo essere duri,
duri come
una tavola di ponte
che sopporta il peso
di cento lavoratori
e mille passi.
Dobbiamo essere duri,
duri come il ferro,
la guerra e lo sgarro.

Dobbiamo essere duri,
ma al momento buono
ci dobbiamo sapere
ammorbidire
come una fresella
che sotto l’acqua
si fa buona
per ogni dente
e con un filo d’olio
e due pomodori rossi
ti fa rinverdire la bocca,
l’ugola e le ossa.

Dobbiamo essere duri,
ma non dobbiamo mai
perdere l’allegria,
lo zucchero, il sale
e la tenerezza
di una fresella
che s’ammorbidisce
sotto l’acqua
e si scioglie in bocca
per portarti in un mare
di gioia e di colori!

“Hay que endurecerse
sin perder jamás la ternura”


HASTA SIEMPRE

Giochi sotto l’ombrellone del povero Cipputi

01 giovedì Ago 2019

Posted by aitanblog in immagini, inter ludi, vita civile

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giochi, lega

Giochi sotto l'ombrellone del povero Cipputi (after Altan)

(Aitan after Altan)

Gioco di logica algebrica

Anagramma INVALSI

Lega Rebus

Rebus facile


Metto le mani davanti (come se volessi nascondere le pudende o proteggere i coxxxoni): insomma, non ditemi che trovate che questi giochetti non siano abbastanza politicamente corretti; lo so, lo so, sono pieni di difetti, ma questo è il Paese in cui un ministro non perde la faccia neanche dopo che definisce una donna “zingaraccia”…

Sull’onda di tanta sfrontatezza, per una volta, rutto in pubblico anch’io. Tanto per vedere l’effetto che fa. E, comunque, lo faccio dopo aver indossato una maschera ludica, per coprire vergogna e vergogne. Mi scuserete ma, per il momento, non ce la faccio a essere più scostumato e spudorato di così, certe salvinate sono al di là delle mie umane possibilità.


link al sito personale di Gaetano "Aitan" Vergara

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