La serata di sabato del Pomigliano Jazz Festival è stata ricca e intensa.

Io non smetterò mai di tessere le lodi di questo festival campano che da oltre un decennio offre alla città dell’Alfa Sud ed alle zone collegate una valanga di note jazz a titolo completamente gratuito. E di concerto, arrivano una serie di iniziative culturali che meritano di essere strenuamente sostenute. Anzi, bando alle ciance, cominciamo tutti a firmare la Petizione a sostegno di Pomigliano Jazz inviando un’e-mail all’indirizzo info@pomiglianojazz.com ed indicando:
– Cognome e Nome
– Luogo e Data di nascita
– Comune di Residenza
– Professione
Ed in aggiunta la dicitura:
Aderisco alla Petizione a sostegno di Pomigliano Jazz.
Autorizzo al trattamento dei dati personali.
Il trattamento dei dati personali avverrà solo per fini istituzionali e nei limiti di legge, secondo quanto previsto dal D. Lgs. 30 giugno 2003. |
Ed ora una mia recensione sentimentale su due dei quattro concerti di sabato.
La serata si è aperta alla grande con il Paolo Fresu Quintet. Un collaudatissimo combo con più di vent’anni di attività alle spalle (qualcuno alle mie di spalle, quando ha sentito dire al leader che suonavano insieme dall’84 non ha potuto fare a meno di chiedersi ad alta voce: “Ma allora ‘stu guagliunciello quant’ ann’ ten’?”. Fresu a dispetto dei suoi 46 anni sembra veramente un ragazzino, uno spiritello scalzo sempre pronto a passare da una tromba a un flicorno, aggiungere una sordina alla campana e manipolare mixer e campionatori da quel perito perito elettronico che è).

È la terza volta che ho l’occasione di sentire il quintetto dal vivo, e scopro con piacere che riesce sempre ad emozionarmi. Fresu, Cipelli, Tracanna, Zanchi e Fioravanti sono musicisti che suonano coesi, che si ascoltano, dialogano, si passano con grazia e scioltezza il testimone. Magari può risultare un po’ eccessiva l’esigenza del leader di manipolare e moltiplicare con l’elettronica la voce di trombe e flicorni o aggiungere effetti di cristallo infranto al piano di Roberto Cippelli (succede nel brano Kosmopolites), ma l’insieme è gradevole e “ben temperato”. Le improvvisazioni scorrono fluide e narrative, la sezione ritmica accompagna sapiente e suona forte quando forte deve suonare (nonostante Attilio Zanchi fosse reduce da una febbre da cavallo e fino all’ultimo momento non si sapeva se ce l’avrebbe fatta a innervare il concerto con le sue note di contrabbasso).
Nel corso dell’esibizione, Tino Tracanna ha presentato due sue composizioni dai titoli insoliti e immaginifici: “À propos de Monsieur Quenau” (manco a dirlo, improntata su una serie di “esercizi di stile”) e “Riemann’s Maid”. Quest’ultimo brano è dedicato alla domestica del geniale matematico Bernard Riemann, famosa per aver fatto pulizia tra gli archivi del suo datore di lavoro, rendendo così impossibile l’accesso all’ottanta per cento delle carte del defunto. È un tema dalla struttura molto spigolosa in cui Tracanna, al sax soprano, sembra essere sospeso tra Steve Lacy ed Anthony Braxton, poi la sua voce comincia a intrecciarsi con quella di Fresu in unisoni ed imitazioni che ricordano Don Cherry ed Ornette Coleman, finché, all’improvviso, Cippelli comincia a intervallare accordi al piano elettrico che virano verso un’atmosfera “very Bitches Brew” (sarà il più trito dei luoghi comuni, ma io nella tromba e nelle sordine di Fresu non posso far a meno di sentire riecheggiare le note del Miles Gloriousus).
In alcuni intrecci tra sax e flicorno, Fresu fa da bordone con note lunghissime che mi fanno pensare alla respirazione circolare praticata dai suonatori di launeddas della sua Sardegna (ma è probabile che, dal punto di vista tecnico, vi stia scrivendo una sonora puttanata).
A metà concerto, apprezzo particolarmente un brano dall’andamento di Tango Marsch che credo sia del batterista Ettore Fioravanti (un valore aggiunto di questo gruppo è costituito dal fatto che ciascuno dei 5 musicisti che lo compongono ha il suo spazio sia come autore che come esecutore: e difatti dal 2004 la Blue Note va pubblicando una serie di incisioni ognuna delle quali è dedicata all’attività compositiva di uno dei membri del quintetto).
Quello che meno mi è piaciuto del concerto è stata la presenza sul palco del pittore Salvatore Ravo. Intendiamoci, niente contro questo artista performer: poteva anche essere interessante vedere la sua tela cambiare 5 o 6 volte davanti ai nostri occhi ed ogni volta sembrare conclusa e magari farci rimpiangere la versione precedente. Peraltro, a me non dispiacciono affatto i colori violenti e caldissimi dei suoi quadri, tanto che al festival ho anche comprato una t-shirt che rappresentava una sua opera. Ma quello che non mi convince è questa esigenza di contaminare i linguaggi artistici a tutti i costi. Come se la musica non riuscisse ad essere autosufficiente. Una performance jazz è fatta anche della gestualità dei musicisti, dei corpi che si piegano per prendere note impossibili, del dondolio della testa del batterista, degli sguardi compiaciuti. Perché distrarre il pubblico con altro sortendo effetti pleonastici, ridondanti e decorativi?
Se ce la fate ancora a leggere, passo a raccontare il concerto che lo scorso sabato mi ha intrigato di più (omettendo la performance pur gradevole di Pierannunzi e Montellanico, che si sono esibiti al Sound Jazz Cafè di Via Leopardi, a pochi passi dal parco del festival pomiglianese).
Si tratta dell’Avishai Cohen Trio.

Non conoscevo questo gruppo. Ma già mi incuriosiva il nome di chiara ascendenza ebraica del band-leader, anche se nel depliant del PJF non si faceva cenno alle origini del musicista (forse per eccesso di politically correctness o perché, per ovvie ragioni, i natali israeliani diventano ogni giorno più ingombranti, se non sei il nazareno). Si parlava, però, di un artista che “combina gloriosamente le influenze della musica classica e medio orientale e del jazz”. Beh, da quello che ho sentito sabato e che sto sentendo oggi (dopo aver comprato i suoi due ultimi album, autoprodotti) non manca nemmeno l’influenza della musica iberica, delle ritmiche latine e delle melodie più propriamente yiddish (tanto che qualche brano fa pensare ai Masada di John Zorn e potrebbe essere parte integrante dalla sua Tzadik). Un musicista senza confini, insomma; uno di quelli che confermano che i prodotti più belli nascono dalla contaminazione delle tradizioni, da quel crossover che da sempre alimenta la cultura di ogni latitudine incrociando le strade della musica popolare e tradizionale con la classica e col jazz. Nella musica non esistono confini o steccati frapposti tra nota e nota. When people believe in boundaries, they become part of them. È di nuovo il Don Cherry che citavo un post più sotto (“quando la gente crede nelle frontiere, ne diventa parte integrante”). Avishai Cohen lo sa e si muove in piena fedeltà alla linea laica di Terenzio: ’Homo sum; humani nihil a me alienum puto’; per questo la sua musica può farci sentire a casa ovunque (e in nessun luogo).
Dunque, da una ricerca in rete, che parte proprio dal suo sito, ora so che si tratta di un bassista israeliano, ma americano d’adozione; un trentaseienne che ha suonato con illustri personaggi del calibro di Ravi Coltrane, Wynton Marsalis, Joshua Redman, Paquito D’Rivera, Roy Hargrove, Danilo Perez e Chick Corea.
Dall’ascolto del concerto e dei suoi dischi, aggiungo più sostanziose informazioni: ora so anche che Avishai è dotato di una straordinaria abilità tecnica e di un’intonazione che rasenta la perfezione; che dal suo contrabbasso vengono fuori ritmi incalzanti e taglienti e melodie cantabili e coinvolgenti; che suona con impeto e vigore, ma non manca di senso dell’umorismo e di un certo distacco ironico; che imbraccia con disinvoltura tanto l’archetto quanto il basso elettrico; che le sue composizioni sono abbellite da cambiamenti di tempo, sottili tessiture armoniche e spassose citazioni; che talvolta gli arrangiamenti peccano in ricercatezza ed effettismi che li rendono alquanto sofisticati ed al limite di uno snobismo patinato che definirei “alquanto unjazzy” (ma non per questo, meno godibile).
Molto bravi e virtuositici anche Sam Barsh e Mark Giuliana che lo hanno accompagnato al piano ed alla batteria in straordinari interplay pieni di brio e vitalità.
Nel corso del concerto, ho trovato un po’ adulatorio e ruffianesco un riferimento ai mondiali di calcio, mentre, dopo un primo imbarazzo, mi è parsa adeguata una litania in cui il trio ha coinvolto il pubblico in un canto di pace. Anche se non sono certo che la maggioranza degli astanti sapesse che senso avesse quello Shalom che stava intonando in coro e cosa significasse, nel caldo di questo luglio, l’emozione del trio che l’accompagnava.