In due o trecento metri, due o trecento auto incanalate nel traffico.
La Campania, la mia Campania, la mia Campania felix sta ogni giorno peggio.
Una volta questa terra si chiamava terra di lavoro: una terra ubertosa, fertile, fertilissima; una terra ricca di canapa, di fragole, di noci, di tabacco e di braccia generose. Una terra di fatica e sudore; una terra martoriata, deturpata e incenerita; una terra offesa, vilipesa e dilaniata.
In due o trecento metri, tre cassonetti bruciati.
Certo le colpe sono strutturali e ampiamente diffuse, il fuoco lo accendiamo qua, ma la munnezza viene anche da nord e da centro. La mala politica, gli affaristi, la mafia e la camorra endogena ed esogena… Tutto vero, tutto perversamente cooperante ad affossare la felicità di questo angolo di paradiso spuntato tra Napoli e Caserta.
Sono bloccato in questi due o trecento metri e impreco.
A volte penso che perdiamo troppo tempo a cercare colpe al di fuori del nostro agire quotidiano.
Non possiamo autoassolverci così facilmente; una buona parte dei problemi hanno messo le radici dentro di noi. Abbiamo vissuto in questo territorio per secoli e secoli senza maturare un reale senso di appartenenza. Oppure lo abbiamo perduto, un po’ alla volta, ad ogni dominazione esterna.
In due o trecento metri, decine e decine di auto parcheggiate a capa di cacchio.
Questa è un terra in cui è molto diffusa la mancanza di senso civico, qui la munnezza “se votta ‘a fora” e la casa si tiene pulita. E questa mancanza di senso civico mi pare che venga da molto lontano: da secoli in cui la gente di questi incantevoli luoghi non è stata mai padrona della terra che lavorava; da secoli in cui si è rafforzato l’attaccamento alla propria famiglia, ma si sono indeboliti i legami col proprio territorio, con la gente del vicinato, con le strade e i monumenti della propria città, del proprio paese… Tanto ‘a terra nun è ‘a mia. ‘E figlie so’ piezze ‘e core, tutto ‘o riesto no, nun m’appartene. ‘A terra è d’o viceré, d’o sinneco, d’o padrone…
No, no, no! La terra è nostra e tutto chello ca sputammo ‘ncielo ‘nfaccia ce cade.
In due o trecento metri, decine di motorini senza casco e senza senno mi sorpassano da destra e da sinistra e mi viene voglia di buttarli sotto.
Riprendiamoci quello che ci hanno tolto e difendiamolo con le unghie e coi denti.
Questo può tornare un posto bellissimo in cui è desiderabile vivere e far crescere figli migliori di noi; ma dobbiamo imparare a rispettare quello che la natura e la sorte ci hanno dato in custodia e godere di questo sole, di questo mare e di queste montagne, tutte così ravvicinate, tutte così magicamente a portata di mano. E dobbiamo smettere di fare i furbi e ingannarci l’un l’altro. Finiamola una buona volta con l’arte di arrangiarci e di fotterci a vicenda. Smettiamola di saltare le file e imbrogliare ai concorsi. Smettiamola di chiedere ed elargire piaceri. Impariamo un po’ di spirito di cooperazione. Non diamo più spago a chi fa di noi il capro espiatorio dei problemi del Paese. Abbassiamo il livello delle nostre meschinità e del nostro tornaconto e facciamoci intelligenti, intelligenti e cooperanti per la costruzione di un futuro bello da vivere in uno dei luoghi più straordinari, floridi e invidiabili del mondo.
In due o trecento metri, mi tagliano due volte la strada, mi incazzo e comincio a muovermi anch’io nel traffico come un pazzo scriteriato, passando da una corsia all’altra e non rispettando più semafori e precedenze. Ma jatevenne ‘a ffa ‘nculo tutte quante. Ma che gente ‘e merda, ma che popolo ‘e curnute e figlie ‘e zoccola!
In due o trecento metri, un bambino gioca a pallone tra le auto e la palla attraversa il finestrino e mi finisce sulle braccia. Gliela passo incazzato, lui mi sorride e io cambio di nuovo umore e so’ cuntente ‘e sta…