Non si può avere sempre torto. Qualche volta ti capita di avere ragione anche a ‘tte, pure se resti bloccato a vita sulla tua stolta posizione.
Uhà, stu rilorgio s’è mpazzuto, va bbuono sule quanno songhe e 10 e 10, ma propeto preciso…; tutte ‘e sante juorne, notte e juorne. Però, po’, basta che se fanno e 10 e 11 e se scassa n’ata vota. Tutte ‘e sante juorne. Secondo me, m’hanna mise l’uocchie ‘nguollo!
Versione in lingua nazionale per i non partenopeo-parlanti:
Ma caspita, questo orologio è impazzito, ormai va bene solo alle 10 e 10 in punto…; tutti i santi giorni, notte e dì. Però, poi, appena si fanno le 10 e 11, ricomincia ad andare indietro. Tutti i santi giorni. Secondo me, mi hanno fatto un malocchio!
(Dove vaneggio, vacillo e vagolo da Picasso a Sanremo)
Copiare va bene, copiando si imparano un sacco di cose. Copiano anche i grandi e tante volte fanno diventare immense le piccole cose che sono state la fonte della loro ispirazione. Copiavano pure Giotto, Virgilio, Sergio Leone, Bach e John Coltrane. Quentin Tarantino ha costruito buona parte del suo successo riassemblando e ripassando in bella copia opere altrui di livello piccolo, infimo e grande. Zucchero, idem (anche se lui, come tanti manieristi scomparsi dai libri di storia, il più delle volte ha ripassato cose belle o gradevoli in brutta copia facendo venire fuori il letame dai diamanti). Dante, Cervantes e Shakespeare – i più grandi – acchiappavano dappertutto e ogni cosa trasformavano in oro colato. Dopo le grotte di Altamira, l’epopea di Gilgamesh e i canti orfici e dionisiaci (più indietro non riesco ad andare) niente o quasi niente è originale. Anche l’Iliade e l’Odissea erano opere di compilazione. Come l’Eneide che le prese a modello. Figuratevi che quel gran genio di Picasso, lo stesso che diceva “Io non cerco, trovo”, pare che abbia affermato che i mediocri imitano e i geni copiano. Solo che chi copia e basta si ferma là e copia da una sola fonte, mentre chi crea, copia da molte fonti e da quel coro di fonti riassemblate viene fuori la sua voce. Perché don Pablo la sua voce ce l’aveva e come. E poco importa sapere se fu lui il primo il secondo o il terzo cubista sulla scena dell’arte del secolo XX. Lui fu il più grande e gli altri ne restarono oscurati, anche se stanno anche loro nelle sue tele.
Ingres / Man Ray / Manara
Insomma, l’importante non è da dove si prende; quello che importa è dove si porta. Questa l’ho copiata da Jim Jarmusch o da me stesso che l’aveva copiata a Jim Jarmusch, e Jim Jarmusch, a sua volta, aveva attinto dal wikiquote di Jean-Luc Godard. Voi, se approfondite, vedrete che Godard l’aveva copiata da qualche altra parte, che l’aveva presa da qualche altra parte, che l’aveva presa da qualche altra parte. Una specie di mise en abyme ad infinitum o giù di lì…
Nihil novum sub sole. In fondo, tutto, più o meno, è stato già detto. Quello che bisogna ancora fare è trovare modi nuovi per dire le vecchie cose, e bisogna dirlo nei posti giusti e senza banalizzare. Non è che possiamo usare sempre le stesse trite e ritrite metafore e fare sempre gli stessi ritriti e triti giochi di parole (tipo “trite, ritrite”, “ritrite, trite” e compagnia triste e triturante). “Il primo che ha detto che le lacrime erano perle, è stato un genio, e l’ultimo che lo ha ripetuto, un idiota”. Non è che se mi metto pure io a squarciare tele o inscatolare pezzi di merda finisco in un museo come Fontana e Manzoni (Piero). Va be’, mi sto incartando… Cerco di concludere. Copiare va bene, copiando si imparano un sacco di cose (questa l’ho copincollata dal mio incipit; si copia anche da se stessi, tante volte); ma se se sei in una competizione e sbirci dal foglio del tuo contendente o sei un bastardo o un disperato a corto di idee e privo di capacità personali; e se continui a copiare i miei testi senza citare le fonti vengo lì, te ne e dico quattro, ti spezzo in due e ti lascio sulla faccia una copia conforme delle mie cinque dita. Ecchecacchio! E mo copiati pure questa, se hai il coraggio, e magari trasformala in un sonetto shakespeariano, in una novella di Cervantes o in una canzone di Gaber non mutuata da Céline.
Di Achille Lauro e di “Sanremo è Sanremo, è Sanremo, è Sanremo…” vi dirò un’altra volta. Oppure mai, magari.
Tanto, intanto, ho già detto tutto (o tanto), per chi vuol sentire.
Nel 2002 (anno palindromo o capicúa, ovvero capocoda, come dicono in Catalogna), partecipai a un concorso messicano di minicuentos (tema “la comida“, il cibo) con questo miniracconto bifronte e conquistai una menzione speciale della giuria.
Palíndromo Argentino (Giles Ravager)
20 02 2002 Ojo, como como con Anarita la tirana, no como como cojo. 2002 20 02
Lo firmai con uno dei miei molteplici pseudonimi: Giles Ravager (che nasconde, ma non troppo, l’anagramma del mio cognome). Naturalmente, se provate a leggere il testo di “Palíndromo Argentino” in senso inverso avrete lo stesso racconto. Senza sorprese.
Il racconto poi è stato anche pubblicato nella raccolta di “42424 Palíndromos españoles” curata da Víctor Carbajo nel 2008. Non mi chiedete la traduzione, tanto lo spagnolo si capisce subito. O forse no. Va be’, vi basti sapere che “ojo” vuol dire occhio; “como” può voler dire: come, siccome e mangio (terza persona singolare del verbo comer) e che cojo è la prima persona del verbo coger che in spagnolo vuol dire prendere, afferrare, ma in Argentina ed in altri paesi dell’America Latina ha assunto un connotato sessuale e, in pratica, corrisponde a fare l’amore (anche se suona alquanto volgare, un po’ come l’italiano “scopare“, per intenderci).
Insomma, nella fatidica data 02022020 (data palindroma o capicúa, ovvero capocoda, come dicono in Catalogna) mi è venuto in mente questo fatto qua, ve lo volevo dire e ve l’ho detto. Se Recai piaceR, ditelo in giro. Se no, fate come se niente fosse e scusatemi per il tempo che ho sottratto al vostro 02022020.