Storie di canapa e di cambiamenti
La mia bisnonna, madre del mio nonno paterno, la chiamavano ‘A principale, ma il suo nome era Orsola, Orsola Farina, un nome che mi ha sempre fatto pensare al freddo polare e agli orsi bianchi. Era una signora pratica, donna Orsola, una femmina concreta, tutta dedita alla famiglia e al lavoro; una donna temutissima dai braccianti e dalle “pettinatrici” che lavoravano nella sua azienda e forse anche da molti dei suoi e miei parenti più prossimi e lontani.
Una dissacrante versione familiare vuole che il mito della sua incredibile capacità di tenere sotto controllo i dipendenti della sua azienda fosse dovuto al fatto che il marito, disertore, si nascondesse tra le balle di canapa e cogliesse l’occasione per spiare i lavoranti, per poi riportare alla moglie notizie di quelli che rubavano, gozzovigliavano, rallentavano la produzione, sprecavano i materiali o mal lavoravano. Ma è probabile che queste siano solo ricostruzioni leggendarie e irriverenti. Quello che è certo è che la canapa era il fulcro della sua vita e la materia prima su cui si sosteneva gran parte dell’economia frattese fino alla prima metà del ‘900.
Sarà stato per questo che donna Orsola volle farsi ritrarre tra le balle di canapa come una delle lavoranti della sua azienda, ma con lo sguardo dritto di chi è abituato a comandare e non si fa intimidire da nessuno, nemmeno da quel pittore venuto da chissà dove.

“Ritratto di Orsola Farina detta ‘A Principale” di Luigi Avitabile, 1939 -olio su tela, 100x110cm.
Io l’ho conosciuta, la bisnonna, quando già la sua mente vacillava. Il donnone che un paio di decenni prima faceva tremare chiunque incrociasse il suo sguardo si era trasformato in una stramba vecchina che faceva ridere nipoti e bisnipoti e suscitava tristezza e sconforto in tutti quelli che intravedevano in lei i segni della loro stessa decadenza.
Erano arrivati gli anni ’70, la canapa era stata sostituita da più economiche e meno lavorate fibre sintetiche; Donna Orsola aveva cominciato a vivere in un appartamentino piccolo borghese, l’azienda aveva chiuso da anni e il patrimonio si era esaurito ancora prima. Lei, però, credeva di abitare ancora nel suo “palazzo” padronale che intanto era diventato un condominio di 46 appartamenti e non so quanti negozi: vedeva noi bambini scorrazzare giù al cortile e gridava che le galline erano scappate dal pollaio e giravano in bici; andava dal dentista e voleva pagare in centesimi di lira; tagliava, lavava e stendeva ad asciugare i polsini della vestaglia per non sprecare soldi, tempo e acqua a lavare tutta una vestaglia macchiata solo su un polsino; scambiava le barbe di mio padre e di mio zio Gennaro per dei missionari della comunità del nipote Mario, per il quale lei, sempre così attenta al valore del denaro, era disposta ad elargire un obolo destinato ai poveri della Birmania o di altri paesi sconosciuti e lontani. Ma il ricordo più vivido che ho della bisnonna Orsola risale a quando mi nascondevo sotto il suo letto coi miei cugini e la vedevo parlare allo specchio con il suo riflesso: pensava di comunicare con la sorella e finiva sempre per irritarsi quando, d’improvviso, quel vecchio corpo piegato dagli anni spariva dietro l’anta dell’armadio.

Col tempo, sai, tutto passa e se ne va: le schiene si curvano, le menti si affievoliscono, gli edifici crollano e i ricordi si nascondono ai bordi degli specchi. Ma a volte ritornano con forza momenti del passato ed anche usi, modi e tradizioni che sembravano destinati a definitiva sparizione. Non si muove su una linea retta la storia; piuttosto segue percorsi a zig zag, spirali, parabole e curve che si richiudono su se stesse.
Ora, pare che anche la produzione e la trasformazione della canapa possano avere una nuova vita qui a Frattamaggiore, in questo territorio avvallato tra Napoli e Caserta, nelle stesse zone in cui erano impegnati a lavorarla e venderla donna Orsola e le donne e gli uomini che erano alle sue dipendenze.
Per come la vedo io, sarebbe molto bello assistere a questa rinascita della tradizione canapiera locale, ma con condizioni e contratti di lavoro da terzo millennio e senza l’occhio severo della Principale affacciata al balcone a guardare le galline scorrazzare in bici o ritratta con le mani intente a intrecciare la canapa che era stata lavorata da qualcun altro.
Campagna, campagna,
comme è bella ‘a campagna,
Ma è cchiù bella p’o padrone
ca se regne ‘e sacche d’oro
e ‘a padrona sua signora
ca si ‘ngrassa sempre cchiù
ma chi zappa chesta terra
pe’ nu muorz’ ‘e pane niro
ca ‘a campagna s’arritrova
d’acqua strutt’ e culo rutto
[…]
Campagna, campagna
comme è bella ‘a campagna
è cchiù bella p’e figlie
do padrone da terra
ca ce vene sulamente
cu ll’amice a pazzià,
ma po’ figlio do bracciante
‘a campagna è n’ata cosa
‘a campagna è sulamente
rine rutt’ e niente cchiù.
Campagna, campagna,
comme è bella ‘a campagna.
Sono versi di Franco Del Prete, un altro frattese, cantati dai Napoli Centrale in un memorabile disco del ’75 che ascoltavo da ragazzino dal jukebox del bar del mio nonno materno, dove Franco, da ragazzino, aveva lavorato. Ma questa è un’altra ed è la stessa storia di paese, di provincia e di periferia.