Mi ricordo, fu a Napoli, in una notte lontana che io lasciai cadere il nome di un tale Jacinto Chiclana. Qualcosa dissi pure della nostalgia per un paese in cui non sono mai stato, delle pagine confuse di un libro e di una milonga arcana. Gli anni ci lasciano vedere le ombre di quello che fu e fummo. Nella semioscurità si distinguono, sfocati, i contorni, ma sfuggono i dettagli. E il dio delle piccole cose sa bene quanto siano importanti i dettagli.
Con me c’era l’uomo-blogger che tra queste pagine conoscete come Alfar. Anzi, senza di lui, non ci sarei stato io, quella sera, e mai mi sarebbe venuto in mente di chiamarmi Jacinto, Jacinto Chiclana.
– Stasera, in una villa… [del cui nome non voglio ricordarmi] si riuniscono degli amici, buona gente; fanno una cosa come un cenacolo letterario.
– …
– Va be’, lo so che a te queste cose ti ammorbano, ma stasera si legge Borges. Ho pensato che ti potesse fare piacere…
Io a quei tempi avevo sul comodino l’opera quasi omnia di JLB raccolta nei Merdiani Mondadori. La stavo rileggendo avidamente come fosse la prima volta. Ma ero troppo snob per vedere sprecare qualche verso seduto al lato di un divano. Ed ero troppo snob anche per perdere l’occasione di vedere sprecare qualche verso seduto attorno ad un divano. Così dissi ad Alfar che ci sarei andato, ma non come gaetanovergara, già studente di spagnolo all’Università Orientale di Napoli…; mi stava sedimentando dentro un’idea; un’idea borgesiana. Sarei stato un argentino, un amico argentino di Alfar passato di lì a osservare come gli italiani percepiscono prosa e poesia del massimo scrittore ripoplatense vivente (en aquel entonces, vivente). E a mano a mano la mia fantasia sghemba mi prese la mano e decisi che sarei stato non un argentino qualsiasi, ma proprio Jacinto, Jacinto Chiclana.
Me acuerdo. Fue en Balvanera,
en una noche lejana,
que alguien dejó caer el nombre
de un tal Jacinto Chiclana.
Algo se dijo también
de una esquina y un cuchillo;
los años nos dejan ver
el entrevero y el brillo.
Chissà per quale ragione
mi sta cercando, quel nome;
mi piacerebbe sapere
come sarà stato quell’uomo.
Alto lo vedo e leale
con un animo cortese
capace di non alzare
la voce e di giocarsi la vita.
Mi risuonavano in mente quei versi già mentre bussavo la porta; e feci benissimo la mia parte. Rinforzavo la rotondità delle erre, sibilavo le zeta e le c interdentali, confondevo le b e le v; parlavo di me stesso come di djo (yo); mi inventavo parole in bilico tra italiano e castellano (“el ultimo tecsto di Borges”, “un urlo desgarrante”, “una fantasia sin limite”); mi perdevo tra le preposizioni e gli ausiliari (“la primera volta che ho venuto a Italia…”, “si djo avesi stato lì”), scivolavo sui falsos amigos (li conoscete, no?, tutti quei termini che sembrano simili tra una lingua e un’altra e poi ti ingannano sul più bello). Ad ogni pie sospinto fingevo di chiedere aiuto ad Alfar, da poco rientrato da un Erasmus madrileno, per capire i miei interlocutori o farmi capire da loro. E lui mi faceva perfettamente da spalla.
Ero in uno stato di grazia. Mischiavo cronaca argentina, fantasie letterarie e invenzioni; e a tutti davo una risposta convincente.
In un dato momento, si cominciò a parlare di letteratura. Ed io me ne restai a guardare mentre gli altri si impegolavano in una discussione in cui facevo fatica ad entrare. È difficile prendere posizione sui principi dell’estetica e dello specifico letterario quando si parla uno stentato e fintissimo itañolo.
Passarono delle ore. Alfar continuava a divertirsi, ma io cominciai ad irritarmi; tanto che decisi di interrompere la dotta conversazione e far ascoltare loro La Milonga de Jacinto Chiclana interpretata da Flaco Biondini (avevo portato il nastro con me). In cuor mio, speravo che si fossero avveduti del fatto che si cantava di qualcuno che aveva il mio stesso nome:
Me acuerdo. Fue en Balvanera,
en una noche lejana,
que alguien dejó caer el nombre
de un tal Jacinto Chiclana.
Ma il mio intimo desiderio di essere smascherato andò frustrato. Nessuno avvertì la strana coincidenza di nomi.
Sull’ultimo accordo di chitarra, aprii il secondo (o era il primo?) volume dei Merdiani e rilessi in italiano i bei versi di Borges smorzando sempre più quell’accento pseudo-argentino che ormai mi era venuto a noia:
Sempre è meglio il coraggio,
la speranza mai è vana;
Suoni, allora, questa milonga,
per Jacinto Chiclana.
Niente. Per quanto avessi ripetuto decine di volte quel nome, loro continuavano a non rendersi conto dell’inghippo. Alfar gongolava (anche perché avevo scarse possibilità di contraddire certe cazzate che stava dicendo sul senso della letteratura, il senso nella letteratura e la letteratura nel senso). Allora decisi di rompere l’incantesimo, mi riappropriai della mia parlata italiana e del mio accento periferico-napoletano e dissi di essere quello che ero e sono: gaetanovergara.from.frattamaggiore.provincia.di.napoli…italia. Ebbene, dovetti fare ricorso a tutta la mia capacità persuasiva, e mostrare persino la mia carta di identità per farmi accettare in questa nuova-vecchia veste. La finzione si era talmente sovrapposta alla realtà che risultava più verosimile e credibile della realtà stessa.
Alla fine, i più se ne andarono arrabbiati, qualcuno sorrise sotto i baffi e un paio di persone apprezzarono il gioco borgesiano di Finzioni. Ecchecavolo, Borges stesso aveva proclamato più volte di essere un impostore che prima o poi sarebbe stato smascherato, e aveva mischiato le carte della realtà inventandosi autori, citazioni, mondi ed enciclopedie. Alfar e io stavamo solo perpetrando uno obliquo omaggio al genio degli artifici e delle simulazioni.
Sono passati molti anni. Ma ancora di tanto in tanto mi torna in mente quella serata, che fa il paio con i due giorni in cui sono stato cipriota con tre ragazze di Bruxelles. I ricordi sono così, affiorano all’improvviso, con o senza ragione apparente. Questa volta so di essermene ricordato dopo aver letto un post di Arla in cui si parla del Borges que nunca existió, il Borges che non è mai esistito, e si mettono insieme falsi scoop giornalistici, equivoci, invenzioni di scrittori apocrifi citati da altri scrittori apocrifi in un gioco di specchi deformanti più reale del reale e più borgesiano del Borges che fu ed è.
(Peraltro mi viene in mente, al margine dei ricordi, che qualcuno, forse io stesso, ha affermato una volta, o forse più di una volta, che Arla non esiste, è una mia invenzione ambientata nel paese dalla luna al revés di cui ho struggente nostalgia senza esserci mai stato… E mentre mi viene in mente, dubito di tutto e di ognuno dei miei ricordi.)