Historias, versículos e textículos di casatielli, pizze chiene e pastiere; con buona pace a tutti.
In questi giorni di feste, passione, e resurrezioni mancate Altri avranno preferito dedicarsi a strisce e strisciate.
Io, per me, amo gli impasti che appaiono meno belli E mi riscaldo al caldo Di due casatielli, Dove, per miracolo, Tace ogni guerra E si riempie di profumi E di odorila terra.
Ieri, mentre il casatiello più piccolo era già pronto e l’altro ancora in forno, ho scattato le prime foto, poi, in postproduzione, le ho illuminate con una luce rossa esagerata; perché in fondo mi pare che abbia un che di pornografico tutta questa esibizione di cibo in questi giorni di pastiere, uova, colombe zuccherate e casatielli.
Questi versacci sono venuti fuori nell’attesa della cottura, dopo aver letto tante storie e reinvenzioni della tradizione sulle sette strisce che bisognerebbe mettere obbligatoriamente sulle pastiere. Non una di più, non una di meno. Ma poi nella mia mente si sono intrecciate altre stringhe, strisce e strisciate. Fuori e dentro metafora. Tutto uno gliommero di cui ho già cominciato a parlare un paio di Pasque fa su queste pagine.
Ma nel mentre si sono moltiplicate le leggende. Dalla suggestiva ipotesi che racconta che le sette strisce rappresentino gli intrecci dei decumani e dei cardini dell’antica urbanistica napoletana al racconto immaginifico dei sette doni che la sirena Partenope avrebbe ricevuto dagli indigeni napoletani quando si arenò sulla spiaggia del golfo; sette doni che corrispondono agli ingredienti di base della sacra pastiera: la farina, simbolo di ricchezza; le uova, che richiamano la fertilità; il grano cotto nel latte, emblema della fusione di regno animale e vegetale; i canditi e le spezie, a simboleggiare l’accoglienza per tutti i popoli d’Oriente ed Occidente; i fiori d’arancio, profumo della terra campana e lo zucchero, per rievocare la dolcezza del canto della sirena. La leggenda è bellissima e, in quanto leggenda, giustamente si preoccupa poco di tenere in conto che non tutti quegli ingredienti erano disponibili a Napoli nell’antichità. L’arancia, per esempio, è comparsa in Italia solo nel XV secolo, mentre la diffusione dello zucchero è posteriore all’VIII secolo.
Va be’, l’importante è condividere le nostre fotine di casatielli, tortani e pastiere ancora fumanti. Ed anche quest’anno ho fatto il mio dovere di buon cristiano, aggiungendo pure una pizza chiena realizzata in comunità: mia madre ha impastato la pasta brisée, mia figlia ha tagliato il ripieno, io ho battuto le uova e mi sono occupato della posa in opera. Con auguri di BUONA PACE a tutti.
(Fuori programma, c’era rimasta un po’ di pasta di pane e abbiamo fatto una pizza al pomodoro ampresso ampresso. La mangiamo come antipasto. Favurite!).
Dopo aver letto quattro libri di seguito dedicati all’intelligenza artificiale e a chatgpt, intervallati da un libro di poesie che non mi ha preso nemmeno di striscio (tanto da averlo abbandonato prima di arrivare all’ultimo verso), avevo bisogno di disintossicarmi un po’.
Sto leggendo “Parlesia” di Valeria Saggese, un agile saggio in forma di racconto sul gergo misterioso dei musicisti napoletani, un codice linguistico segreto usato un po’ per gioco, un po’ per spirito di identificazione di gruppo e un altro po’ per non farsi capire dai “jamme c’a bannèsia” e dai “jamme d’a tashca“, i committenti e i proprietari dei locali che, spesso e volentieri, trattavano e trattano male chi di musica vive. Insomma, quelli che fanno mille difficoltà a “spuni’ ‘e bane“, tirare fuori i soldi e pagare il dovuto. Ma, occasionalmente, la parlesia si usava anche per esprimere giudizi su ospiti indesiderati, su persone estranee alla cerchia o sull’aspetto fisico delle donne che passavano davanti agli occhi dei musicisti e dei cantanti; un modo per dire l’indicibile (tipo: chi ha sparato una loffa?, hai preso una stecca, hai la chitarra scordata, questo giornalista non capisce una mazza, hai visto quella che culo che ha?). Ma in fondo, nel libro della Saggese, la parlesia è anche un pretesto per parlare dell’ambiente musicale napoletano dai posteggiatori del 1800 a oggi. Un mondo fatto di persone marginali, splendidi artisti, professori d’orchestra, musicisti autodidatti, impresari scaltri, virtuosi dello strumento e della vita, mestieranti, canaglie e persone uniche e meravigliose.
A un quarto dalla fine del libro, ho trovato questo bel ricordo di Franco Del Prete che voglio condividere con voi; anche se, forse, appare troppo indulgente con James Senese, che, da quanto si dice in giro, non ha sempre avuto un rapporto così fluido con il batterista e autore frattese. Ma forse, con il suo caratteraccio, James Senese un rapporto fluido non lo ha mai avuto con nessuno. Manco con se stesso. E non ci sarebbe nemmeno bisogno di dire che il mio tranciante giudizio prescinde dalle sue qualità artistiche e dal suono sanguigno dei suoi sassofoni tenore e soprano. Ma veniamo al testo di Valeria Saggese dedicato ai Napoli Centrale. ____
James Senese, a differenza degli altri, è sempre stato un po’ restio a raccontarmi della parlesia perché conserva l’idea di un linguaggio segretissimo, anche se ormai è quasi completamente in disuso ed esiste già da tempo un glossario di uso pubblico. […] Se gli chiedi, invece, di Franco Del Prete, il batterista rosso dagli occhi cerulei, anche lui figlio della guerra – suo padre era un americano di origini irlandesi –* la risposta è tutt’altro che cruda e distaccata. È commossa, profonda e riverente. «Be’, certo… Franchino ha anticipato un linguaggio: è l’altra parte di me. Io e lui siamo nati insieme, ha fatto in modo che potessi dire la mia con i Napoli Centrale. Franco mi ha messo le parole in bocca. Forse senza di lui avrei fatto delle cose, ma certamente non così estreme». Un pensiero che contiene una delle più belle e intense storie d’amicizia e di musica che io conosca. Ascoltare la voce di James che parla di Franco con stima e amore sincero, fraterno, mi emoziona moltissimo. Ho voluto molto bene a Franco Del Prete, e si sente molto la sua mancanza. Batterista, poeta, ma soprattutto persona di stupefacente umana generosità. I suoi abbracci erano veri ed erano puliti, come i suoi occhi, del resto. Con poche parole, James tira fuori la storia, pagine scritte e pagine di musica che continuano a scriversi: «Questa musica o questo linguaggio è nato per un fatto naturale, nel senso che noi venivamo dagli Showmen, gruppo di successo commerciale e che all’improvviso si sciolse per colpa del cantante [Mario Musella]. Così, io e Franco Del Prete decidemmo di andare in un’altra direzione. Ci siamo lasciati alle spalle un business forte per percorrere la nuova strada dei Napoli Centrale, una musica poi diventata passe-partout per tutti i musicisti napoletani, da Pino in avanti, e che continua ancora, dopo cinquant’anni. «Noi guardavamo il passato e lo guardiamo ancora, ma per andare verso il futuro. Quelli della nuova generazione che non sanno nulla del passato, cosa possono mai raccontare?» Effettivamente è così, la storia non la si può trascurare. È partito tutto da loro, dai Napoli Centrale: una “bottega di idee”, di musica e parole che ha costruito strade verso un futuro fatto di inclusione e accoglienza. ____
Di questo brano della Saggese, mi è piaciuto, soprattutto il ricordo dell’umanità e della forte carica empatica di Franco e il riconoscimento del valore storico ed intrinseco della sua innovazione testuale. Un uomo buono, un’anima gentile, che con i sui testi ha dato una spinta fondamentale alla nascita del Napule’s Power, il movimento musicale informale che ha sdoganato il dialetto napoletano come neolingua canora, aprendo le porte al successo di Pino Daniele e di altri cantanti e musicisti di Napoli e zone collegate, come Enzo Avitabile, Tullio De Piscopo, Tony Esposito, Enzo Gragnaniello e, più recentemente, gli Alma Megretta, Daniele Sepe, i 99 Posse, gli ‘A67, La Maschera, i Foja e pure ‘stu Geolier. E ne cito una decina per farvene venire in mente 100, 1000, innumerevoli vagonate di cantanti e gruppi napoletani che oggi fanno uso di un napoletano crudo, essenziale e non oleografico, che di certo qualche tributo lo deve ai Napoli Centrale originari di Del Prete/Senese.
Alla quale!
…
* Qui a Frattamaggiore questa storia di una paternità americana di Franco suona un po’ leggendaria. Da quello che si dice in paese, suo padre era un riccastro frattese, già sposato e padre di una figlia femmina, che non volle mai riconoscerlo come suo figlio avuto fuori dal matrimonio. Ma alla fine dei conti e dei canti, questo è un fatto che nulla toglie e nulla mette al percorso artistico e umano di FDP.
Fino all’anno scorso, per arrivare ad una delle sedi della scuola in cui insegno, si percorreva una strada che aveva di fronte il Vesuvio; ora, di fronte a quella strada e accanto alla scuola, c’è un enorme colata di cemento che impedisce di vedere il Vesuvio e l’orizzonte. Dicono che diventerà un megacentro commerciale.
Solo dopo aver attraversato i cancelli della scuola si può di nuovo intravedere il vulcano e una linea interrotta dell’orizzonte.
Probabilmente tutto questo vuol dire qualcosa che non so dire in altre parole.
Fuori programma, I Vesuvi di Aitan. In sottofondo, l’intro di “Chi tene ‘o mare” di Pino Daniele. Al sax tenore, James Senese.
Ovvero il ciclo dei casi gonfiati ad arte e ad arte fatti scoppiare. Con un’appendice tutta localistica, napoletana e universale.
Si gonfiano miti come palloncini, si distribuiscono a migliaia e migliaia di utenti, si fanno milioni di selfie col palloncino in mano con l’aggiunta, qua è là, di qualche didascalia copiata dalla bacheca della porta accanto o trascritta dalla velina dettata dalla Radio di Stato; si dice che quello è il palloncino più bello che ci sia, che non ci sono pari, che nessun palloncino è mai arrivato così in alto; e lo ribadiscono anche sui giornali, nei bar, nei centri scommesse e alla tivvù che siamo di fronte a un caso ineguagliabile e superlativo; e poi, tutto d’un tratto, si allenta la presa dei fili e si fanno volare tutti i palloncini nel cielo della dimenticanza; quando non si fa proprio l’operazione di sgonfiare o far scoppiare i palloncini mentre sono ancora nel pieno della loro esistenza. In attesa o in concomitanza di un altro caso da gonfiare, sgonfiare e far “schiattare”. Infine, ci sono delle serie di palloncini che vengono fatti distruggere per vendetta, per dispetto o per contrastare un’insubordinazione all’ordine costituito o costituente ed altri ancora che vengono gonfiati talmente tanto che finiscono per “schiattare” da soli, come la rana di Fedro che aspirava a farsi grande quanto un bue.
A Napoli, in particolare, questo esercizio di gonfiaggio/sgonfiaggio ed eventuale rigonfiamento (per lo più postumo) si pratica da sempre, indipendentemente dai meriti e dai demeriti dei mitizzati, che non starò qui a discutere. Masaniello, i Borboni, Garibaldi (prima adottato e poi ripudiato), gli Scarpetta, Achille Lauro (l’originale), i De Filippo, Roberto Murolo, Roberto De Simone, i Bennato, Roberto Saviano, Gigi D’Alessio, Raiz, Peppe Lanzetta, Pappi Corsicato, Sorrenti, Sorrentino, ADL, Spalletti, Jorit e compagnia gonfiata, sgonfiata, rigonfiata e rigonfiante. Tutti prìncipi innalzati su di un trono che rasenta le nuvole e lasciati cadere ad un dato momento, più o meno inaspettato, dal punto più alto, dove fa più male; e poi qualche volta fatti risalire in attesa della prossima caduta. A pensarci bene, sono davvero pochi i palloncini che, una volta gonfiati, sono rimasti costantemente indiscussi e intramontabili. Mi galleggiano in mente Totò, Carosone, Bud Spencer, Pino Daniele, Maradona, Troisi e San Gennaro… Di loro non ricordo sgonfiamenti o cadute di rilievo (salvo qualche svista della critica o qualche critica di uno sparuto gruppo di bastian contrari a cui non piace mai il presepe).
Ai margini, in bilico tra le due categorie, i Viviani, i Caruso, le Serao, le Ortese, i Nino Taranto, i Sergio Bruni, i Maggio, le Sofia Loren, gli Scola, i Muti, gli NCCP, i Massimo Ranieri, i Napoli Centrale, i Mastelloni, i Martone, le De Sio, i Nino D’Angelo, i Gragnaniello, i Daniele Sepe, i De Crescenzo (l’uno, l’altro e l’altra pure), i 99Posse, gli Avitabile, i Servillo, i Silviorlando, i De Giovanni, gli Errideluca, gli/le Elenaferrante, i Liberato, i Salemme, i Gallo, i Clementino, i Luché, i Geolier, i Pulcinella, i MareFuori e le Colombrine. Pochissime donne, in verità. E tanti altri che avrò dimenticato o avrò scelto di non mettere in nessuna delle tre categorie di palloni, palle e palloncini perché poco o nulla gonfiati e sgonfiati. Ché non sempre il pubblico sa dove mettere bocca per cominciare a soffiare e far innalzare i palloncini.
Al margine, il trailer di questo post diffuso sui social senza gas nei palloncini:
L’accompagnamento musicale di sottofondo è un frammento de “La Tarentella, Op.100 – n.20” di Johann Friedrich Burgmüller.
Perché oggi, questa città che è una delle più antiche del mondo, di anni sembra averne tre. È come se all’improvviso avessimo lavato via i nostri avversari e i nostri problemi con il fuoco ardimentoso della nostra passione e ora stessimo vivendo uno dei nostri rari giorni da leone. Ma sì, sì, suvvia, facciamo festa e infervoriamo la gioia, la foia e i fuochi, che poi ci resta tutta la vita per fare la farina, fottere un po’ di fica e finire fottuti e inforcati a vita.
Domani, domani sarà…
Oggi, percossa, attonita La terra al nunzio sta.
E che vo’ dico a ffa’?
In appendice, in questi giorni di giubilo permettetemi un’eresia di carattere estetico. A me il blu-celeste dei colori sociali del Napoli non piace. Lo trovo scialbo, scipito. Per una squadra vincente e un popolo così passionale e pirotecnico come quello partenopeo, preferirei una tinta più decisa, più carica. Un colore abbagliante. Qualcosa tipo un “dazzling blue” o un blu elettrico, elettrizzante. Me ne sono reso conto con più forza in questi giorni di strade e balconi pieni zeppi di bandiere e decorazioni. E l’ho confermato disegnando meme e costruendo video napolicentrici. Quanto sarebbe più bello un PANTONE 18-3949 TCX, invece dell’attuale 2191 XGC. Ma forse con un 18-3949 TCX i nostri colori finirebbero per confondersi con quelli della nazionale. E allora optiamo per un Amparo Blue o un Hydrangea, ma basta con questo anonimo 2191 XGC, per favore.
Considerazioni a caldo su un pareggio sciagurato, ma non troppo.
Io non sono tifoso e ho molto rispetto per il popolo salernitano, ma, secondo me, pe’ chello che e’ succieso, Salerno s’avessa spartere da Napule e s’avessa perdere mmiezz’o mare comm’a na zattera sfunnata, e l’onne do mare l’avessera fa arriva’ ‘nterra ‘America, e i ‘mericane avessera pensa’ che e’ ‘na nava cinese e c’avessera vutta’ ‘nguolle ’na bomba atomica ca l’avessa scancella’ da acoppa ‘a faccia da terra.
In risposta ai cori razzisti che dallo stadio di Bergamo urlavano “COLERA!”
Sarebbe bello che alla partita di ritorno con l’Atalanta tutta la curva B gridasse: “COLLERA! COLLERA! COLLERA!”. E magari si mettesse in bella mostra sugli spalti pure un enorme striscione con il raddoppio della “L” di “COLERA”.
Però, s’avesse pure vencere ‘a partita. Si no ‘a collera c’ha pigliamme nuje.
P.s. Chi mi conosce sa che non mi sono mai interessato al calcio e potrebbe meravigliarsi per una così accalorata esternazione dopo una (ennesima) vittoria del Napoli. Ma la verità è che questo post l’ho scritto più per risentimento contro i cori stupidi e razzisti che per tifoseria.
Dal 31 luglio sono a Blanes, con la piccola, in Costa Brava. Nel pullman dall’aeroporto del Prat all’hotel ci sono persone di ogni provenienza, ma si sente solo parlare napoletano. La solita orda di adolescenti convinti di venire a conquistare un popolo da cui è sempre stato soggiogato. In tutta l’ora e mezza del tragitto sbraitano, bevono, urlano e cantano, e in ogni frase, muggito o mugugno appare due o tre volte la parola Napoli o suoi derivati. Due o tre volte l’autista li riprende, ma loro continuano imperterriti a bere e a disturbare. Me ne vergogno. E non è solo vergüenza ajena. Mi vergogno proprio di essere italiano e napoletano come loro. Anche Stefania esprime la stessa vergogna e lo stesso disagio. Quando arrivo a destinazione mi scuso con l’autista in loro vece. Lui si mostra comprensivo e rassegnato. Sono anni che accompagna questi flussi scostumati di ormoni a Tossa e a Lloret de Mar. Per fortuna, vanno tutti negli stessi posti in cerca di droga, figa, cazzi e discoteche. Basta evitarli. Loro e i posti che frequentano. Spero che si divertano, comunque, senza fare troppi danni a se stessi e agli altri. Per fortuna, qui sono tutti abbastanza indulgenti con questa guagliunera. Come l’autista. Ma non so dire se sia più tolleranza o convenienza.
In ogni modo, dopo questo brutto avvio, i primi giorni di vacanza in Costa Brava scorrono sereni, allegri e senza incidenti. Il mare è bello, le passeggiate mostrano scorci incantevoli, la ricezione alberghiera è impeccabile e gentile.
Alla partenza, non ho messo nessun libro in valigia. Ho deciso di comprare qui qualche romanzo da leggere in spiaggia, sul balcone o al rientro a casa.
“Blanes se parece a sus playas, en donde se tuestan cada verano todos los valientes de Europa, los de aquí y los del otro lado de los Pirineos, las gordas y los gordos, los feos, los esqueléticos, las chicas más guapas de Barcelona, los niños de todo pelaje, las viejas y los viejos, los enfermos terminales y los resacosos, todos semidesnudos, todos expuestos al sol del Mediterráneo y a la mirada comprensiva de la torre de San Juan, y el olor que se desprende de las playas (es bueno recordarlo ahora, en el largo invierno) es el olor de las cremas corporales, de los bronceadores, de las pomadas de protección solar, que huelen a eso, evidentemente, pero que también huelen a democracia, a historia, a civilización.” Roberto Bolaño, “La Selva Marítima” in El El País, Gennaio 2000.
“Blanes somiglia alle sue spiagge, dove ogni estate si mettono all’arrosto tutti gli arditi d’Europa, quelli di qui e quelli dell’altro lato dei Pirenei, le chiattone e i chiattoni, i brutti, gli scheletrici, le ragazze più belle di Barcellona, i bambini di ogni provenienza e aspetto, le vecchie e i vecchi, i malati terminali e gli sbronzi, tutti seminudi, tutti esposti al sole del Mediterraneo e allo sguardo comprensivo della torre di San Juan, e l’odore che sprigiona dalle spiagge (è bene ricordarlo ora, nel pieno dell’inverno) è l’odore delle creme corporee, degli abbronzanti, delle pomate di protezione solare, che odorano di quello che sono, evidentemente, ma che sanno anche di democrazia, di storia, di civiltà.”
La traduzione è mia. Il testo di Roberto Bolaño. Stamattina sono stato alla libreria Sant Jordi. La libreria che lo scrittore sudamericano frequentò negli ultimi anni della sua vita. Dal 1985 al 2003, Bolaño si stabilì qui a Blanes con la moglie e i due figli. Prima che gli arrivasse il successo che meritava aprì anche un negozietto di bigiotteria.
In una guida che gli ha dedicato l’ufficio turistico cittadino leggo che voleva essere ricordato “come uno scrittore surdamericano più o meno decente, che visse a Blanes, e che amò questo paesino” di 30.000 abitanti fondato dai romani duemila anni fa e poi frequentato da persone di ogni tipo e colore.
Nella libreria c’è ancora Pilar Pagespetit i Martori, con cui lui si intratteneva a parlare mentre vagava tra i libri. O almeno, dalla veneranda età che dimostra nel suo fisico minuto e curato, a me piace immaginare che sia lei. Le chiedo se hanno disponibile qualche testo di Ernesto Cardenal, poi mi metto a curiosare tra i libri ammucchiati in colonne in ogni angolo della stanza. Per un momento credo di aver osato identificarmi con R.B. Dopo una lunga ricerca scelgo un testo di recente pubblicazione di Lucía Lijtmaer, scrittrice quarantenne nata in Argentina e cresciuta a Barcellona. Avevo sentito parlare del suo acume sia come romanziera che come critica letteraria e specialista di studi culturali.
Nelle prime pagine la voce narrante immagina un suicidio e vagheggia un’inondazione di Barcellona provocata dal cambio climatico e dallo scioglimento dei ghiacciai polari. È una descrizione potente e delirante.
A un certo punto mi rivedo in queste parole che mi riportano sul bus dell’arrivo a Blanes.
” […] primero morirán los pobres, los taxistas paquistanís del Raval, las chicas filipinas de la panadería de la calle Sant Vicenç, la señora Quimeta y su mercería, los guiris de la Barceloneta, todos, absolutamente todos, los holandeses, los franceses, los ingleses y los italianos -nadie echará de menos a los italianos-.” Lucía Lijtmaer, “Cauterio“, 2022
Traduco, non senza essere di nuovo assalito dalle fiamme della vergogna.
” […] prima moriranno i poveri, i tassisti pachistani del Raval, le ragazze filippine della panetteria di calle Sant Vicenç, la signora Quimeta la sua merceria, i turisti della spiaggia di Barceloneta, tutti, assolutamente tutti, gli olandesi, i francesi, gli inglesi e gli italiani – nessuno sentirà la mancanza degli italiani.”
Napoli è un paradiso che puzza di zolfo, fumi, fiamme e sangue liquefatto.
Napoli è un basso (1) nettato, ripulito, lindo e pinto. A Napule ‘a munnezza se votta ‘a fora e ‘o pulito resta adinto. (2)
Napoli è terra di conquista. ‘A piazza, ‘e palazze, ‘o mare e pure l’aria ca se rispira mmiezz’a via so robba d’o rre e nun so’ cosa mia.
Napoli è desiderio di autodistruzione. Napoli è chiasso e involuzione.
Napoli è l’odore del mare e delle sfogliatelle. Napoli è la terra dell’ammore e delle femmine belle.
Napule se crede sfaccimma, (3) ma e’ cchiù fessa ca bbona. Napule canta, balla e stona.
Napoli è una carcassa circondata da sciacalli ed avvoltoi che si ripetono e si moltiplicano dentro e fuori di noi.
Napoli è una pernacchia e un rutto che risuonano dalle viscere del Vesuvio.
Napule è ‘nu vico addo’ (4) nun vatte ‘o sole, ma tu ‘o saje che isse sta là fora e se fa mille stelle ‘mmiezz’o mare.
Napoli è tutto il bene e tutto il male del mondo.
Napule è ‘na luce ca s’appiccia e se stuta. (5) ‘O sanghe ‘e Napule se mozzeca, (6) ma nun se sputa.
Napule sirena, Napule rigina, Napule priezza (7) che luce ‘mmiezz’o mare.
Napule pezza sporca Napule fetenzia, Napule munnezza ‘nfracetata int’a lota. (8)
Napule ca s’arrevota. (9)
Napule se chieja (10) ma nun se spezza.
Napule tremma, ma nun cade.
Napule se trammea, (11) ma s’aiza (12) n’ata vota.
(‘Napule è ‘na sirena crisciute int’a munnezza e mmiezz’a lota.)
Napule se trascina, s’accascia e se more. Ma po’ torna a nascere e s’arrevota n’ata vota.
Napoli non immagina cosa potrebbe essere e nemmeno sa cos’è.
…
Ma questo, amici miei, di certo non è tutto, perché tutto non si può dire e nisciuno ‘o po’ sape’.
…
Nap less Nap more Napulammore
…
12 note linguistiche per non napoletano-parlanti
(1) basso, s.m.: in napoletano “vascio“, è una piccola abitazione di uno o due vani, con accesso diretto sulla strada; tipica dei quartieri più popolari della città.
(2) adinto, avv.: dentro.
(3) sfaccimma, agg.: in questo contesto vuol dire sveglia, furba, scaltra; ma il termine, talvolta scritto e pronunciato anche con la P invece che con la F nella prima sillaba, indica anche lo sperma e viene usato anche come esclamazione: “Che sfaccimma!” (Che caspita!) o in modo denigratorio “‘A sfaccimma d’a gente” (La schifezza della gente”), “Omme ‘e sfaccimma” (Uomo di merda).