Perché oggi, questa città che è una delle più antiche del mondo, di anni sembra averne tre. È come se all’improvviso avessimo lavato via i nostri avversari e i nostri problemi con il fuoco ardimentoso della nostra passione e ora stessimo vivendo uno dei nostri rari giorni da leone. Ma sì, sì, suvvia, facciamo festa e infervoriamo la gioia, la foia e i fuochi, che poi ci resta tutta la vita per fare la farina, fottere un po’ di fica e finire fottuti e inforcati a vita.
Domani, domani sarà…
Oggi, percossa, attonita La terra al nunzio sta.
E che vo’ dico a ffa’?
In appendice, in questi giorni di giubilo permettetemi un’eresia di carattere estetico. A me il blu-celeste dei colori sociali del Napoli non piace. Lo trovo scialbo, scipito. Per una squadra vincente e un popolo così passionale e pirotecnico come quello partenopeo, preferirei una tinta più decisa, più carica. Un colore abbagliante. Qualcosa tipo un “dazzling blue” o un blu elettrico, elettrizzante. Me ne sono reso conto con più forza in questi giorni di strade e balconi pieni zeppi di bandiere e decorazioni. E l’ho confermato disegnando meme e costruendo video napolicentrici. Quanto sarebbe più bello un PANTONE 18-3949 TCX, invece dell’attuale 2191 XGC. Ma forse con un 18-3949 TCX i nostri colori finirebbero per confondersi con quelli della nazionale. E allora optiamo per un Amparo Blue o un Hydrangea, ma basta con questo anonimo 2191 XGC, per favore.
Considerazioni a caldo su un pareggio sciagurato, ma non troppo.
Io non sono tifoso e ho molto rispetto per il popolo salernitano, ma, secondo me, pe’ chello che e’ succieso, Salerno s’avessa spartere da Napule e s’avessa perdere mmiezz’o mare comm’a na zattera sfunnata, e l’onne do mare l’avessera fa arriva’ ‘nterra ‘America, e i ‘mericane avessera pensa’ che e’ ‘na nava cinese e c’avessera vutta’ ‘nguolle ’na bomba atomica ca l’avessa scancella’ da acoppa ‘a faccia da terra.
In risposta ai cori razzisti che dallo stadio di Bergamo urlavano “COLERA!”
Atalanta – Napoli 1-2
Sarebbe bello che alla partita di ritorno con l’Atalanta tutta la curva B gridasse: “COLLERA! COLLERA! COLLERA!”. E magari si mettesse in bella mostra sugli spalti pure un enorme striscione con il raddoppio della “L” di “COLERA”.
Però, s’avesse pure vencere ‘a partita. Si no ‘a collera c’ha pigliamme nuje.
P.s. Chi mi conosce sa che non mi sono mai interessato al calcio e potrebbe meravigliarsi per una così accalorata esternazione dopo una (ennesima) vittoria del Napoli. Ma la verità è che questo post l’ho scritto più per risentimento contro i cori stupidi e razzisti che per tifoseria.
Dal 31 luglio sono a Blanes, con la piccola, in Costa Brava. Nel pullman dall’aeroporto del Prat all’hotel ci sono persone di ogni provenienza, ma si sente solo parlare napoletano. La solita orda di adolescenti convinti di venire a conquistare un popolo da cui è sempre stato soggiogato. In tutta l’ora e mezza del tragitto sbraitano, bevono, urlano e cantano, e in ogni frase, muggito o mugugno appare due o tre volte la parola Napoli o suoi derivati. Due o tre volte l’autista li riprende, ma loro continuano imperterriti a bere e a disturbare. Me ne vergogno. E non è solo vergüenza ajena. Mi vergogno proprio di essere italiano e napoletano come loro. Anche Stefania esprime la stessa vergogna e lo stesso disagio. Quando arrivo a destinazione mi scuso con l’autista in loro vece. Lui si mostra comprensivo e rassegnato. Sono anni che accompagna questi flussi scostumati di ormoni a Tossa e a Lloret de Mar. Per fortuna, vanno tutti negli stessi posti in cerca di droga, figa, cazzi e discoteche. Basta evitarli. Loro e i posti che frequentano. Spero che si divertano, comunque, senza fare troppi danni a se stessi e agli altri. Per fortuna, qui sono tutti abbastanza indulgenti con questa guagliunera. Come l’autista. Ma non so dire se sia più tolleranza o convenienza.
In ogni modo, dopo questo brutto avvio, i primi giorni di vacanza in Costa Brava scorrono sereni, allegri e senza incidenti. Il mare è bello, le passeggiate mostrano scorci incantevoli, la ricezione alberghiera è impeccabile e gentile.
Blanes
Alla partenza, non ho messo nessun libro in valigia. Ho deciso di comprare qui qualche romanzo da leggere in spiaggia, sul balcone o al rientro a casa.
“Blanes se parece a sus playas, en donde se tuestan cada verano todos los valientes de Europa, los de aquí y los del otro lado de los Pirineos, las gordas y los gordos, los feos, los esqueléticos, las chicas más guapas de Barcelona, los niños de todo pelaje, las viejas y los viejos, los enfermos terminales y los resacosos, todos semidesnudos, todos expuestos al sol del Mediterráneo y a la mirada comprensiva de la torre de San Juan, y el olor que se desprende de las playas (es bueno recordarlo ahora, en el largo invierno) es el olor de las cremas corporales, de los bronceadores, de las pomadas de protección solar, que huelen a eso, evidentemente, pero que también huelen a democracia, a historia, a civilización.” Roberto Bolaño, “La Selva Marítima” in El El País, Gennaio 2000.
“Blanes somiglia alle sue spiagge, dove ogni estate si mettono all’arrosto tutti gli arditi d’Europa, quelli di qui e quelli dell’altro lato dei Pirenei, le chiattone e i chiattoni, i brutti, gli scheletrici, le ragazze più belle di Barcellona, i bambini di ogni provenienza e aspetto, le vecchie e i vecchi, i malati terminali e gli sbronzi, tutti seminudi, tutti esposti al sole del Mediterraneo e allo sguardo comprensivo della torre di San Juan, e l’odore che sprigiona dalle spiagge (è bene ricordarlo ora, nel pieno dell’inverno) è l’odore delle creme corporee, degli abbronzanti, delle pomate di protezione solare, che odorano di quello che sono, evidentemente, ma che sanno anche di democrazia, di storia, di civiltà.”
La traduzione è mia. Il testo di Roberto Bolaño. Stamattina sono stato alla libreria Sant Jordi. La libreria che lo scrittore sudamericano frequentò negli ultimi anni della sua vita. Dal 1985 al 2003, Bolaño si stabilì qui a Blanes con la moglie e i due figli. Prima che gli arrivasse il successo che meritava aprì anche un negozietto di bigiotteria.
In sottofondo due frammenti di “Blind” dei Talking Heads (1988)
In una guida che gli ha dedicato l’ufficio turistico cittadino leggo che voleva essere ricordato “come uno scrittore surdamericano più o meno decente, che visse a Blanes, e che amò questo paesino” di 30.000 abitanti fondato dai romani duemila anni fa e poi frequentato da persone di ogni tipo e colore.
Blanes, vista dal Jardín Botánico MarimurtraApparizioni a Blanes
Nella libreria c’è ancora Pilar Pagespetit i Martori, con cui lui si intratteneva a parlare mentre vagava tra i libri. O almeno, dalla veneranda età che dimostra nel suo fisico minuto e curato, a me piace immaginare che sia lei. Le chiedo se hanno disponibile qualche testo di Ernesto Cardenal, poi mi metto a curiosare tra i libri ammucchiati in colonne in ogni angolo della stanza. Per un momento credo di aver osato identificarmi con R.B. Dopo una lunga ricerca scelgo un testo di recente pubblicazione di Lucía Lijtmaer, scrittrice quarantenne nata in Argentina e cresciuta a Barcellona. Avevo sentito parlare del suo acume sia come romanziera che come critica letteraria e specialista di studi culturali.
Nelle prime pagine la voce narrante immagina un suicidio e vagheggia un’inondazione di Barcellona provocata dal cambio climatico e dallo scioglimento dei ghiacciai polari. È una descrizione potente e delirante.
A un certo punto mi rivedo in queste parole che mi riportano sul bus dell’arrivo a Blanes.
” […] primero morirán los pobres, los taxistas paquistanís del Raval, las chicas filipinas de la panadería de la calle Sant Vicenç, la señora Quimeta y su mercería, los guiris de la Barceloneta, todos, absolutamente todos, los holandeses, los franceses, los ingleses y los italianos -nadie echará de menos a los italianos-.” Lucía Lijtmaer, “Cauterio“, 2022
Traduco, non senza essere di nuovo assalito dalle fiamme della vergogna.
” […] prima moriranno i poveri, i tassisti pachistani del Raval, le ragazze filippine della panetteria di calle Sant Vicenç, la signora Quimeta la sua merceria, i turisti della spiaggia di Barceloneta, tutti, assolutamente tutti, gli olandesi, i francesi, gli inglesi e gli italiani – nessuno sentirà la mancanza degli italiani.”
Napoli è un paradiso che puzza di zolfo, fumi, fiamme e sangue liquefatto.
Napoli è un basso (1) nettato, ripulito, lindo e pinto. A Napule ‘a munnezza se votta ‘a fora e ‘o pulito resta adinto. (2)
Napoli è terra di conquista. ‘A piazza, ‘e palazze, ‘o mare e pure l’aria ca se rispira mmiezz’a via so robba d’o rre e nun so’ cosa mia.
Napoli è desiderio di autodistruzione. Napoli è chiasso e involuzione.
Napoli è l’odore del mare e delle sfogliatelle. Napoli è la terra dell’ammore e delle femmine belle.
Napule se crede sfaccimma, (3) ma e’ cchiù fessa ca bbona. Napule canta, balla e stona.
Napoli è una carcassa circondata da sciacalli ed avvoltoi che si ripetono e si moltiplicano dentro e fuori di noi.
Napoli è una pernacchia e un rutto che risuonano dalle viscere del Vesuvio.
Napule è ‘nu vico addo’ (4) nun vatte ‘o sole, ma tu ‘o saje che isse sta là fora e se fa mille stelle ‘mmiezz’o mare.
Napoli è tutto il bene e tutto il male del mondo.
Napule è ‘na luce ca s’appiccia e se stuta. (5) ‘O sanghe ‘e Napule se mozzeca, (6) ma nun se sputa.
Napule sirena, Napule rigina, Napule priezza (7) che luce ‘mmiezz’o mare.
Napule pezza sporca Napule fetenzia, Napule munnezza ‘nfracetata int’a lota. (8)
Napule ca s’arrevota. (9)
Napule se chieja (10) ma nun se spezza.
Napule tremma, ma nun cade.
Napule se trammea, (11) ma s’aiza (12) n’ata vota.
(‘Napule è ‘na sirena crisciute int’a munnezza e mmiezz’a lota.)
Napule se trascina, s’accascia e se more. Ma po’ torna a nascere e s’arrevota n’ata vota.
Napoli non immagina cosa potrebbe essere e nemmeno sa cos’è.
…
Ma questo, amici miei, di certo non è tutto, perché tutto non si può dire e nisciuno ‘o po’ sape’.
…
Nap less Nap more Napulammore
…
Video originale realizzato con mie vecchie foto con e senza Vesuvio. Nella colonna sonora un frammento della voce di Fausta Vetere che canta “Ricciulina” (dall’album della Nuova Compagnia di Canto Popolare “Li sarracini adorano lu sole“, 1974).
12 note linguistiche per non napoletano-parlanti
(1) basso, s.m.: in napoletano “vascio“, è una piccola abitazione di uno o due vani, con accesso diretto sulla strada; tipica dei quartieri più popolari della città.
(2) adinto, avv.: dentro.
(3) sfaccimma, agg.: in questo contesto vuol dire sveglia, furba, scaltra; ma il termine, talvolta scritto e pronunciato anche con la P invece che con la F nella prima sillaba, indica anche lo sperma e viene usato anche come esclamazione: “Che sfaccimma!” (Che caspita!) o in modo denigratorio “‘A sfaccimma d’a gente” (La schifezza della gente”), “Omme ‘e sfaccimma” (Uomo di merda).
Presentazione del libro “I racconti di Partenope” e del mio soffritto scostumato.
Oggi pomeriggio si è tenuta la presentazione del libro di ricette e narrazioni “I racconti di Partenope“. Un libro collettivo che raccoglie i contributi di 50 eterogenei autori (me included) sotto la curatela di Donatella Schisa. Molto bella la Sala del Capitolo del complesso monumentale di San Domenico Maggiore in cui si è svolta la presentazione.
Oltre a Donatella, hanno presentato il libro l’ex assessore alla cultura Nino Daniele e il prof. Stefano Causa, docente di Storia dell’arte contemporanea al Suor Orsola Benincasa. Durante l’incontro, a titolo esemplificativo, sono stati letti tre dei 50 racconti, senza, però, il condimento delle ricette che li accompagnano: – Una gustosa apologia della cipolla di MassimoMaraviglia, ricca di riferimenti colti, scientifici e popolari (anche se io ho sentito la mancanza dell’Oda a la Cebolla di Neruda). – Una drammatica rievocazione dei disastri e dei disagi provocati dalla seconda guerra, blanditi da un polpo alla luciana (letto, per l’occasione, dal giornalista Luciano Scateni che è anche l’autore di questo drammatico racconto a sfondo autobiografico). – Una serratissima narrazione di ArturoMaremonti, suggellata da un finale a pasta e patate con la provola che fa dimenticare un morto che si chiama Pier Paolo e che viene trovato con il corpo schiacciato dalle ruote di un’auto (come Pasolini; ma non è Pasolini, anche se ricorda maledettamente Pasolini).
Tra una lettura e l’altra Nino Daniele ha sottolineato come un libro del genere funzioni anche come documento storico individuale e collettivo di una comunità che rischia di perdere le sue ricette e la sua memoria; mentre il prof. Causa, dopo aver illustrato lo stupendo affresco di Ragolia che era alle sue spalle, ha mosso qualche critica alla foto scelta come copertina del libro.
Non brutta né bella in verità, ma piuttosto banale anche per i miei personalissimi gusti. Più adatta a un tradizionale libro di cucina che a un libro che vuole essere di narrative e ricette. Insomma, credo che il prof abbia avuto le sue ragioni a sostenere che ci sarebbe stata meglio una natura morta, un bodegón, magari uno di quelli che affastellano saporiti piatti come nella pagina del Pentamerone di Basile che ha opportunamente citato. Quella del trattato settimo che racconta di come Cienzo, costretto alla fuga da Napoli per aver preso a sassate il figlio del re, vede il panorama della città da lontano come un insieme di gustosi piatti, una natura morta, appunto, e dà l’addio a “pastinache e foglie molli; zéppole e migliacci; cavoli e tarantello; caionze e centofigliuole; piccatigli e ingrantinati.” La classica pantagruelica figura retorica dell’enumeratio, che funziona sempre quando si parla di cose di cucina, soprattutto se condite dalla fame.
Ora ho tra le mani il libro, con i suoi racconti di pizze e casatielli, primi piatti, secondi, contorno, dolci, limoncello e caffè. Questi ultimi offerti da Monna Pina Vergara e Gianni Solla. Dopo ogni narrazione, c’è la relativa ricetta raccontata dallo stesso autore del racconto che la precede. In questo modo, come ha sottolineato Donatella, il libro si può usare come vademecum in cucina e gustare a letto come intrattenimento letterario.
Aggiungo, per i miei amici e conoscenti, che a me è toccata la ricetta del soffritto napoletano, che ho accompagnato con una narrazione in versi (l’unica della raccolta, credo). Versi scostumati che sono una rielaborazione di una mia vecchia poesiaccia che potete leggere qui e che pure si basa sulla figura dell’enumeratio, l’elenco famelico e bulimico di piatti e pietanze.
Secondo una antichissima tradizione napoletana, nel periodo delle festività pasquali, chiunque faccia una pastiera deve fotografarla e diffonderla sui social in sprezzo alla miseria, in spregio di ogni guerra e in sfregio alle critiche dei passanti (che normalmente sono inaciditi dall’impossibilità di assaggiare quello che vedono).
Queste sono le quattro pastiere realizzate a sei mani stamattina da nonna Carmelina, da Stefania e da me. Le dimensioni delle quattro opere sono 27, 27, 30 e 34 centimetri di diametro cada una.
Verranno inaugurate la prossima domenica. Seguirà una performance (che per certi versi assumerà le caratteristiche di un rito collettivo) della durata di 5 o 6 giorni. Alla fine della performance resterà solo questa traccia documentale delle opere realizzate.
. . . . . .
Secondo una leggenda inventata di recente, le strisce di pasta frolla dovrebbero essere sette, in quanto ricalcherebbero la planimetria dell’antica città greca di Neapolis (con tre Decumani e quattro Cardini che si intersecano ortogonalmente). Ma qui preferiamo intrecciarle in numero pari (6 o 8) perché ci sembra più bello così e perché non vogliamo alimentare queste bufale da quattro soldi. Qui siamo per le tradizioni vere. Non per questi classici casi di “making of tradition” che ingannano la gente e limitano la creatività dei cucinieri.
Comunque, scherzi a parte, l’importante è saper dosare bene gli ingredienti che, più o meno, sono 7, come le nove muse, i dieci comandamenti e i dodici apostoli, i quali, è risaputo, dopo il suicidio di Giuda Iscariota diventarono undici, e a cena, a tavola, mai più tredici, per l’amor di Dio e del figlio che s’è incarnato e s’è fatto uomoe fu crocifisso sotto Ponzio Pilato e resuscitò, secondo le scritture.
Ho appena concluso la lettura del romanzo breve di Aniceto Fiorillo “Solo per loro“, pubblicato lo scorso anno per la collana Intrecci del marchio editoriale Dialoghi. Il libro è un moderno Bildungsroman, un romanzo di formazione che narra la vita sentimentale e lavorativa di Antonio, giovane della periferia napoletana che, dopo essere stato licenziato da una fabbrica in cui è stato prima apprendista e poi manutentore, si arruola nell’esercito e vive la crudeltà della guerra dei Balcani. Al rientro si trova coinvolto nei traffici di una Napoli criminale e tossica, “una città in perenne tensione” da cui decide nuovamente di scappare. Il fil rouge che lega le tre parti del romanzo è la costruzione della personalità di Antonio e la sua storia d’amore con Matilde (di cui preferisco non dire nulla per non rischiare di anticipare troppo). Un cammino verso una disincantata consapevolezza. Come nei romanzi picareschi del siglo de oro.
La lettura è scorrevole e piacevole ed è bello anche il fatto che il ritmo delle tre sezioni (scandite da tre opportune citazioni classiche) sia molto mutevole. Dal tono più disteso del lavoro in fabbrica, a quello tragico e riflessivo della guerra in Kosovo e poi a quello frenetico e violento del rientro in una Napoli gomorristica. Dappertutto affiora una vena di ironia e un tono moralistico di denuncia sociale verso le bassezze umane, inquadrate sotto forma di problemi cocenti e contemporanei, come la spietatezza della globalizzazione, la mancanza di mobilità sociale, la scarsezza di prospettive per i giovani del Sud Italia, i disastri della guerra chimica, la ricerca di denaro facile e la mancanza di qualsiasi scrupolo per raggiungerlo.
Leggendo viene da chiedersi quanto ci sia di esperienza di vita vissuta, quanto di vita reale ascoltata da terzi e quanto di vita letta in romanzi, saggi e fumetti o vista in film e serie TV. L’impressione è che Aniceto, nei suoi 40 anni di vita, abbia “fatto cose e visto gente…”. Ma in fondo questo importa poco. L’importante è quello che resta su pagina. E vi garantisco che non è poco. Memorabili le parti conclusive della seconda parte dedicate alla guerra in Kosovo e l’episodio dell’elefante indiano fatto venire dal capoclan nel quartiere dei Miracoli.
A margine, mi chiedo perché alcuni toponimi, marchi di fabbrica e nomi propri siano realistici (Napoli, Giugliano, Secondigliano, Castel Volturno, Piazza del Gesù, Via Tribunali, Sanyo…) ed altri inventati, ma modellati su evidenti nomi di località, marche e marchi realmente esistenti (Largo Ameno, Via dei Regibus, “Sasalese”, Riemens, Texa, Fuji, Genstar, 27 Gran…).
Concludo con un paio appunti stilistici. L’abuso del dimostrativo “tale” e l’introduzione di qualche parola e qualche spiegazione di troppo in singole frasi che, a mio modo di sentire, avrebbero funzionato meglio se espresse con più asciuttezza. Questo fin dall’incipit del romanzo:
“Nel cielo azzurro si muovevano sinuosamente banchi di nuvole e l’aria sui nostri visi era tiepida, aveva il sapore della primavera.”
Io avrei scritto: “Nel cielo azzurro si muovevano le nuvole e l’aria sui nostri visi era tiepida, aveva il sapore della primavera.” (p.7)
O perfino: “Nel cielo azzurro si muovevano le nuvole e l’aria aveva il sapore della primavera.”
Qualche ulteriore esempio in cui metto in parentesi quadra le parti che trovo superflue:
“Mia madre aveva portato i piatti a tavola e ci stavamo sedendo, la tv [trasmetteva televendite con le quali] invitava a comprare materassi ortopedici.” (p.9) “Il vialone era immerso in una fitta vegetazione, mi sembrava di essere in una foresta equatoriale di un [qualsiasi] Paese sudamericano.”(p.18) “Avevamo frequentato insieme le scuole elementari e [di seguito] le medie.” (p.19) “il mio amico continuava a creare con il motorino dei cerchi concentrici [,] perfetti [dal punto di vista della forma geometrica]” (p.21) “In fabbrica, ognuno di noi aveva un soprannome [in base alle caratteristiche fisiche o comportamentali].” (p.24) “All’interno diversi clienti, alcuni stranieri, erano rimasti allibiti [nell’assistere a tale rappresentazione].” (p.104)
Chiaramente queste sono questioni di gusto che hanno tutti i vizi della soggettività. Personalmente, preferisco una narrazione ellittica che offra maggiore spazio al lavoro di ri-creazione del lettore. Mi sento quasi offeso quando mi si dice troppo.
Da questo punto di vista, il finale del romanzo mi pare perfetto. Ma non ve lo racconto. Vi consiglio di leggerlo e di scoprirlo da soli.
Ad Aniceto, invece, nel fare i miei complimenti, consiglio un più attento lavoro di editing per le sue prossime pubblicazioni.
…
Il romanzo sarà presentato online il 28 gennaio nell’ambito di un convegno sulla “realtà giovanile tra occupazione, disoccupazione, inoccupazione ed inerzia“.
Su YouTube, la lettura interpretata di uno stralcio del libro realizzata da MonnaPina Vergara con l’accompagnamento musicale del prof. Pasquale Vergara (portano entrambi il mio stesso cognome, li conosco bene, ma non ci legano rapporti conosciuti di parentela). L’episodio interpretato nel video è quellodell’elefante: la delirante storia di un pachiderma portato nei quartieri di Napoli per distruggere il locale di un pizzaiolo che aveva fatto uno sgarro al capoclan Marciano. Una storia tragicomica e grottesca che è un po’ un episodio a parte nel romanzo.
Tanti auguri a tutti coloro che portano il nome di San Gennaro, santo plurimartoriato come la città con cui si identifica.
La tradizione agiografica narra che, prima della decapitazione, lo trucidarono e tentarono di farlo fuori in ogni modo: gli torsero il corpo, lo gettarono nella fossa dei leoni e lo rinchiusero in una fornace come in un Lager ante litteram… Ma isso se n’asceva da dint’o fuoco, come possiamo vedere nella sublime scena rappresentata in questo dipinto dello Spagnoletto (nome d’arte di José de Ribera detto Jusepe, il più napoletano dei pittori spagnoli, vissuto in Italia dal 1611 al 1652).
Il quadro, conservato nel Duomo di Napoli (e dove, se no?), rappresenta proprio il miracoloso momento in cui il Vescovo Gennaro esce illeso dalle caverne ardenti di Pozzuoli tra lo stupore e la paura degli astanti. I soldati e i lazzari lo guardano a bocca aperta mentre lui volge il suo sguardo ai putti che svolazzano confusamente in cielo. Un capolavoro nel capolavoro, la faccia incredula e sconvolta dello scugnizzo vestito di rosso alla nostra destra. Il futuro patrono di Napoli è scalzo e impedito nei movimenti dalle corde, ma conserva i suoi fastosi abiti episcopali e cammina tra la folla e le lance dei soldati come se il fatto non fosse suo. Una metafora di questa terra fulgida, degradata e distratta che tira avanti tra vessazioni e sconfitte.
E vabbè. Tanti auguri. E tu, San Genna’, nun te scurda’ ‘i chesta città. Mittece a mana toja e facce asci’ pure a nuje da dint’o fuoco.
P.s.futile e infuocato
Qui a Napoli e zone collegate abbiamo con il fuoco un rapporto inscindibile e contraddittorio. Viviamo con l’inferno sotto ai piedi pronto a venire fuori dalla bocca del vulcano o dalle viscere della terra. I campi ardenti della zona flegrea, la lava del Vesuvio, la porta degli Inferi nel Lago d’Averno, la terra ribollente della Solfatara, la liquefazione del sangue del santo, il santo che ferma l’eruzione con la mano e poi, nel presente, i roghi tossici e i fuochi d’artificio costantemente rimbombanti nell’aria. Come se stessimo mettendo in scena una rituale evocazione delle catastrofi che ci aspettiamo da un’imminente eruzione del Vesuvio o dall’apertura della porta dell’inferno. Come se volessimo farci noi stessi vulcano e perpetrare un lento, quotidiano suicidio di massa, un diffuso cupio dissolvi, un desiderio di autodistruggerci e scomparire tra il fuoco, i fumi e le fiamme.
“Sette opere di misericordia” è un romanzo, un romanzone, che dovete assolutamente leggere. Quattrocendoquindici pagine che rappresentano, attraverso le vicende e i ricordi di una decina di giorni nella casa e nella vita della famiglia Imparato, tutto un mondo che rimarrà per sempre impresso nella vostre memoria diventando una parte della vostra stessa vita.
La scrittura densa, sapiente e urticante di Piera Ventre la conoscevo già dai tempi della blogosfera, quando ci leggevamo reciprocamente rimbalzando con leggerezza e profondità da una pagina all’altra e poi creavamo occasioni per incontrarci anche nella vita extravirtuale.
Ma quello che mi ha meravigliato di quest’opera è l’impalcatura, la densità della storia, la costruzione architettonica dei fatti che ci mette di fronte a un intreccio di vite scandito dalle sette opere di misericordia del capolavoro sghembo di Caravaggio, in una Napoli dolente, traballante e precaria e in un’Italia attaccata al televisore, trepidante di speranza e poi sconvolta dalla morte di Alfredino, il bambino ingoiato dal pozzo.
Il romanzo si apre e si chiude con l’episodio di Vermicino (visto prima con gli occhi di un bambino e poi attraverso lo sguardo attonito di tutto il Paese). Chi ha più di 50 anni non può dimenticarlo.
“È stata una storia come quella del primo sbarco sulla Luna: il trionfo della tecnologia allora; la sua tragica sconfitta ora, davanti al pozzo di Vermicino. Si può andare sulla Luna, ma non si può salvare un bambino caduto in un pozzo. Ne veniva un senso di angosciosa impotenza, di disperazione”. Queste le parole di Leonardo Sciascia, pubblicate a caldo sul settimanale “Epoca” il 27 giugno del 1981 e riportate anche nella “note e ringraziamenti” del romanzo di Piera Ventre.
Dal primo al 12 giugno del 1981, andando avanti e indietro nel tempo e seguendo i fatti da diversi punti di vista, partecipiamo alle ansie, ai desideri e alle disgrazie di questa famiglia napoletana trasferita da Materdei ad un’abitazione nel Cimitero di Poggioreale, dove il padre, Cristoforo, fa il custode. Cristoforo è un “loser”, un perdente nato, un uomo che resta privo troppo presto del padre, degli occhi, del lavoro, degli affetti… Ma perdenti in quella casa del cimitero e nella Napoli precaria e pericolante di questo romanzo lo sono un po’ tutti: Luisa, la moglie di Cristoforo; i loro figli Rita e Nicola; la seducente Rosaria, compagna di classe di Rita e ospite della famiglia Imparato; il professore Guerrini che si trasferisce dagli agi di Pisa ai disagi di una Napoli terremotata e desolata; il vecchio Erminio Longobardi e il giovane Armando, innamorato di Rosaria… E altrettanto desolata e incerta appare la vita degli animali, veri e immaginari, che popolano le loro vite: il gatto Moschillo curato amorevolmente da Cristoforo e da suo figlio tra le mura del cimitero; il cardillo canterino che Luisa si porta anche al cesso e Laika, il cane di pezza, unico vero confidente di Nicola. Su tutti – uomini e animali – Piera Ventre punta il suo telescopio e, seguendo il suo sguardo, ci spostiamo dal cimitero, ai vicoli di Napoli, alla lontanissima Pisa altoborghese, su su fino alla luna…
I fatti sono intervallati da vari flashback e ricordi, puntellati anche dalle pagine del diario del piccolo Nicola (Agosto 1980, arrivo del prof. Lorenzo Guerrini a Napoli; 5 giugno del ‘43, perdita dell’occhio di Cristoforo; novembre dell’80, terremoto; gennaio dell’81, primo incontro all’hotel Eden alla Ferrovia; e poi, ancora, l’arrivo nella casa del cimitero di Nino, il figlio del compare in procinto di emigrare in Germania; i tempi felici in cui gli Imparato vivevano a Materdei; l’arrivo in casa del cardillo…).
Di più della trama non dico per non togliervi lo sfizio di scoprire da soli i fatti ordinari e sconvolgenti di casa Imparato e del piccolo mondo che gravita intorno alle loro vite.
Aggiungo solo qualche considerazione.
Come avrete già percepito, le vite dei personaggi di questo romanzo sono pervase da una diffusa e sommessa disperazione.
Anche Rosaria – che sembra essere la figura più salda del romanzo, portatrice di una vitalità e di una carnalità che dà scompiglio – non fa che affrontare una catena di delusioni e frustrazioni. La sua stordente bellezza le dà “la sensazione di poter girare le cose” come vuole lei, ma “in realtà, erano le cose che facevano girare lei”.
In fondo, alla bella Rosaria, capita un po’ quello che capita a Napoli e ai napoletani, da sempre oggetto di desiderio e di repulsione. Qui, chi viene da fuori, viene come in una missione, in bilico tra l’ansia di espiazione e il desiderio di redimere e redimersi, ma resta irretito. Invece, chi a Napoli ci vive da sempre è scosso da continue voglie di andarsene e farsi una vita altrove.
La Napoli degli anni ‘80 che fa da sfondo al romanzo è una città puntellata da ponteggi di tubi Innocenti e impregnata da una fame atavica e insanabile. Una città immobile. Un’appendice di quel cimitero in cui la famiglia Imparato trascina la sua esistenza vedendo con un occhio solo la miseria in cerca di misericordia che li circonda. Una città cadente e decaduta in cui l’unica salvezza sembra essere la fuga.
In ognuna delle sette parti del romanzo (1. Dar da mangiare agli affamati; 2. Dare da bere agli assetati; 3. Vestire gli ignudi; 4. Ospitare i pellegrini; 5. Curare gli infermi; 6. Visitare i carcerati; 7. Seppellire i morti) sembra risuonare il severo “Jatevenne!” di Eduardo. Ma non si riesce a fare a meno di percepire il fascino perverso di Partenope. Il richiamo della sirena.
Conoscendo qualche tratto della vita dell’autrice, non riesco a fare a meno di confrontare i suoi personaggi con la sua biografia. Piera è una napoletana che vive a Livorno da più di trent’anni. Immagino che da lontano ripensi Napoli con lo sguardo di chi ne vede tutte le imperfezioni e la traballante precarietà, ma non riesce a distaccarsene del tutto…
Ad un dato momento, Rita, la figlia maggiore degli Imparato, dichiara: “era necessario […] che io vi nascessi. Per coltivare il desiderio di lasciarla e non tornarci più se non con il pensiero.”
E più avanti quella insanabile forza centrifuga viene espressa in terza persona e in termini ancor più spietati e perentori:
“[…] Voleva andarsene da quella città che li faceva tutti malati gravi, pietrificandoli come fa la lava quando si raffredda.
[…] Se ne sarebbe andata […]. Il più lontano possibile dagli edifici rosicati, dall’eredità della sua storia millenaria fatta di peste e fasti, di opulenza sfrenata e di miseria d’accatto, con quel vulcano che la presidiava silente, eppure minaccioso, simile a un drago in letargo che bastava niente a risvegliare affinché portasse solo morte e distruzione, e col mare, sí, quel mare che era un’idea, che bisognava cercare per vederlo, avvicinarsi, rasentarlo, altrimenti neanche si intuiva nel mentre si percorrevano strade e vichi in cui a stento filtrava un’oncia di sole solo quand’era a picco, un coltello di luce sulla testa. Ci camminava, per quella città, mangiandola assieme al cibo, boccone dopo boccone, per farsela meglio entrare in corpo, digerirla per poi disfarsene.
Dovevano esserci altri luoghi, si diceva.
C’erano altri luoghi, lo sapeva, in cui vivere sarebbe stato un po’ piú semplice, senza il Vesuvio a ribollirle il sangue, senza santi, senza tufo, con il mare – un mare che si vedeva e si toccava – ei suoi venti a ripulire l’aria. […] Se ne sarebbe andata.”
Se ne sarebbe andata.
Ma non si può fare a meno di descriverla, quella Napoli. Anche da lontano. Mi pare.
Forse Napoli e i suoi vicoli oscuri penetrati da improvvisi squarci di luce sono una metafora della precarietà delle nostre stesse vite e dell’attaccamento che pur tuttavia ce ne deriva.