Tutti abbiamo da augurarci qualcosa e tutti abbiamo bisogno di auguri. Tanti.
Io ve li lascio qua. In duplice versione video.
I disegnini li ho fatti io; la canzone di sottofondo èJingle Bell Rock, arcinoto brano natalizio di Joe Beal e Jim Boothe, inciso nel 1957 da Bobby Helms.
Lo so che la maggior parte di voi preferisce vedere disegnini animati e ascoltare musichette e canzoncine, piuttosto che leggere…
Una mia ipersintetica versione del canto natalizio di origine austriaca Stille nacht, heilige nacht (Joseph Mohr, testo, risalente al 1816, Franz Xaver Gruber, musica del 1818). Ma il brano è più diffusamente conosciuto nel mondo come Silent Night, mentre in Italia è diventato Astro del Ciel e nei paesi di lingua spagnolaNoche de Paz, Noche de Amor.
Va be’, tante belle cose a tutti e ad ognuno e più pace e più giustizia in ogni luogo!
Carmine, Carmelo, Carmela, Carmen, Melania e derivati. Questo nome è il più diffuso della mia famiglia da nonni a nipoti. E lo portano anche tanti miei amici e conoscenti. Un nome sacro e profano che ricorda un monte, la poesia, il carme, la madonna e la più avvenente delle gitane andaluse.
Il rebus (ormai “sgamatissimo”) è mio, l’illustrazione una litografia di Marc Chagall del 1966 per una rappresentazione del capolavoro di Bizet che ci ha insegnato che l’amour est un oiseau rebelle.
Ma ascoltiamola l’habanera della Carmen, in una versione della divina Maria Callas.
Senza ombra di dubbio, si tratta di una delle più celebri arie del repertorio lirico. Bizet la compose ispirandosi ampiamente a “El Arreglito“, un brano del compositore basco Sebastián de Yradier (1809-1865), noto anche come autore de “La Paloma“, un’altra habanera spagnola di influenza cubana.
(Pare che all’inizio Bizet pensasse che si trattasse di un motivo di tradizione popolare, ma poi, quando si rese conto di aver saccheggiato una habanera d’autore, riconobbe i diritti di Yradier. Nel senso che aggiunse il nome del musicista spagnolo sui margini superiori dello spartito; non credo che nel XIX secolo si mettesse mano alla tasca, in casi simili.)
Ma, oltre alla musica – trascinante -, l’habanera consiste anche di un testo di grande e romantica modernità che Bizet scrisse in collaborazione con i librettisti Henri Meilhac e Ludovic Halévy. Ne riporto qui una mia traduzione (piuttosto libera) che prova a restituire la forza dirompente dei versi originali. Leggetela e lasciatevi scuotere.
L’amore è un passero ribelle e nessuno lo potrà mai domare Inutile continuare a invocarlo Quando decide di andarsene non c’è minaccia o preghiera che lo smuova Uno parla parla l’altro tace ed è l’altro che io preferisco Non ha detto niente ma mi piace L’amore L’amore L’amore L’amore
L’amore è uno tzigano ignaro di ogni legge Se tu non mi ami io ti amo se io ti amo stai attento a te Sta attento a te se mi ami
L’uccello che credevi di rinchiudere batte le sue ali e vola via L’amore è lontano e tu sei là che aspetti Non l’aspetti più e lui è là Tutto intorno a te veloce veloce viene se ne va e poi ritorna Se credi di tenerlo lui ti evita Se credi di evitarlo lui ti tiene L’amore L’amore L’amore L’amore
L’amore è uno tzigano ignaro di ogni legge Se tu non mi ami io ti amo se io ti amo stai attento a te Sta attento a te se mi ami
E con questo iperromantico teorema amoroso, vi lascio, rinnovando i miei auguri a tutte e a tutti i portatori di questo nome carmico.
Oggi è il giorno delle “Grazie”, festeggiato da tante amiche, parenti e conoscenti che portano il nome Grazia, Maria Grazia, Mariagrazia, Graziella, Graziuccia, Graziana e grazie a ‘o c…, va be’, m’è scappato… Perdonatemi.
Si tratta, naturalmente, di uno dei tanti nomi con cui è conosciuta la madre di Gesù Cristo nei paesi di cultura cattolica. Maria, nel culto popolare, si moltiplica come una dea dalle mille facce e innumerevoli apparizioni. Ma, apprendo da Nonno Wiki, “la Chiesa cattolica non ha nel proprio anno liturgico una festa specifica per la Madonna delle Grazie: questo titolo è associato a diverse feste mariane in base alle consuetudini locali e alla storia dei singoli santuari.”
Dunque, quello che festeggiamo oggi a Napoli e zone collegate è l’episodio evangelico della visita di Maria a sua cugina Elisabetta, la madre di Giovanni Battista, il futuro decollato. Ad annunciazione avvenuta, Maria, consapevole ormai di essere incinta, va a fare visita alla cugina, anche lei in attesa, e le resta accanto fino alla nascita di Giovanni. Poi, in un giorno che viene calcolato proprio intorno al 2 luglio, rientra a Nazareth.
Pertanto, quella di oggi è, in un certo senso, la festa della visitazione e dell’attesa immortalata in molti quadri a sfondo religioso, tra i quali, il mio preferito è questo capolavoro di Pontormo, conosciuto come Visitazione di Carmignano.
La scena di forte impatto cromatico e teatrale, inquadra due donne in stato di grazia, che si incontrano affettuosamente, scambiandosi in silenzio le emozioni e le trepidazioni dell’attesa. Sotto i loro drappi si intuisce la presenza di due ingombranti pancioni. Tra la vecchia cugina (madre tardiva) e la giovane vergine gravida, si instaura un intenso sguardo di intesa. C’è sintonia ed empatia, tra loro, ma forse anche un filo di preoccupazione per il mistero che portano in grembo. Alle loro spalle altre due donne (come loro, di differente età) hanno uno sguardo perso nel vuoto, che, inevitabilmente finisce per intercettare lo sguardo nostro mentre guardiamo il quadro. Il tutto in un’atmosfera sospesa, metafisica, rafforzata da un enigmatico dettaglio che si intravede sullo sfondo del quadro: due figure incompiute che sembrano provenire dal futuro, due uomini disegnati con tratti proto-espressionistici che parlano tra di loro, indifferenti alla scena; quasi a sottolineare l’estraneità del mondo maschile da questo incontro tra donne; cose di femmine, insomma…
Di questo capolavoro esiste anche uno studio preparatorio conservato agli Uffizi (il dipinto, invece, è custodito nella chiesa parrocchiale dei Santi Michele e Francesco a Carmignano, in provincia di Prato).
Da questo studio risulta ancora più evidente la composizione “a rombo” dei quattro corpi; un costrutto scenico che sembra ispirato all’incisione di Dürer delle Quattro streghe (1497).
Siamo scivolati, così, dal mondo della religione a quello della magia nera. Ma è evidente che entrambi i quadri sono iscritti in una stessa linea iconografica che parte da molto lontano. Guardate, per esempio, queste Tre Grazie, risalenti al IV secolo a C.: un piccolo affresco (63 x 60 cm) ritrovato a Pompei e custodito nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Più o meno dello stesso periodo delle streghe di Dürer e della visitazione di Pontormo anche le tre grazie che danzano tra Venere e Mercurio nella Primavera di Botticelli (1482 ca., olio, 203 x 314 cm, Uffizi, Firenze) e quelle di Raffaello Sanzio (1503 ca., olio, 17 x 17 cm, Museo Condé di Chantilly), dove le tre figure femminili sembrano ricalcare ancor più da vicino la postura classica che ritroviamo nell’affresco pompeiano.
Quanta grazia e quanta bellezza. Soprattutto nel quadretto di Raffaello.
Ma si sta facendo tardi. Chiudo questa serie di madonne, grazie e streghe con un meraviglioso disegno a carboncino e gessetto dello stesso Jacopo Pontormo da cui è cominciata questa piccola rassegna di arte varia (Le Tre Grazie, 1535-1536, 29.5 x 21.2 cm, Uffizi, Firenze).
La posizione danzante pare rimandare alle grazie della Primavera di Botticelli, ma è evidente che qui i riferimenti possono continuare in una catena pressoché infinita di figure femminili raffigurate di volta in volta come divinità, come madonne, come fate o come streghe, ma sempre dotate di ineffabile grazia.
Uffa, credevo di averlo inventato io quel MerryvaXmas, poi ho controllato in rete e ho visto che qualcuno lo aveva già pensato, espresso e diffuso. Ma era troppo ovvio perché nessuno ci fosse arrivato prima di me. Soprattutto nei Paesi di lingua inglese.
A proposito di lingue e linguaggi, ve li voglio ribadire in (quasi) tutte le lingue d’Europa i miei auguri.
Li ho presi dalla preziosa pagina multilingue di Jakub Marian.
Ma fatemelo ripetere pure quest’anno che il nuovo anno sarà nuovo se sapremo rinnovarlo, se sapremo rinnovarci; e che non ci manchi mai un desiderio da realizzare, qualcosa da imparare, un posto in cui voler stare e qualcuno con cui andarci. Magari senza timori e senza mascherine.
Ok. Sto spargendo troppo zucchero. Mitigo con quattro amare vignette del grande Altan. Vignette vecchie ma sempre attuali che ho messo insieme e ricolorato per il gusto di accostare il nome di Altan a quello di Aitan.
Vabbuò. Basta mo!
Fine danno (Fosse ‘a Madonna!)
¡Feliz 2022 a todos los que comparten el deseo de un mundo mejor!
Sotto lo sguardo della luna, la Befana guida la slitta e Papà Noel, alle sue spalle, la scopa. Sta per arrivare… un nuovo anno. Le renne sorridono e il cielo si riempie di fiocchi di neve e polvere di stelle.
Tanti auguri di un anno pieno d’amore. In tutte le posizioni!
Gli Atti degli Apostoli, la Legenda Aurea e la tradizione agiografica narrano che, pochi anni dopo la crocefissione, il diacono Stefano morì lapidato; il che fa di lui il primo martire della fede ammazzato dopo Gesù Cristo.
Il suo nome di ascendenza greca mi è molto familiare. Si chiamavano Stefano mio padre e il mio bisnonno materno, e hanno lo stesso nome anche mia figlia (al femminile, of course) ed il mio primo sobrino.
Faccio a loro e a tutti gli Stefani, le Stefanie, gli Steves, gli Estebanes e derivati i miei migliori auguri mettendo insieme quattro quadri del pittore manierista spagnolo Vicente Juan Masip (1507-1579), conosciuto anche come Joan de Joanes (come dire Giuanne ‘o figlio ‘e Giuanne, visto che suo padre era l’omonimo artista rinascimentale Juan Vicente Masip, il che crea non pochi problemi di attribuzione delle loro opere). In questi quattro dipinti, come in un fumetto – o, si parva licet componere magnis, come in una ViaCrucis – seguiamo gli ultimi momenti della vita di Stefano protomartire.
Nella prima immagine lo vediamo predicare in sinagoga. È il caso di chiarire qui che, oltre che protomartire, Santo Stefano è riconosciuto dalla religione come protodiacono, in quanto pare che fu il primo dei sette ministri della carità cui gli apostoli affidarono il compito di assistere gli indigenti, amministrando i beni comuni e annunciando la buona novella. In qualche modo, i cristiani dei primordi erano una specie di pericolosi protocomunisti abituati a mettere in comune tutti i propri beni, e Stefano era uno dei principali rappresentanti di questa setta eversiva che si andava diffondendo da Gerusalemme nel mondo allora accessibile per terra e per mare.
Durante una di queste predicazioni, Stefano fu catturato (e siamo alla seconda tavola) e condotto al martirio da uno stuolo di giudei raffiguranti nel quadro di Masip con ghigni truci e arcigni.
Nella terza tavola vediamo Stefano in ginocchio e i giudei pronti a lanciare le loro pietre, sempre con lo stesso sguardo torvo ed ostile. Lui ha gli occhi rivolti verso il cielo e pare che gli manchi solo la nuvoletta sulla testa con la scritta: “Signore, non imputare loro questo peccato”, riportata negli Atti degli Apostoli a imitazione delle ultime parole di Cristo in croce (At 7,60). Sullo sfondo, Saul, il futuro Paolo di Tarso, assiste inerme al martirio. Debbo, però, specificare che ho ribaltato orizzontalmente questa immagine affinché il corpo di Stefano si rivolgesse sempre verso il lato sinistro del riquadro e non si perdesse il ritmo fumettistico della narrazione. È come se vedessimo il dipinto allo specchio (a meno che non fosse ribaltata la foto che ho trovato io in internet).
Nella quarta e ultima rappresentazione, assistiamo alla deposizione del santo in una bara, prima della sepoltura. Questa volta, sullo sfondo, si distingue un uomo vestito in abiti rinascimentali, forse uno dei committenti che aveva ordinato il dipinto per una chiesa di Valencia (anche se, attualmente, credo che tutte e quattro le opere siano conservate al Prado).
In tutti i quadri, un’aureola cinge il capo del santo protomartire e protodiacono come una ghirlanda di luce, come una corona aurea. Non a caso, il nome Stefano deriva da Στέφανος (latinizzato in Stephanus) che, in greco antico, significa proprio “corona”, “ghirlanda”. Probabilmente è per questo che fu utilizzato nel protocristianesimo come un riferimento alla “corona santa del martirio” di questo primordiale imitatore di Cristo celebrato dalla chiesa cattolica il giorno dopo la nascita di Gesù scandita dal calendario gregoriano.
A volte sono senza parole e comincio a sghignazzare come un bambino che ride senza ragione
A volte sono senza parole e comincio a ridere e a fare sberleffi come un bambino che vede gli adulti che ridono al suo ridere e continua a fare il pagliaccio senza sapere cosa ci sia da ridere se non ridere per sentir ridere il mondo
A volte sono senza parole e comincio a ridere e a fare sberleffi come un bambino che vede gli adulti che ridono al suo ridere e continua a sghignazzare perché è contento di verderli contenti
A volte sono senza parole e comincio a ridere per sentirvi contenti
Almeno loro penso
Almeno voi
Per lo spazio di un momento Almeno
Va be’...
Tanti auguri e tante belle cose per queste feste e per tutto l’anno che sta arrivando e tra un anno passerà.
Dopo Giotto (1267-1337), Francisco de Zurbarán (1598-1664) è stato il più grande interprete pittorico della figura religiosa del santo di Assisi e patrono dell’Italia intera. Ma se Giotto rappresentò le opere e la vita esteriore di Francesco d’Assisi, Zurbarán concentró la sua attenzione soprattutto sul percorso mistico-ascetico del santo.
Meditación de San Francisco
Meno conosciuto del coetaneo e conterraneo Velázquez, Francisco de Zurbarán rappresenta il lato austero, essenziale, laconico e “conceptista” del Barocco spagnolo (ma forse, parlando di Zurbarán e Velázquez, sarebbe più esatto riferirsi al “barroco andaluz/sevillano“, coacervo aureo di artisti che ebbero in Góngora la loro massima espressione letteraria). La sua essenzialità, le luci e i contrasti caravaggeschi delle sue scene e la drammaticità delle rappresentazioni lo rendono molto moderno (mi verrebbe da dire “cinematografico”), come si evidenzia in queste sei interpretazioni di San Francisco de Asís che mi sono divertito a mettere insieme come in un “retablo“, come in un (inesistente) polittico francescano.
Va be’, smetto qui i miei barocchismi e porgo i miei auguri a tutte le Francesche, i Franceschi, i Cicci, le Cicce, i Cecchi, i Checchi e le Checche che festeggiano oggi, il 6 ottobre o in qualsiasi altra data del calendario e della loro vita; auguri ai François, ai Francis, ai Fran, ai Franz, ai Franciscus e ai Φραγκίσκος; auguri ai Franchi e alle Franche y también a los Pacos, a los Panchos, los Ciscos, los Franciscos y los Kikos che si trovassero a passare di qua; e auguri anche a quelli che non passeranno mai e a quelli che sono passati, ma non possono passare più in carne ed ossa in nessun posto di questa valle di frequenti lacrime e scarsi sorrisi.
Auguri a tutti, salvo a quelli che augurano ogni bene solo a se stessi e sono pronti a calpestare gli altri per innalzarsi di qualche centimetro dal suolo.
Perché al mondo ci sono i Franco e Ciccio, i Francisco de Zurbarán e i Francisco Franco, i Franco Boschi e i Francesco d’Assisi, ma, in ogni casa e in ogni caso, per dirla con Leo Longanesi, “sotto ogni italiano si nasconde un Cagliostro e un San Francesco.”