Strapoteri cancellati in un secondo a riprova che non v’è impero al mondo che possa durare fino al fondo del fondo del fondo del fondo del tempo in cui vivo crepo e mi confondo
Girare in tondo e in tondo girare fino a cadere e fino a cascare giù per terra / culo e capo per terra E finisce che finisce un’altra guerra grazie a chi non s’inchina né conforma ai princípi ai dettami ed alla norma del caudillo / del bureau o dell’aggressore
Perché non v’è al mondo squartatore capo kapò caporale o ‘mperatore che non sia destinato a scomparire e finisca puranco per patire una parte di quanto s’è patito allor che era temuto e riverito da uomini e donne di partito o da chi s’opponeva e fu zittito
Gira gira la ruota della storia ed ogni sconfitta si fa vittoria
Gira e rigira per sempre la ruota il re sta da solo / la stanza si svuota
Gira Gira /
Gira e rigira / la ruota / per sempre / ieri era ottobre ed oggi è novembre
Gira e rigira il mondo e la vita Volta la carta ed è già finita
In napoletano usiamo l’espressione “Nun me fa’ cummattere!” (letteralmente “Non farmi combattere”) per rivolgerci a qualcuno che ci sta facendo perdere la pazienza, come una sorta di monito affinché la smetta di esacerbare i nostri animi. Personalmente, mi fa pensare a una madre e ad bambino irrequieto (che potrei essere io a otto-nove anni, o mio fratello, mio cugino, un ragazzino spagnolo che mi tormentò l’anima in una stazione di Jaén…). Lui sbuffa, non riesce a stare un attimo fermo, la interrompe mentre lei parla al telefono, dà un calcio a un pupazzo e rompe due bicchieri, spegne la televisione e sale su una sedia appoggiando le mani sull’inferriata del balcone. Lei, esasperata, sbotta:
“Basta, basta! Nun me fa cummattere!
Nun-me-fa–cu–mma-tte-re!“
L’ultima frase la scandisce, come se volesse cercare di entrare nella testa del bambino ed avvertirlo che la misura è colma; come se volesse essere sicura che questa volta lui la stia veramente ascoltando e agisca di conseguenza, prima che tra loro scoppi una tempesta dalle conseguenze imprevedibili. Un modo severo per implorarlo di smetterla, un avvertimento, un deterrente, un ultimatum per riconquistare un po’ di pace, o almeno una tregua che le dia il tempo per rimettersi in sesto prima di continuare a battagliare.
Nun me fa’ cummattere! Non farmi combattere!
Suvvia, non fa-te-ci–com-ba-tte-re!
Gaetano Vergara, “BE QUIET!“, 1985
Che poi questo mantra del contenimento, questo
Non fateci combattere. Non fateci combattere. Non fateci combattere.
sarebbe il caso di gridarlo tutti i giorni, sulla faccia di coloro che vogliono coinvolgerci nel gioco perverso della guerra. Di ogni guerra.
E ja’, anciate pace, nun facite ‘e scieme, nun ce facite cummattere. Smettetela, una buona volta, di trascinarci nei vostri conflitti armati! Lasciateci in pace! Non fate i bambini! Statevi un po’ fermi e riconsiderate le cose, provatele a vedere da altri punti di vista, dubitate delle vostre granitiche certezze; poi sediamoci intorno a un tavolo, stabiliamo cosa non si debba fare e impegniamoci ad analizzare che cosa si possa fare e come farlo per evitare un escalation di sofferenze. Poco per volta. Ma senza più l’uso di clave, spade, bazooka e altri strumenti di indiscriminata distruzione individuale o di massa.
E che diamine! Non siamo mica dei cavernicoli in contesa per un pezzo di dinosauro sanguinante, non siamo mica delle bestie feroci in cerca di cibo o dei mostri affamati di potere o di vendetta!
Quest’estate, di ritorno dalle vacanze, mi sono imbattuto in Jazz Mantana, la composizione dei Tproject di cui ho già parlato su queste pagine: un brano di jazz rock con tinte etniche dedicato al quartiere dove sono nato e vivo.
Ora i Tproject hanno presentato due nuove produzioni e io, nel frattempo, chiacchierando con loro, ho imparato a conoscerli e ad apprezzarli.
Tproject è una declinazione del gruppo Masadecrea, un insieme di artisti che lavorano a distanza, ma uniti da un’idea di musica intesa come laboratorio di creatività e sperimentazione (non a caso, masadecrea è una parola albanese che significa “tavolo di creazioni”). Perni del progetto sono Gino Frattasio (bassista, compositore ed esperto di programmazione, vissuto tra Arzano e S.Giovanni Vardarno e ora trasferito a Bologna), Pasquale Marchese (batterista, percussionista e compositore frattese) e Ciro Bianco (ingegnere del suono, che vive tra la Campania e le Baleari); ma il progetto si apre spesso e volentieri a collaborazioni con altri artisti, come il sassofonista Giovanni Sorvillo, i contrabbassisti Luca Varavallo ed Amedeo Ronga, il chitarrista Salvatore Acerbo, il percussionista Max Goglia, i batteristi Raffaele Natale, Paolo Scuto, Francesco Del Prete junior, Alex Perrone e Claide Magrini ed il chitarrista flamenco Santiago Lara.
La prima delle due nuove produzioni dei Tproject si intitola “The Prayer” e rappresenta una netta e chiara denuncia delle nefaste conseguenze delle guerre, di tutte le guerre.
Il brano si apre con una melodia intimista e raccolta accompagnata da piatti e suoni di campane. Poi, dopo circa un minuto e mezzo, comincia una sequenza serrata di suoni elettronici e un accompagnamento di batteria che rendono la tensione emotiva dei conflitti. Intorno al terzo minuto, il suono delle campane riportano la musica al tono raccolto della preghiera, forse anche alla speranza di una vita senza guerra.
“Je vulesse truvà pace; ma na pace senza morte”, per dirla con le parole di Eduardo.
È evidente che per i Tproject la musica è anche un mezzo per intervenire nella realtà con un punto di vista personale e sensibile ed una personale vena di laico misticismo che risalta, fin dal titolo, anche nel secondo brano che presento qui: “The road to holiness” (La strada per la santità).
Il brano, che si avvale anche della collaborazione di Luca Varavallo al contrabbasso, è un crescendo di strazio, una colonna sonora del dolore dei popoli delle migrazioni e delle guerre. Si apre con lancinanti sequenze elettroniche accompagnate da un rullante che sembra dare movimento alla marcia di diseredati che vediamo rappresentati anche nelle foto del video. Poi la marcia si interrompe e, dopo qualche battuta di sole tastiere, il suono si fa via via più pieno con l’accompagnamento della batteria, delle percussioni e del contrabbasso. Sono note struggenti, urla e lamenti che accompagnano il cammino verso una libertà di popoli che molte volte cercano la pace e trovano solo la morte.
Sembra ancora lungo il cammino e a volte si ha l’impressione di andare avanti tornando indietro.
(Incluso i migranti, sia quelli che fuggono da guerre vere che quelli che fuggono da battaglie perse contro la fame, lo sfruttamento e le conseguenze delle colonizzazioni.)
Dio li benedica.
(E benedica gli insubordinati e i dissenzienti. Quelli che non si lasciano convincere dai dettami dei potenti. Quelli che non si fanno incantare dai suonatori della banda e dai colori svolazzanti delle bandiere. Quelli che non si lasciano bloccare dalla paura di essere fuori dal branco o dalle minacce dei capi, dei capò e dei caporali. Quelli che continuano a pensare al di fuori dall’ordine costituito ed hanno gambe buone per uscire fuori dal mucchio. Quelli che ora piangono la terra perduta. Ma non rimpiangono il gregge, il pastore, i suoi cani ed il branco.)
E così anche un convinto antimilitarista come me si è trovato, in una calda giornata di agosto, a combattere la sua personale guerra contro l’animale assurto a simbolo della pace (almeno nella sua versione femminile), quello che a giusta ragione ho sentito definire in Germania il ratto dei cieli.
Segue una vecchia immagine di quando questi pennuti scacazzanti ancora avevano la loro dimora di fronte casa mia.
E stavo più tranquillo anch’io. Prima dell’invasione.
Finché non ti entra in casa, la guerra è solo un incendio visto da lontano o un paragrafo di un libro di storia.
A meno che non ti arrivi la polvere sul tavolo (sta capitando anche questo, con l’abbattimento di questo palazzone) oppure si abbia un conseguente aumento del prezzo del gas e dell’olio di semi di girasole.
Anche oggi, puntualmente, come ogni 2 giugno, celebreremo la Festa della Repubblica Italiana con una parata militare.
Ma io non capirò mai questa identificazione di una repubblica con un esercito. Tanto più in un Paese che “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (articolo 11 della Costituzione Italiana); un Paese che ha messo un ramoscello di ulivo nel suo stemma patrio, peraltro.
Una repubblica democratica fondata sul lavoro (articolo 1) sarebbe meglio rappresentata da un corteo di disoccupati e di lavoratori che da file di soldati che avanzano a passo d’oca mostrando i loro fucili e i loro cannoni come esibizionisti ai giardinetti.
Lo dico ogni anno e lo ripeto con qualche fremito e qualche sussulto in più, nell’anno della terribile invasione dell’Ucraina.
Ad ogni buon conto, spero che in un tempo non lontano si capirà che una nazione può essere difesa con sistemi organizzati di DPN (Difesa Popolare NonViolenta). Nel mentre, chiedo solo che non si identifichi la Repubblica Democratica Italiana con la difesa armata del territorio. Altrimenti chiamatela Festa delle Forze Armate, questa celebrazione. I valori fondanti della Repubblica mi sembrano altri, a leggere la Costituzione.
L’immagine è una frettolosa rivisitazione di una celebre cartolina realizzata da Joan Mirò nel 1937 per raccogliere fondi per il fronte popolare, ai tempi della sanguinaria guerra civile spagnola.
La musica di sottofondo è un mio campionamento della tromba di Tom Harrel tratto dalla versione di “Silence” contenuta nell’album di Charlie Haden, “The Montreal Tapes: Liberation Music Orchestra” (1989).
I dubbi sono tutti miei e mi paralizzano la coscienza, anche se continuo a scrivere e a cazzeggiare con i segni e con i suoni. Perché non so fare altro.
1936-1939, Guerra civile spagnola, le forze nazifasciste di Hitler e Mussolini accorrono in aiuto di Franco con i loro eserciti di terra e di aria. Sul versante opposto, l’Unione Sovietica manda al fronte popolare centinaia di aerei, carri armati e blindati, migliaia di fucili, mitragliatrici e bombe e milioni di proiettili; ma non i suoi uomini e i suoi eserciti. Si mobilitano, invece, circa cinquantamila volontari provenienti da una cinquantina di differenti nazioni. Las Brigadas Internacionales. Non mercenari, ma antifascisti e difensori del modello di democrazia avanzata incarnato dalla Repubblica spagnola.
È la prova generale della seconda guerra mondiale, finita male per il fronte popolare e per tutta la Spagna democratica, libertaria, marxista, anarchica e antifascista.
Il bombardamento di Guernica diventa un simbolo dei disastri della guerra e un monito. Un monito non ascoltato.
Joan Miró, 1937 (da molti anni il desktop del mio pc)
Dopo la guerra, Francisco Franco governò la Spagna per altri 36 lunghissimi anni, ma non intervenne in modo diretto nel secondo conflitto mondiale. Quello che si concluse con i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki.
La Spagna in quei tre crudelissimi anni fu funestata da qualcosa come 500mila morti (sul numero preciso si accapiglino gli storici). Dal canto suo, la guerra mondiale, a distanza di pochi anni, produsse più morti di tutta l’attuale popolazione italiana (un numero oscillante tra i 60 e i 70 milioni di vittime militari e civili). Una strage immane, un massacro inenarrabile e scellerato.
Ci penso da settimane. […] Ma non riesco a trovare un senso.
Dopo che un Paese dispiega il suo lato più crudele sui campi di battaglia o nelle città invase, assediate e bombardate, li trovi dappertutto i precedenti storici e culturali per demonizzare i tuoi avversari. Cominci a leggere i segni della violenza e dell’aggressività anche nei loro costumi e perfino nelle espressioni artistiche e nei modi in cui parlano, camminano, danzano fanno l’amore e si relazionano con il mondo. Nascondi a te stesso la banale verità che tutti i popoli della terra hanno fatto la guerra (salvo i rom, i sinti e i camminanti, probabilmente), e tutti, sui campi di battaglia e nelle città assediate, hanno commesso atti osceni di belligerante ferocia e belluina spietatezza. A dispetto degli eventi raccontati (e spesso anche edulcorati o sofisticati) sui libri di storia, continui a trovare più facile pensare che la disumanità sia insita nel tuo nemico che comprendere che nei conflitti armati ogni uomo finisce per essere disumanizzato, sia in quanto aggressore che in quanto aggredito. Non importa se combatte una “guerra giusta e sacrosanta”, se si sta difendendo da un’aggressione esterna o se si sta battendo per la pace, per la sicurezza, per la conquista di un posto al sole o per la libertà; non importa se sta dalla nostra parte della barricata o sul fronte del nemico…, ogni uomo regredisce a uno stadio primitivo e ferino quando gli mettono un’arma in mano e un nemico di fronte. E considerate se questo è un uomo!
È molto più comodo spostare il male fuori di noi e dare alla crudeltà un connotato etnico (i turchi, i tedeschi, gli inglesi, i mongoli, i russi, i russi, gli americani) che accettare che ci disumanizziamo anche noi, quando imbracciamo un fucile o applaudiamo alle fucilate di una delle parti in conflitto esecrando, al tempo stesso, i colpi e le bombe dell’altra. Facciamo fatica a capire che non abbiamo bisogno di eroi e di imprese leggendarie, ma di ponti e di persone capaci di dialogo e di comprensione. La guerra sospende il senso della realtà e offusca la ragione. La guerra distrugge ogni cosa e annichilisce tutto quello che fa dell’uomo un uomo. Le armi dovrebbero diventare un tabù; i conflitti li dovrebbero risolvere i politici o i popoli, sui campi di calcio, nelle scelte degli acquisti e nei festival internazionali delle canzoni. E i popoli invasi si dovrebbero armare di pernacchie, boicottaggi, forbici per tagliare i fili della corrente, chiavi idrauliche e chiodi per bucare le ruote all’invasore; non di fucili, mitra, bazooka, carri armati, granate, bombe a grappolo, armi chimiche, missili balistici, bombe atomiche, testate nucleari e clave.
E ora non mi rompete col vostro presunto realismo, con la sedicente inevitabilità della guerra e con la pace conquistata col sangue. Questo realismo guerrafondaio ha fatto più danni del positivismo acritico e, alla luce dei fatti, conviene solo ai padroni delle industrie belliche e a quelli che pilotano dall’esterno la macchina. Gli altri, siamo tutti orfani di guerra. E sconfitti. Io, da parte mia, preferisco apparirvi ingenuo e perfino infantile piuttosto che cercare la ragione nella follia della più totale e cieca distruzione e giustificare la scelta di affrontare un’altra persona fino all’ultimo sangue, fino all’ultimo barlume di vita e di emozione. Preferisco anche che mi vediate come un vigliacco, un pavido, un pusillanime o un edonista “troppo” attaccato alla vita; preferisco essere identificato con un Pulcinella disertore piuttosto che un Capitan Fracassa, un Miles Gloriosus, un eroe morto, un Milite ignoto senza neanche più il corpo in cassa.
– A me non c’era nemmeno bisogno che mi torturavano: a me bastava che dicevano solamente, per esempio: “Guarda che se non parli… forse… ti torturiamo”. Immediatamente parlavo, scrivevo, cioè, se non capivano, facevo un disegno…
Eccolo qua, Massimo Troisi, un attimo prima di fare l’elogio di Giuda in “Ricomincio da tre” (1981). Perché bisogna comprenderle le cose prima di giudicare…
– Mo’ tutti quanti con “Giuda traditore”, “Giuda traditore”. Si devono conoscere prima i fatti, eh? Giuda avrà avuto una ragione per fare una cosa del genere, no? – Eh no, per soldi. – Eh, per soldi… E non è una ragione, scusa? Basta che lo facevano nascere ricco e già si evitava tutta questa ammuina, ‘sta cosa, l’uccisione, ‘o tradimento… Lasciamo stare, cioè perchè… quando uno non conosce la gente… non mi piace giudicare. Perchè metti… cioè, tu hai bisogno… ‘sti trenta denari, quanto potevano essere, mettiamo due-trecentomila lire, quattrocento, non lo so, però avrà messo a posto le cose sue. Metti che andava a casa e la moglie ogni volta: “Giuda, tu devi andare a lavorare. Giuda, ‘o padrone ‘e casa, la luce, l’acqua (per dire) ‘o telefono…”. “Tu non porti più soldi a casa!” Si è visto i trenta denari in mano e ha detto “Ma che me ne importa? Adesso metto a posto la famiglia.” Per dire…
Ed ora non scivolate nell’errore di fare di Troisi/Pulcinella l’emblema del nostro carattere nazionale (o regionale). Di disertori che si tirano fuori dai disastri della guerra, grazieaddio, se ne possono trovare in tutti gli eserciti del mondo. E i saggi – come Troisi – sono dappertutto, come pure quelli che prendono le medaglie al merito, tanto in vita, tipo Enrico Toti dalla gamba mozza, quanto in morte, tipo Salvo D’Acquisto, con una medaglia appiccicata sul corpo trivellato di colpi. Per carità, due eroi veri (se ve ne sono), votati al sacrificio per la salvezza di altri uomini. Come martiri della fede. Due persone che scelgono come vivere e come morire, a fronte di milioni di corpi anonimi caduti sui campi di battaglia o nelle città distrutte dai bombardamenti. Carne da cannone. E considerate se questo è un uomo.
Ma io non vedrei il carattere nazionale né in loro e nel loro spirito di mortale sacrificio, né nel Pulcinella/Troisi col suo diserzionismo estremo. Vedo solo due facce di un’umanità che si difende diversamente contro l’assurdità disumana della guerra. E mi convinco sempre più che bisogna fare guerra alla guerra, innanzitutto. Poi viene il resto e, soprattutto, imparare come vivere la pace e far convivere i popoli. Di certo non una cosa facile. Ma se ne può parlare, se mettete la pistola sul tavolo e tutte quelle armi nel bidone dei rifiuti speciali.
il cielo oggi è una cartina geografica che viene voglia di trasferirsi nei territori di sopra e guardarla dall’alto questa terra martoriata per gridare al vento che così non va e non si può tirare avanti
…
è un insieme di terre emerse prive di odio e senza frastuono il cielo di questa primavera