Nuove forme di colonialismo in agguato. Risorse umane da sfruttare. Risorse minerarie da depredare. Ipocrite dichiarazioni di parità e di amicizia.
Film Luce da dare in pasto agli italiani, agli europei e agli africani (come se gli africani fossero un tutto indistinto, come se gli europei fossero un tutto indistinto, come fossero un tutto indistinto gli italiani).
Creazioni di ponti monodirezionali. Esportazione di rifiuti più o meno tossici. Intensificazione della produzione di combustibili fossili. Somma di corruzioni interne ed esterne. Intensificazione di un terrorismo di rivalsa anti-europeo e anti-occidentale.
Mancato coinvolgimento delle popolazioni di entrambe le sponde.
Chiacchiere senza costrutto e retorica vuota.
La ricerca di un altro posto al sole.
“In a racist society it is not enough to be non-racist, we must be anti-racist.” Angela Davis
In una società razzista non basta essere non-razzisti, bisogna essere antirazzisti.
Una società razzista è poco credibile in un piano di aiuti per l’Africa.
Ma sarei contentissimo di essere smentito dai fatti.
Con Patrizio Trampetti, Sandro Ruotolo, Jennà Romano e Francesco Del Prete jr.
Nello spazio piccolo, accogliente, intimo, fuori tendenza e necessario del Teatro Smoda, ho assistito ieri a una rappresentazione pomeridiana di ‘O Sud è fesso, uno spettacolo di autentico impegno civile, un concerto sentipensante che fa riflettere ed emoziona, alternando canzoni con testi che presentano spaccati di dolente attualità, cantati da quella trascinante forza della natura che è Patrizio Trampetti con l’accompagnamento di Jennà Romano alle corde e alla voce e Francesco Del Prete alla batteria e con la suggestiva aggiunta delle vivide letture di Sandro Ruotolo, giornalista d’assalto, senatore della Repubblica e corsivista corrosivo e implacabile.
Quello di Jennà e Patrizio è un sodalizio ormai venticinquennale cominciato – da quanto ne so io – con la realizzazione, nel 2009, di un album firmato congiuntamente dai Letti Sfatti (gruppo storico di JR) e da Trampetti. Si chiamava Come fiori tra i marciapiedi e l’asfalto e, un paio di anni dopo, la loro collaborazione si consolidava con un libro accompagnato da un DVD scritto a sei mani con Erri De Luca (Questa città, Edizioni Testepiene). Da allora JR e PT hanno condiviso il palco in svariate occasioni ed hanno anche collaborato nella stesura di ‘O Sud è fesso, l’album di Trampetti da cui lo spettacolo di ieri prende il titolo. Aggiungo, in anteprima, che anche il nuovo album di Trampetti, di imminente pubblicazione, si avvale della collaborazione e della produzione artistica di JR. Per il momento ho già visto la copertina, bella assai, e conosco il titolo che, per scaramanzia, tacerò.
Ma torniamo al teatro di musica, impegno e parole della giornata memorabile di ieri.
Il concerto si è aperto con Vulumbrella, una deliziosa villanella ischitana del ‘500, riscoperta dal maestro De Simone e riarrangiata da JR per l’occasione. Patrizio ha cantato questa serenata sensuale e suadente fin dai suoi esordi nella Nuova Compagnia di Canto Popolare. Un invito a godersi la vita prima che arrivi la stagione del rinsecchimento. Patrizio intona i versi di questa villanella scritta in un suggestivo napoletano antico con la stessa verve e la stessa carica popolare e tagliente dei suoi vent’anni.
Fatte roce e no’ cchiu amara nun te fa verere acerba e non esser tanto brava fatt’umile e no’ superba [con l’accento di umile rigorosamente prinunciato sulla i come nell’humilde ispanico]
[…] ca si tosta fredda e bella ca ogne fica vulumbrella a sto tiempo s’ammatura
Di seguito, dopo un nostalgico intervento di Sandro Ruotolo dedicato ai tempi pre-internet, pre-telefonino e pre-covid, Patrizio ci ha fatto ascoltare Feste di Piazza, canzone scritta a quattro mani con Edoardo Bennato che l’ha portata al successo e inserita nel suo terzo album: Io che non sono l’imperatore, del lontano 1975. Sulla coda, PT, mostra l’anima rock della sua voce che nel registro più acuto graffia ed emoziona, mentre
Restano sparsi Disordinatamente I vuoti a perdere mentali Abbandonati dalla gente Dalla gente Abbandonati dalla gente dalla gente, da da da, dalla gente…
La versione cantata ieri riecheggia quella del 2009 registrata con i Letti Sfatti che potete ascoltare qua (se no, sono solo chiacchiere).
Tutti d’accordo E si puo’ andare avanti E come previsto dal programma, Sandro Ruotolo legge un dolente testo sulle cosiddette morti bianche, i tre morti al giorno sul lavoro, di lavoro, per il lavoro o, perfino, prima ancora che il lavoro arrivi, come nel caso dei ragazzi crepati un paio di anni fa in percorsi di alternanza scuola lavoro.
E qui arriva opportuno il canto di protesta antico e viscerale dei sanfedisti intonato da Patrizio e Jennà con il metronomico accompagnamento di Francesco Del Prete alla batteria, per ricordarci quanto sono incompiute le nostre democrazie. Quanti valori traditi, quante promesse non mantenute.
So’ venute li Francise, ati tasse ‘nc’hanno mise
Liberté, egalité… tu arruobbe a ‘mme je arrobbo a ‘ttè…
Sona sona sona Carmagnola sona li cunzigli viva ‘o rre cu la Famiglia.
Poi, su un tappeto di note che riecheggia lo Sting di Fragile (se ho ben sentito), Sandro Ruotolo ci parla di camorra, un argomento che conosce bene, tanto bene da farlo vivere sotto scorta da una decina di anni per aver ricevuto minacce dal clan dei Casalesi a seguito delle sue inchieste-rivelazioni sul traffico dei rifiuti tossici.
A questo punto, Patrizio e Jenna’ cantano opportunamente che ‘O Sud è fesso, e in questi tempi di autonomia differenziata, giovani che emigrano al nord o fuori Paese, aiuti statali negati ed emergenze caivanesi, diventa sempre più fesso, il nostro Sud, anche nel senso letterale di “stanco”, come ci ricorda Gianni Aversano, patron e animatore dello Smoda; ma, aggiungo io, il Sud è fesso pure nel senso etimologico del termine, participio passato del verbo fendere che vuol dire spaccato, incrinato, tagliato, rotto, ferito (e anche un po’ fottuto, mi viene da aggiungere). Perché il Sud si crede furbo, si sente “sfaccimmo”, e invece è fesso, “se magna pane e pane e chitemmuorte / e nun cagna manco ‘nnanze ‘a morte”, si fa manipolare dai suoi nemici esterni ed interni e si accontenta di qualche sporadica elargizione del potente di turno: piccoli sussidi, contentini e pacche sulle spalle che non lo fanno crescere e gli impediscono di rendersi autonomo, responsabile e indipendente.
e s’accuntenta ‘e quatte caramelle pecché se ‘a vita è ddoce è assai cchiù bella pecché stasera è nata n’ata stella pecché si chiove nun serve ‘o ‘mbrello tutto chello che è passato se cancella
‘o Sud è fesso campa malamente ma campa ‘o stesso e ‘o ssape bbuono chi ce arrobba ce ‘mbroglia ce fotte e ce spoglia
Come ho già scritto altrove, a me ‘O Sud è fesso sembra il manifesto di una Napoli che prende coscienza del servilismo e del provincialismo che l’hanno tenuta legata ai suoi difetti offuscandone i pregi e le inesauribili possibilità di riscatto e cambiamento. Un inno necessario al Meridione che potrebbe essere e non è mai stato.
A questo punto dello spettacolo, Sandro Ruotolo ci ricorda che è il 27 gennaio, il giorno della memoria, e collega i morti in guerra a Lacreme, una canzone di Jennà e Patrizio dedicata ai partigiani della Resistenza condannati a morte. Un valzer dolente, ben accompagnato da Francesco alla batteria, che intervalla brani di lettere dei condannati alla nostalgia cantata che è un tema tradizionale del patrimonio canoro napoletano
‘Nu saluto a Tonino fallo crescere bbuone, e n’abbraccio pe’ ‘tte, ca si mamma e si sposa.
Dopo un opportuno intervallo ammazza-tensione in cui Jennà e Patrizio hanno cantato il capolavoro di Bruno Lauzi Ritornerai, è tornato il tema della guerra con la prospettiva anarchica, lucida, strafottente e antimilitarista del Disertore di Boris Vian.
In piena facoltà egregio presidente le scrivo la presente che spero leggerà la cartolina qui mi dice terra terra di andare a far la guerra quest’altro Lunedì
Ma io non sono qui egregio presidente per ammazzar la gente più o meno come me io non ce l’ho con lei sia detto per inciso ma sento che ho deciso e che diserterò
Benedetti i disertori di tutte le guerre. Probabilmente gli unici che potrebbero fermare i conflitti che continuano da sempre a insanguinare ogni parte dell’umanità e del mondo.
Ma le guerre continuano, in Libia come in Yemen, a Gaza come in Ucraina… E ce lo ricorda la prossima canzone dello spettacolo scritta insieme da Patrizio, Jennà e Sandro Ruotolo per raccontare la storia di Irina sullo sfondo tragico e interminabile della guerra russo-ucraina. Una canzone struggente in cui il canto viene intervallato dalla voce di Ruotolo che, tra le altre cose, cita i versi di Bertolt Brecht sulla crudeltà degli scontri armati e sul loro accanimento sulle popolazioni già oppresse dalla fame e dall’indigenza, quei versi scolpiti nella mente degli antimilitaristi di tutto il mondo che spiegano che dopo la guerra “Fra i vinti la povera gente faceva la fame. / Fra i vincitori faceva la fame la povera gente ugualmente“.
Poi arriva il colpo di grazia emotivo con il ricordo di Aylan Kurdi, il bambino siriano di tre anni trovato morto sulla spiaggia di Bodrum nel 2015 e diventato un simbolo delle migliaia di persone di ogni età e di varia provenienza affogati nel tentativo di trovare una vita migliore lontano dalla loro terra di provenienza.
Da qui si passa a un ricordo di Piero Ciampi con la canzone Ha tutte le carte in regola intrecciata nel finale con il ritornello senza parole de Il vino, intonato con la collaborazione del pubblico in un rito collettivo che aveva anche un che di catartico. (Per altro, trovo molto bello il fatto che Jennà Romano abbia conosciuto le canzoni di Piero Ciampi attraverso Franco Del Prete, il quale aveva suonato la batteria in un album di Gino Paoli intitolato proprio Con tutte le carte in regola e dedicato interamente al misconosciuto cantautore livornese. E trovo tutto questo molto bello anche perché nel concerto di ieri la batteria la suonava Francesco, il figlio di Franco, in un passaggio di testimone che rende ancora più lunga la vita artistica di FDP e quella di PC).
A seguire due capolavori della canzone popolare che, in qualche modo, ripercorrono due picchi della cinquantennale carriera di Patrizio Trampetti: – La Tammurriata Nera, che Patrizio cantava nella Nuova Compagnia di Canto Popolare impennando la sua voce nella parte più alta e graffiante – Un giorno credi, pietra miliare della musica italiana degli anni ’70, che ha scritto con Edoardo Bennato (che poi la vita di Patrizio si è spesso incrociata con i fratelli Bennato: aveva cominciato in un gruppo rock con il più piccolo, Giorgio Zito, recentemente scomparso; poi, attraverso Eugenio, si era unito agli NCCP di Roberto De Simone & Co. senza mai perdere di vista Edoardo per il quale ha composto i testi di Feste di Piazza e Un giorno credi).
Il concerto si è concluso con una dolente rassegna dei femminicidi che si susseguono nel nostro Paese. Dopodiché, Sandro Ruotolo ha invitato il pubblico a fare un minuto di rumore, in consonanza con quanto richiesto dalla sorella di Giulia Cecchetin, vittima del suo ex fidanzato. Un’eco ai versi della poetessa e attivista peruviana Cristina Torres Cáceres che si concludevano con queste dure parole:
Se domani sono io, se domani non torno, mamma, distruggi tutto. Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima.
Un invito, un urlo, una richiesta a non essere indifferenti che è riecheggiata anche nel bis dedicato ai minorenni rinchiusi nei riformatori di Napoli e dintorni. Incluso 35 bambini-non-più-bambini incarcerati per omicidio.
L’ultimo fendente di uno spettacolo che mi ha emozionato, spinto a riflettere e lasciato pieno di graffi. Ma per niente indifferente.
Versi improvvisi come un ictus o l’inciampo nello sterco di un cane mal accompagnato
Suono sempre fuori tempo Disegno fuori dai margini e scrivo spesso fuori tema
Anche ora che scrivo scrivo fuor di ogni schema come una vaca loca o una pecora scema
E nel mentre che scrivo fuor di schema fuori di tema e fuori dalla grazia di Dio sento che sia fuori di senno pure questo paragonarmi a ignare animalesse in questi versi scarni e di scarso interesse che la mia mente con il corazón intesse come se nulla fosse o fosse stato
Ma sono fuori di me Ed esco ancora più fuori ogni volta che tu non sei qui con me o dentro di me mi muori
Sette di picche e fante di cuori Scacco matto per tutti gli attori Fuori di scena e fuori dai cori
Il video è fuori programma e di tutt’altro argomento, ma mi sembrava del tutto congruente un video che non ci azzeccasse niente.
A volte i cassetti della memoria si aprono da soli e ti fanno trovare cose che non ti aspetti e nemmeno sapevi di sapere; e sono così vasti e profondi, a volte, i cassetti della memoria da nascondere quello che conservano e rivelare all’improvviso ricordi che si erano dimenticati. A volte, poi, uno di questi ricordi prende la forma di un altro cassetto con dentro un sogno irrealizzato in forma di romanzo inconcluso o di pensiero inconcludente. Come questo che è affiorato questa domenica mattina di un inverno poco freddo e molto avanzato.
Ne ho trascorsi già molti di più della metà di quelli che trascorrerò secondo le ultime statistiche. Chiudo il cassetto, lascio scorrere un po’ di acqua e mi guardo allo specchio. Mi vedo meno invecchiato di quanto potessi temere. Ero già vecchio a vent’anni o giù di lì. Quando hai le rughe a vent’anni, a sessanta (o giù di lì) si notano di meno. E resti in attesa di un altro inverno, di un’altra primavera.
Non si chiama più Ministero dell’educazione nazionale come ai tempi di Mussolini. Non si chiama più neanche Ministero della pubblica istruzione o Ministero dell’università e della ricerca o solo Ministero dell’Istruzione (quando si è scorporata l’istruzione dall’università e dalla ricerca). Non è più né MPI né MI né MIUR né MUR. Oggi giustamente abbiamo il MIM, il Ministero dell’istruzione e del Merito, che indica fin dal nome che l’Italia e gli italiani hanno la scuola che meritano.
Che poi quella M finale andrebbe aggiunta anche all’università, alla sanità, alla giustizia, al governo e all’intero parlamento visto che abbiamo anche il parlamento, il governo, la giustizia, la sanità e l’università che meritiamo!
Anzi, a volte penso che meritiamo questo ed altro, per quanto siamo incolti, sciattoni, creduloni, sfasati e sfaldati.
Fatta l’Italia si dovevano fare gli italiani. E in tanti si sono fatti, in verità. Di sostanze varie.
___________
Ma voglio lasciare anche un messaggio positivo che affido a un ricordo che sono andato a controllarmi usando i potenti mezzi della rete. Nel 2012 Margherita Hack – astronoma, astrofisica, simpatica e magnifica divulgatrice scientifica con marcato accento toscano e prima donna italiana a dirigere un osservatorio astronomico – in un’intervista a L’Espresso, in risposta all’aziendalizzazione della scuola promossa dall’allora ministro Profumo, dichiarò, tra le altre cose: “La scuola non è un’impresa, deve formare delle persone, non è solo il luogo dove imparare più o meno bene certi concetti.” “Dovrebbe privilegiare e promuovere quelli che vengono dalle classi più povere, perché è naturale che un ragazzo che nasce in una famiglia di operai, dove vede pochi libri, si trovi più a disagio di uno che nasce in una famiglia di professori. Dovremmo invece creare scuole a tempo pieno in cui si dedica molto tempo proprio ai giovani che vengono dalle classi più disagiate. Premiare il merito è giusto, certo, però bisogna tener conto delle condizioni di partenza.” “Il merito non si può valutare solo in base al rendimento, ma occorre valutarlo tenendo conto del punto di partenza, dall’impegno di una persona nel superare le difficoltà. E le difficoltà sono diverse a seconda dell’ambiente in cui uno è nato. Merito vuol dire impegno, costanza, forza di affrontare le difficoltà.”
Dagli stalli alle stalle e dalle stalle alle stelle.
Sono trascorsi ieri 24 anni dalla morte di Fabrizio De André, ma io voglio parlarne anche oggi.
Era la migliore delle spugne FDA. Bravissimo nello scegliere i modelli musicali da seguire in Italia, in Francia e aldilà dell’Atlantico (Brassens, Brel, Tenco, Dylan, Cohen, Murolo; ma anche stralci di musica classica e popolare dell’Europa e del mondo). Un sottile versificatore capace di assorbire, digerire e trasformare in stupendi testi le sue buone e variegate letture (Villon, Baudelaire, Prévert, i vangeli apocrifi, Le Masters, Bakunin e Malatesta, De Andrade e Mutis). Abile nello scegliersi collaboratori che arricchivano il suo variegato mondo artistico e musicale (Reverberi, Villaggio, Piovani, i New Trolls, Bubola, la PFM, Pagani e Fossati, per esempio; ma pure Mina, Teresa De Sio, Dori Ghezzi, i Tazenda, Francesco Baccini, Ricky Gianco e Max Manfredi). Qualche volta, magari, anche un po’ ladro (come nel caso della musica di Via del Campo, presa in prestito da una canzone di Enzo Jannacci, basata su una musica del 1500, portata in luce da una ricerca di Dario Fo). Tutto macinato nel suo mondo marchiato De André e diffuso attraverso la sua voce chiara, precisa, autorevole e perentoria. Perché, in fondo, non importa da dove si prende, importa dove si porta.
Va bè, mi fermo qua, per il momento. Anche perché di FDA ho già detto e parlato spesso e in diverse salse e situazioni.
Ma sono certo di aver dimenticato qualche fonte di ispirazione e qualche suo importante collaboratore artistico. Magari, se viene in mente a voi qualche altro riferimento, aggiungetelo nei commenti qui sotto, please.
E intanto, se vi va, vedetevi pure questa ventina di secondi di video-commemorazione imbastiti sulle note del basso di Patrick Djivas che introducevano Giugno ’73 nel concerto con la PFM del 1979.
Tua madre ce l’ha molto con me Perché sono sposato e in più canto Però canto bene e non so se tua madre Sia altrettanto capace a vergognarsi di me
[…]
E tu aspetta un amore più fidato Il tuo accendino sai io l’ho già regalato E lo stesso quei due peli d’elefante Mi fermavano il sangue li ho dati a un passante
Poi il resto viene sempre da sé I tuoi “Aiuto” saranno ancora salvati Io mi dico è stato meglio lasciarci Che non esserci mai incontrati
Ho troppo da fare e sempre meno tempo per farlo. A volte mi sento proprio come quella candela del proverbio inglese che sta bruciando da entrambi i lati.
Versi effimeri in versione inglese:
Sometimes my candle burns twice as bright. Sometimes I burn my candle at both ends. Sometimes I remember that a candle candle that burns twice, burns half as long.
And I cry besides an extinguished candle.
In italiano:
A volte la mia candela brucia due volte più intensamente. A volte brucio la mia candela da entrambe le estremità. A volte ricordo che una candela che brucia due volte, brucia per metà del tempo.
E piango accanto a una candela spenta.
Verso una conclusione:
Ma non piango per me. In fondo, sono anche curioso di vedere il finale di partita. Piango per chi resta tra la cera sciolta e la cenere.
“Personale al completo” è il primo album firmato in solitudine da Jennà Romano dopo una decina di dischi realizzati sotto la sigla Letti Sfatti. I Letti Sfatti, a loro volta, sono una formazione nata una trentina di anni anni fa, che nell’ultimo decennio era già diventata un duo, con Mirko Del Gaudio alla batteria; ma un duo aperto a interventi esterni e collaborazioni con artisti del calibro di Patrizio Trampetti, Peppe Lanzetta, Fausto Mesolella, Erri De Luca e Tricarico.
Così, quel titolo, “Personale al completo”, ben illustrato dalla copertina dell’album, gioca con le parole e strizza l’occhio alla solitudine pressoché completa con cui è stato concepito e realizzato tutto questo lavoro: un lavoro completamente personale e personale al completo, insomma, in cui, per lo più, le sue composizioni Jennà se le canta e se le suona da solo. D’altronde, nello scorso millennio per fare un disco composto, suonato, arrangiato, registrato, mixato e masterizzato alla “vecchia maniera” e con la cura che si dedicava alla realizzazione di un album di canzoni, normalmente bisognava coinvolgere sei o sette persone e prima di poter dire che “il personale era al completo“. Jennà, invece, negli anni, nella sua sala di registrazione di periferia, ha imparato tutti i trucchi del mestiere per lavorare in autonomia e senza la fretta che imperversa nella maggior parte delle produzioni musicali odierne. Il suo è un vero e proprio laboratorio artigianale che non disdegna l’uso degli strumenti della contemporaneità. Ma strumenti suonati per davvero, non missati alla men peggio da basi pre-registrate e ritmi e melodie di plastica.
Ma veniamo all’ascolto di queste canzoni di artigianato analogico e digitale.
Comincio la mia rapida analisi da “Perdonati“, uno dei brani più belli, tristi e solitari di tutto il disco.
Una canzone in cui testo e musica sono in perfetto equilibrio e, insieme, comunicano una malinconia ciampiana, esistenziale; la malinconia degli affetti che si trascinano, ma non svaniscono, la cura per l’altra o per l’altro che dura anche quando tutto sembra finito.
È una vita che mi dici pensi troppo alle tue radici il mondo è andato avanti
Sei lì che senti ancora questi dischi col tuo vecchio giradischi resti sempre a casa e non rischi e ti giri e continui a mangiare
lo esco non ho più tempo per spiegarmi […]
E se per una ragione una mattina ti sveglierai e non mi troverai al tuo fianco tu alzati poi vestiti
Quello sarà un giorno da non dimenticare un inizio nuovo una vita da inventare Salutami se vuoi scrivimi qualche volta chiamami riposati riprenditi innamorati ma perdonati.
Jennà, dunque, ha registrato questa intensa, struggente e moderna canzone in completa solitudine: voce, chitarra elettrica, basso, percussioni, sintetizzatori, piano Rhodes, tamburi e il suo (personalissimo) tres elettrificato e modificato. Jenná è un autore, un cantante e un polistrumentista. Non un semplice e classico cantautore
Con la stessa produttiva solitudine sono stati registrati anche:
– “Un puzzle di Picasso“. Un brano che un tempo si sarebbe detto radiofonico, anche per il suo testo immediato, intelligente e intrigante fatto di frasi brevi e pensieri fulminanti.
Ho sbagliato un puzzle in un quadro di Picasso Ma nessuno se ne è accorto Ho sbagliato due note in un assolo Ma nessuno se ne è accorto Ti ho inseguito tutta una vita senza fermarmi e ora Ora ho il fiato corto […] Ho deciso di restare nel posto dove sono nato Ma là fuori c’è scappato il morto
– “Lewandowski e Dostoevskij“, invece, è una canzone che mi ha fatto scoprire che io sono uno che conosce abbastanza Fëdor Dostoevskij, ma fino ad ora non sapeva chi fosse il calciatore polacco Robert Lewandowski.
E mi ritrovo sempre più spesso Con più conoscenti e meno amici Sui treni viaggiano meno libri Sui treni viaggiano meno libri Ma se conosci Lewandowski puoi fare a meno di Dostoevskij
Forse.
La canzone, comunque, è molto bella e si muove sul ritmo cullante e incalzante di un treno. [Un giorno raccoglierò tutte le canzoni che hanno dentro il ritmo del ferro sulle rotaie, da “Chattanooga Choo Choo” a “Take the ‘A’ train”, da “Mystery Pacific” (di Django Reinhardt) a “El tren” (del gruppo rock spagnolo denominato Leño), da “Trenino va” di Pippo Franco a “Ma quando arrivi treno” di Edoardo Bennato…].
– “Vado avanti” è una composizione dedicata a Fausto Mesolella. E lo si sente anche tra le parole e le note.
Io vado avanti con queste dita ballerine Che danzano sulle corde di un mondo senza fine
Il titolo si riferisce a una una frase che Fausto Mesolella ripeteva spesso negli ultimi anni, anche sui social. Una notte, dopo un concerto nel Sud Tirolo, a Bressanone, Jennà, dopo aver suonato e molto parlato insieme con lui, gli mandò questo testo scritto su WhatsApp. A Fausto piacque molto e aveva intenzione di musicarlo. Ma non gli restò abbastanza tempo. Così, ora, JR ci ha messo anche la musica per rendergli un doveroso e affettuoso omaggio e mandare avanti il suo ricordo.
– L’ultimo brano registrato in solitaria è anche la canzone finale dell’album. Si intitola “Spoetizzante” ed è un’autentica chicca, una breve composizione impreziosita da un pregevole assolo di chitarra, che a chiusura del disco vorresti continuare ad ascoltare.
In quattro brani, invece, Jennà ha scelto di avvalersi di un accompagnamento esterno di sola batteria, mettendo ancora una volta lui la voce e tutti gli altri strumenti.
– “Paga più di me“, con Pasquale Marchese, è un brano arrangiato benissimo, con suggestivi intrecci di archi, diamonica, batteria e chitarra elettrica.
– “ll Silenzio“, con Francesco Del Prete, è una bella canzone che è stata utilizzata come colonna sonora del film “Trentatré” di Lorenzo Cammisa, e Lorenzo, a sua volta, ha collaborato alla produzione artistica di “Personale al Completo” in un sinergico scambio creativo.
– “Cose che vanno e che vengono” è un’altra composizione che si avvale dell’accompagnamento di Francesco Del Prete alla batteria. Torna un tema ricorrente nell’album: la vita che scorre fuori dalle nostre case e dalle nostre cose, sempre più immateriali.
Ci sono tante cose che vanno e che vengono E c’è chi torna indietro solo quando ha dimenticato il telefono Forse è ritornato il tempo di stare meno da soli E di scoprire di nuovo che c’è tutto un mondo là fuori
– Con “Per fare canzoni“, Jennà torna ad avvalersi del drumming di Mirko Del Gaudio, per dirci che “per fare canzoni ci vuole tempo e vita sprecata”. Una bella composizione con una citazione “bohémien” e pucciniana che fa:
Chi sei? Sono un poeta. Come vivi? Vivo. Io non direi Io mai vorrei Cercarti un giorno In cui tutto sembra perso
A queste nove canzoni (tutte scritte e composte da Jennà con un piglio cantautorale, ma anche più genuinamente concentrato sulla ricerca del giusto equilibrio sul testo, la musica e gli arrangiamenti strumentali) si aggiungono:
– “Morire per due ore“, brano di apertura dell’album che si avvale della presenza di Antonio Del Gaudio (voce recitante), Domenico Brasiello (trombone) e Vincenzo Gionta (batteria). Un brano immaginifico e retrospettivo che ci immette subito nell’atmosfera personale, riflessiva e anche psichedelica dell’album.
– Infine, “Se resti ancora un po’” è una canzone intima e sentimentale che Jennà canta con Lucia Rango, raffinata e sensibile interprete ciampiana, in un arrangiamento tangheggiante che sento anche ballabile. Me la immagino risuonare in una milonga di Buenos Aires, di Barcellona, Budapest, Bali o Bari. Ma pure in una sala da ballo di Grumo Nevano (paese d’origine di Jennà) o di Grumo Appula, dove è nato Michele Fazio, che in questo brano suona il piano. Con loro, torna Vincenzo Gionta alla batteria. In ogni modo, “Se resti ancora un po’” è una canzone avvolgente e coinvolgente, riflessiva e romantica. Interpretata benissimo da Lucia Rango in una specie di recitar cantando che si adagia su un prezioso arrangiamento per piano, archi e batteria. In chiusura, un bell’assolo di Jennà alla chitarra elettrica. Un altro brano che dovete assolutamente ascoltare e gustare a sorsi piccoli insieme a tutto l’album. Un disco che merita tutto il vostro acquisto e il vostro ascolto attento. Un disco realizzato nei laboratori di periferia a Nord di Napoli in cui Jenna continua a produrre musica con una cura e un’attenzione che vanno in direzione ostinata e contraria rispetto alle tendenze di un mercato frettoloso, sciatto e distratto.
Mannaggia la miseria! Quella materiale e quella culturale.
“Sempre le stesse cose viste sotto mille angoli diversi.”
Mentre ci sbarazziamo del Natale, delle sue luci e dei suoi zuccheri in eccesso, metto in file i miei propositi per il nuovo anno traendoli da quelli degli anni passati.
Più sole. Più luce. Mehr Licht. Più carne. Più sangue. Più anima. Succhiare il senso delle cose fino a stringere i denti sul nocciolo. Attraversare gli oceani per conoscere e conoscersi. Vagare senza mete, senza mente e senza mentire (mente chi è schiavo o chi ha paura di lasciarsi andare).
Cambiare i parati alle pareti. Tenere aperte le porte e l’immaginazione spalancata. Attraversare le contraddizioni senza paura di farsi male (ma facendo massima attenzione a non fare del male a chi ci attraversa la strada).
Errare, errare, errare come i cavalieri erranti alla ricerca del senso, sperimentare, provare nuove esperienze, interessarsi al processo più che alla meta, navigare senza rotta e senza dare retta a chi ci mette fretta e finge d’aver capito, navigare navigare navegar è preciso viver não è preciso, navigare navigare sapendo che il mare è di chi lo sa amare.
[Peccato solo che sono anni e anni che ripeto con poche variazioni i medesimi New Year’s Requirements e intorno a me detonano sempre le stesse bombe che rimbombano nei medesimi vuoti. A perdere.]
Non trascurarsi e non trascurare la realtà che ci circonda.
Concedersi pause e lunghi respiri.
Distogliere gli occhi dagli schermi.
Dare e ricevere affetti, più che “like” e cuoricini.
Distogliere gli occhi dagli schermi e guardarsi intorno.
Impegnarsi a cambiare le cose che non vanno dentro e fuori di noi, perché è facendo che facciamo noi stessi e il mondo che ci gira intorno.
Smetterla una buona volta di formulare liste di propositi per il nuovo anno, come se quel cambio di data sul calendario fosse qualcosa di più che un cambio di data sul calendario.
Alternative soundtrack: “Il tema” di Francesco Guccini. Da “L’isola non trovata” (1970)
P.s. Altri propositi nel corso del tempo:
2019: perdere 5 chili 2020: perdere 7 chili 2021: perdere 10 chili 2022: perdere 13 chili 2023: perdere 15 chili 2024: lottare contro gli schemi di bellezza imposti da questa società capitalistica, materialista e oppressiva.
Questa la trovo sempre molto divertente, ma non è mia. L’ho tradotta e adattata qualche anno fa da un sito spagnolo. Era firmata da tale Perrito Vale V Word, che ringrazio da lontano. Anche se magari pure lui l’aveva presa da qualche altra parte.