L’inframondo di internet è così vasto e così zeppo di dati, informazioni e notizie più o meno vere e più o meno false che, se ti metti a cercare, trovi conferma a qualunque tua ipotesi, anche la più strampalata, fantasiosa o creativa. Se mi sveglio un mattino e penso una cosa tipo: “Ma vuoi vedere che non ci sono mai andati sulla luna?”, oppure “Secondo me i francesi (o i repubblicani o Soros) stavano dietro la caduta delle torri gemelle?”, o anche “Ma non è che mi fa male la testa perché bevo troppi cappuccini?”…, è molto probabile che io trovi conferma alle mie ipotesi in qualcun altro, magari pure un professorino supplente in una scuola media di Harvard, che ha pensato la stessa cosa e ha aggiunto dati, sempre scovati in internet, e raccolti dai siti di un radiologo radiato dall’albo e da un famoso nerd, youtuber da 6mila follower, che da 6 anni non esce di casa. Nella psicologia applicata si chiama “bias di conferma”, e a me pare una delle grandi insidie dei nostri tempi.
E poi anche della nostra lettura delle statistiche bisogna fidarsi solo fino a un certo punto. “Torture numbers, and they’ll confess to anything.” (Gregg Easterbrook) I numeri, sono fatti così, sembrano certi e del tutto affidabili, ma sotto tortura sono disposti a dirci qualsiasi cosa vogliamo che ci dicano.
Insomma, impariamo ad approcciare le informazioni (ed anche i dati quantitativi) con senso critico; impariamo a dubitare di tutto, anche dei nostri preconcetti, e poi cominciamo ad analizzare le fonti, l’autorità degli emittenti dei dati e delle informazioni, i loro fini, lo stile comunicativo, i mezzi e il linguaggio che usano; senza partire neanche dal preconcetto che la controinformazione sia sempre più vera, giusta e onesta dell’informazione.
Io, personalmente, comincio a sospettare soprattutto quando mi trovo di fronte qualcuno che usa un linguaggio troppo assertivo e pretende di essere l’unico detentore della verità. Poi se mi trattano come un bambino e cercano di far valere la propria autorità per mettermi soggezione o instillarmi paura, mi girano proprio le scatole e debbo fare appello a tutta la mia buona educazione e a tutto il mio senso civico per non mandare a fare in culo il mio interlocutore, amico, amante, conoscente, pari grado, sottoposto, governatore o presidente che sia.
La verità è che siamo subissati da fandonie, comunicazioni autoritarie, ricerche spasmodiche di capri espiatorii, interpretazioni farlocche dei dati, fake news, bufale, letture parziali della realtà.
Ma a pensarci bene non c’è niente di nuovo, sotto il sole. In tempi di crisi, vengono fuori le voci forti, i rumors, le delazioni, le calunnie, gli stregoni, le streghe, le credenze e i cacciatori di streghe e di stregoni.
Solo che non c’è mai stato un amplificatore di cazzate così potente come la grande rete.
(Un post in cui do i numeri e concludo in canzone.)
I punti di vista sono punti di vista, è vero, però in quest’immagine solo uno dei due ha ragione. Quello o è un 9 o un 6. Sì, certo, se guardiamo da un lato, vediamo un nove; se guardiamo dal lato opposto, un sei; e poi… se ci giriamo intorno in lungo e in largo, arriviamo al momento fondamentale del dubbio. Ma dobbiamo provare ad andare oltre. Oltre ogni ragionevole dubbio, perfino…
Un proverbio africano dice: esiste la mia verità, esiste la tua verità ed esiste la verità.
Lì a terra qualcuno ha disegnato o un 6 o un 9; oppure ha voluto coscientemente confonderci le idee. Bisognerebbe risalire alle fonti, allontanarsi per orientarsi e vedere se ci sono altri punti di riferimento o tracce da seguire. Vedere se vicino ci sono altri numeri che possano aiutarci ad intendere. Magari ci sarebbe di aiuto scoprire chi ha scritto quel segno a terra e perché. Parlare con chi era lì vicino quando qualcuno ha vergato quella cifra e ricostruire in che posizione si trovava. Insomma, bisogna informarsi e studiare e non farsi prendere dall’ansia di avere ragione. Bisogna impegnarsi a non cercare conferme ai nostri pregiudizi (la maledetta distorsione cognitiva tanto rafforzata dalle ricerche in internet realizzate senza esercizio di senso critico). Bisogna vagliare anche le possibilità più eccentriche, se è il caso (“Chi lo ha detto che quello è un numero e non la rappresentazione di un serpente che cerca di mordersi la coda, oppure una lettera dell’alfabeto…, l’inizio di un nodo…?); e bisogna essere pronti a scartarle, tutte quelle ipotesi fantasiose, se si vede che non portano da nessuna parte. Bisogna anche chiedere in giro e mostrarsi pronti a confrontare a mente aperta le nostre ipotesi con quelle degli altri. Poi non è detto che si riesca sempre a raggiungere la verità. Quello che importa è il cammino.
La verità, come l’utopia di Eduardo Galeano, è là nell’orizzonte. “Mi avvicino di due passi e lei si distanzia di due passi. Cammino 10 passi e l’orizzonte corre 10 passi. Per tanto che cammini non la raggiungerò mai.” A che serve la verità? “A che serve l’utopia?” Servono per questo: “perché io non smetta mai di camminare.“ E se il percorso si fa in buona compagnia è più piacevole la ricerca, e insieme si costruisce un nuovo cammino che vale la pena proseguire.
Magari, strada facendo, possiamo mettere un 9 accanto al 6 e fare un 69, la posizione del Congresso del Corvo, e trarne godimento e piacere. In tutti i sensi. Ma forse ora sto un po’ deviando dal tema originale.
Provo a fermarmi qua. Se non altro vi ho dato dei numeri, da giocare su tutte le ruote ignorando quanto sia stupido farsi ingannare dalle trappole del calcolo probabilistico.
Va be’, o sei o non sei, questo è il vero dilemma. E si apre un nuovo portone. Ma lo lascio socchiuso (o “entreabierto“) e mi fermo veramente qua…, a pensare che sarebbe bastato mettere una lineetta sotto il numero, come nei cerchietti della tombola napoletana!
Now, if a 6 turned out to be 9 I don’t mind, I don’t mind If all the hippies cut off all their hair I don’t care, I don’t care Dig, cause I got my own world to live through And I ain’t going to copy you
Ora, se il 6 è diventato un 9 Non me ne importa, non me ne importa Se tutti gli hippy tagliano a zero i loro capelli Non è affar mio, non è affar mio Scava, che io ho il mio mondo da vivere E non copierò di certo il tuo
Il brano è di Jimi Hendrix, la traduzione è mia. Qui è cantato e ricantato da Maria Pia De Vito. La versione originale viene da “Axis: Bold as Love“, un album del 1967. Quasi l’anno in cui sono nato io.
L’essere umano ingabbia il tempo negli orologi e nei calendari, ma la natura governa le albe ed i temporali e se ne strafrega dei numeri, delle lettere e dei sillabari.
Fa il suo corso la natura, e noi ne abbiamo paura, perché siamo incapaci di immergerci nel flusso. Cerchiamo, invece, di governare l’ingovernabile e gua(r)darlo dal di fuori.
In verità, non manda neanche segnali, la natura; ma noi dobbiamo saperli cogliere ugualmente, almeno finché non saremo capaci di essere parte integrante della corrente e del flusso.
Divagazioni critiche da Papa Francesco a Petrolini Ettore. Una cosa di sinistra.
Era di marzo. Cominciavano le chiusure e la diffusione delle paure. Si era nel pieno dell’infodemia e della pandemia. Il papa ci ricordò che siamo tutti sulla stessa barca, “fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda”. Nel mio piccolo, a quei tempi, qualcosa del genere stavo già provando a dirla anch’io. Provo a riproporvela, provo a ripeterla…
Se dobbiamo sacrificarci, dobbiamo sacrificarci tutti. Ad ognuno secondo il suo portafogli e le sue capacità. E penso che sia anche il caso di rivedere l’ordine di priorità delle spese pubbliche.
Insomma, qualora si realizzasse una seria patrimoniale e un taglio alle spese militari io, da statale, metterei la firma per aggiungere un fondo di mutuo soccorso di un paio d’anni da prelevare dal mio stipendio, al fine di dare un concreto sostegno alle categorie più danneggiate dalle chiusure, dalle limitazioni, dagli isolamenti e dai coprifuoco. Ma la vedo difficile. Sarebbero misure autenticamente di sinistra. A limite verrà realizzata in modo coattivo solo la terza che ho detto. Pagheremo solo e sempre noi delle classi medie insieme con coloro che hanno sempre pagato…
Lo diceva pure un secolo fa Ettore Petrolini: “Bisogna prendere il denaro dove si trova: presso i poveri. Hanno poco, ma sono tanti.”
La nostra terra è bella. Tutte venene cca’. Il sole, il mare, le femmine sciantose, la pelle degli uomini scolpita dalla fatica e dal sole. La nostra terra è bella, è bellissima, la nostra terra… Biate a cchi sa piglia, Michelemma’ Michelemma’. Ci sono venuti in tanti, da tante parti, nella nostra bella terra bella bella bella. Chi pe’ la cimma e chi, Michelemma’, Michelemma’. Hanno intrallazzato, ci hanno dominato, ci hanno governato, hanno mischiato il loro sangue con il nostro. Chi pe’ la cimma e chi, pe’ lo streppone, pe’ lo streppone. La nostra terra è bella, bellissima, meravigliosa, ed è diventata ogni giorno più popolosa. Tutte veneno cca’, Michelemma’, Michelemma’.
La nostra terra è bella bella bella, ma sente sempre addosso il fiato di un re, di un viceré, di un dominatore, un padrone. La nostra terra è bella, ma chi la vive, la vive da suddito e chiede ogni giorno il sussidio dal vassallo, dal barone o dal valvassore. La nostra terra è bella, ma non è mai uscita dallo stato di minorità di cui è essa stessa colpevole.
Maistà, chi t’ha traduto? Chistu stommaco chi ha avuto? E signure a cavaliere te vulevene priggiuniere!
Con quel 1799 incompiuto, la tribù partenopea ha saltato l’Illuminismo.
Sona sona, sona Carmagnola. Sona li cunsiglia, viva ‘o Rre cu la famiglia!
quanti sciacalli quanti avvoltoi quanti succhiasangue a tradimento si avventano – su questo carcame su questa carogna su questa bestia bastonata e moribonda – con penne in mano e dente avvelenato per distogliere l’attenzione dal male che si rinnova uguale e moltiplicato e convincerci che la colpa è di chi protesta ed è protestato
(come se da una parte ci fosse il torto e dall’altra la regione)
Pasquale Di Resta, a.k.a. Diresta, è un musicista colto e raffinato che spazia dalla musica folk-rock europea e americana (in senso lato) al jazz newyorkese e al tropicalismo brasiliano; il tutto tenendo i piedi ben piantati nella musica dello scorso millennio e lo sguardo rivolto verso il futuro.
Il suo nuovo doppio album si muove esattamente su questi versanti spazio-temporali, in bilico tra la musica che c’era e la musica che non c’è ancora ma potrebbe entrare in ogni casa e in ogni paese, se solo si diffondessero costumi e ambienti musicali diversi da quelli imposti dal mercato asfittico dei nostri giorni.
A pensarci bene, non è un caso che Pasquale abbia scelto di pubblicare il suo album in vinile in una tiratura limitata di 300 copie che lo relegano nella nicchia dei prodotti scarsi e preziosi della Kulturindustrie, in controtendenza con l’epoca attuale della riproducibilità tecnica e della comunicazione liquida che non ha più bisogno del supporto di alcun oggetto fisico, salvo un dispositivo elettronico creato apposta per assorbire tutta la nostra attenzione e il nostro tempo.
La sua scelta è stata, invece, quella di realizzare 300 opere d’arte che non avrebbero potuto avere la stessa resa e la medesima “aura” neanche nella forma miniaturizzata del 12cm x 12cm di un CD.
Per esprimere il disagio per un presente distratto e l’anelito verso una musica e una vita più “naturale” c’era bisogno del vecchio “elleppì” in vinile, e i brani non potevano limitarsi programmaticamente ai presunti due o tre minuti di attenzione dell’ascoltatore medio delle radio, del web e delle radio via web.
Chiarisco che personalmente non sono un nostalgico del vinile. Tutt’altro. Erano anni che non sentivo più la puntina gracchiare sulla superficie nera dei miei dischi impolverati. Però lo ricordo bene il piacere di entrare in un negozio di dischi e cassette (un tempo ce n’erano tanti in ogni angolo del Paese) per perdersi tra le copertine, scegliere un 33 giri, andare a casa e sfogliare l’album prima ancora di mettersi all’ascolto; e poi continuare a leggere e guardare anche durante e dopo ogni successivo giro del piatto (senza rovinarsi la vista sugli spazi angusti di un disco compatto o mettersi a scorrere quattro notizie in un sito dedicato, su un banner pubblicitario o sotto un video di Youtube).
Dedicare attenzione alla musica, rileggere e rimuginare i testi, ammirare la copertina e la grafica utilizzata, vedere chi suona cosa, relazionare l’opera al corpus dell’autore, seguire l’ordine delle composizioni scelto dall’artista, cercare un nesso tra i brani, ripulire il vinile dalla polvere e metterlo sul piatto….
Piaceri estetici e sensoriali che stiamo perdendo e che possono essere rivissuti attraverso il vento post-folk di questo album.
“Diresta/Folkwind” arriva nelle nostre mani in una ricca confezione impreziosita da cinque acquerelli di grande formato realizzati da Gianluca Varone e un ricco booklet di sedici pagine che rievoca la grafica post-vittoriana di tanti album di progressive rock degli anni ‘70, con tanto di indicazioni degli strumenti usati e degli strumentisti che li usano, dei testi delle canzoni (tutte in inglese e tradotte in italiano dallo stesso Pasquale Di Resta) e graziose illustrazioni in stile Liberty. Tutte cose che non passano per Youtube, iTunes o Spotify.
Ma “Diresta/Folkwind” è soprattutto un album strumentale suonato senza infingimenti e loop preregistrati, un album dove anche le canzoni si dilatano in arrangiamenti che lasciano uno spazio preponderante alla musica e alla musicalità della parola.
L’album si apre con un’intro composta da Diresta e dal percussionista Antonio Perillo che, in coda, si trasforma in un brano del grande Ennio Morricone, quel “Dopo l’esplosione” che era una delle colonne portanti più evocative di “Giù la Testa”.
Trasportati dal soffio del vento, sulle note percosse di una kalimba e un glockenspiel e tra le corde di chitarre distorte o suonate con l’archetto siamo subito trasportati nelle atmosfere e nelle suggestioni di un viaggio sonoro che si conclude in una vecchia America vista con gli occhi di due italiani di Sessa Aurunca, una reinvenzione del folklore che è una delle cifre caratterizzanti dell’album (quasi integralmente suonato dallo stesso Diresta e da Antonio Perillo che, di solco in solco, mostrano tutto il range delle loro qualità di polistrumentisti).
Il brano seguente è una canzone postfolk di Pasquale Di Resta che rappresenta uno stato di estasi panistica di fronte all’Oceano (il titolo è appunto “Ocean”). La composizione si apre con un arpeggio di chitarra accompagnato da un fischio che starebbe benissimo in una colonna sonora del maestro Morricone e si chiude con una curiosa alternanza di versi italiani e inglesi. Oltre a cantare e fischiare, Diresta suona nel brano un bouzouki e diversi tipi di chitarre acustiche ed elettriche, mentre Perillo tesse un delicato tappeto percussivo con piatti e cajón.
Il terzo brano è una bellissima versione della ballata tradizionale inglese “Scarborough Fair” arrangiata da Diresta e Perillo in un avvolgente manto psichedelico istoriato con grappoli di note di chitarra elettrica e postmoderne chitarre synth. La versione cantata da Diresta è quella del 1965 del folk singer inglese Martin Carthy, da cui presero spunto anche Simon & Garfunkel per la loro celebre rielaborazione del ‘66. Un incanto. Uno di quei brani che appena si concludono ti fanno venire voglia di alzarti dalla poltrona, riportare indietro la puntina e riascoltare tutti i 6 minuti e 56 secondi della ballata.
“Morning Sweeter” è un inno alla giovinezza con un testo tratto dal corpus poetico del grande William Blake (1757-1827), il più (post)moderno dei poeti romantici inglesi, un visionario che la sapeva lunga su quello che sarebbe accaduto all’uomo dopo le cosiddette rivoluzioni industriali.
Segue un breve e intenso intermezzo musicale, “Funeral Party”, suonato dal solo Diresta con una chitarra elettrica che sembra rubata a Ry Cooder. In coda, quattro note di armonica (da “C’era una volta il West”) suonate da Franco de Gemini con sottofondo ventoso (il tessuto connettivo del primo vinile di Diresta/FolkWIND) ci riportano all’amato Morricone.
Si conclude così il Wind Album e siamo pronti per cambiare il vinile sul piatto e passare al secondo disco, il Train Album, che si apre con “Feed your Head”, una rielaborazione di “White Rabbit”. Il manifesto del rock psichedelico dei Jefferson Airplane viene riletto qui in versione strumentale, fatto salvo per il distico conclusivo:
Remember what the dormouse said:
“Feed your head, feed your head!”
Ed ecco affiorare un’altra chiave di lettura del doppio album di Pasquale Di Resta: “Nutri la tua mente, nutri la tua mente!”, contro l’alienazione e il conformismo del presente, aggiungo io.
L’arrangiamento di Perillo & Diresta con percussioni indiane, un “dan moi” vietnamita (una sorta di scacciapensieri orientale) e una chitarra distorta con riverberi ed effetti wah wah accentua l’effetto acido del brano senza perdere l’andamento ritmico spagnoleggiante originale, sospeso tra il Bolero di Ravel e gli Sketches spagnoli di Miles Davis & Gil Evans.
“Moonchild”, la celebre ballata che era la penultima traccia di “In the Court of the Crimson King” (1969), viene rivisitata in un delicato arrangiamento che accentua le caratteristiche evocative e sognanti del brano ed è impreziosita da un lungo assolo di chitarra elettrica.
Nello stesso spirito acido, cullante e onirico, ascoltiamo di seguito una meravigliosa versione strumentale di “Valentinsong”, morbida ballad dei Landberk (band svedese di rock progressive attiva negli anni ‘90, ma molto legata allo spirito progressive degli anni 70-80 à la King Crimson). La sapiente unione di ritmica acustica e chitarra elettrica mi fanno ripensare ancora una volta al maestro Morricone, che sento essere una sorta di nume tutelare dell’album, anche in questo disco più TRAINante che WINDy.
In “Jerusalem/Lines”, unica traccia dell’album in cui non suona Perillo, c’è Paolo Scotti alla batteria, sue le ariose rotondità nell’accompagnare la seconda parte della composizione. Il brano mette insieme due capisaldi della poesia romantica inglese: “Jerusalem” di William Blake (musicata da Hubert Parry nel 1916) e “Lines Written In Early Spring” di William Wordsworth (con musica originale di Pasquale Di Resta).
È il brano più cantato del doppio elleppì, un manifesto di battaglia per ricostruire una Gerusalemme “green and pleasant” e priva di oscuri e satanici mulini, un inno romantico alla congiunzione dell’uomo con la Natura e uno squarcio di dolore per “quello che l’uomo ha fatto all’uomo”.
L’ultimo brano è una ripresa di “Funeral Party” (l’intermezzo che concludeva il lato B del primo disco) riarrangiato con tonalità jazzy e scherzose. Un delizioso divertissement in cui Diresta e Perillo, alternandosi ad ukulele, banjo, kazoo, flicorno baritono, piatti e grancassa, dopo tanto romantico Sehnsucht, tanto struggimento, tanta nostalgia, tanta gioia interiore e tanta meditazione sulla natura, sul tempo e sui tempi, ci lasciano con il sorriso sghembo di questa scanzonata funeral band fatta di due musicisti che sembrano tanti e che si allontanano in fila indiana verso nuovi lidi e nuove avventure umane e musicali.