Ma certo che la sicurezza è un tema di sinistra: sicurezza sui posti di lavoro, soprattutto.
Un’emergenza senza fine. Mille morti sul lavoro in una decina di mesi. Mille morti contati, ma per certo ce ne sono tanti altri non contati e irracontati. Il costo di una presunta ripresa che ti fa continuare a lavorare fino a stramazzare al suolo e dopo aver abbassato tutti i livelli di protezione dagli incidenti e dagli accidenti sul lavoro.
Ma certo che la sicurezza è un tema di sinistra: sicurezza della qualità dell’aria che respiriamo e del cibo che mangiamo; sicurezza dei mezzi di trasporto, delle strade e delle autostrade; sicurezza della veridicità delle informazioni diffuse dai media analogici e digitali; sicurezza nell’equa ripartizione dei beni e delle ricchezze; sicurezza nella tutela dei diritti e nell’esecuzione dei doveri per tutti, da qualsiasi posto vengano o provengano; sicurezza delle infrastrutture e delle costruzioni private e pubbliche e, in fondo a tutto, sicurezza delle pene per i potenti che delinquono e trovano sempre la scappatoia per sottolineare che la legge è uguale per tutti, ma la sua applicazione varia rispetto all’avvocato che sei capace di pagare e al prezzo del giudice da corrompere o del legislatore da convincere a far passare la norma applicativa che più ti conviene.
La sicurezza è un tema di sinistra, ma non è una questione di coprifuoco, di cani poliziotto, di certificazioni esibite e di stelle in petto.
Sconfiggendo temporaneamente la pigrizia, ho continuato a fare ricerche sulla citazione attribuita a Carducci che recita:
“Colui che potendo dire una cosa in dieci parole ne impiega dodici, io lo ritengo capace delle peggiori azioni.”
Non trovando risposte esaurienti nella rete web italiana, ho deciso di tradurre la frase e provare a cercare possibili autori della citazione in altre lingue. Al secondo o terzo tentativo, ho trovato questo curioso stralcio da un commento su Facebook in cui tale Olver Cadavid attribuisce dalla lontana Colombia la citazione “El que pueda decir una cosa en diez palabras, pero emplea doce, lo considero capaz de las peores acciones” niente di meno che a Mussolini. Nello stesso commento, però, Olver Cadavid aggiunge anche “apropiándose de un pensamiento de Giosuè Carducci“. E torniamo così al punto di partenza.
Di primo acchito ho pensato che la fonte dell’articolo colombiano potesse essere sempre il romanzo di Pitigrilli di cui dicevo ieri. Poi ho deciso di continuare a cercare in rete con una nuova query in cui associavo il virgolettato in lingua italiana con il nome di Mussolini. Sorpresa. Viene fuori un articolo antirenziano pubblicato sul Giornale che fu di Indro Montanelli nel 2016.
L’articolo è a firma di Stefano Lorenzetto. Caspita, penso, Stefano Lorenzetto, l’autore di un saggetto (che ho letto) e che si chiama, udite udite, “Chi (non) l’ha detto. Dizionario delle citazioni sbagliate” (sic!). A questo punto, incuriosito dalla somiglianza tra i due testi, torno a leggere integralmente il post spagnolo di Olver Cadavid e scopro che il Lorenzetto vi compare perfino citato.
Sopraffatto dalla pigrizia, sospendo qui le mie ricerche, ma resto col sospetto che la bella frase sulle parole superflue sia proprio del Lorenzetto, di Segre/Pitigrilli o di qualcun altro. Magari di Attila. Oppure di Erode. Il Grande.
Vorrei scrivere un saggio sulla pigrizia e sulla crescente distrazione che ci fa rimbalzare come una pallina impazzita da un post all’altro senza soffermare su nulla la nostra attenzione; ma non ho voglia di organizzare i miei pensieri, mettermi a scrivere e togliere dal mio testo le parole superflue e i passaggi inutili.
“Colui che potendo dire una cosa in dieci parole ne impiega dodici, io lo ritengo capace delle peggiori azioni.”*
Senza contare che, mentre penso al mio possibile testo, già mi viene da parlare d’altro che mi pare più interessante per me e per voi. Anche perché lo so che nemmeno voi avete voglia di leggere e volete solo saltare da un post(o) all’altro e di tanto in tanto fermarvi, senza commento, a cliccare su un pollicione, una lacrima, un cuore, un cachinno, una bocca spalancata, un abbraccio o una faccia arancione rósa dalla rabbia.
[…]
Che luna, che luna, che luna lucente. E chi vo’ fa’ niente? E chi po’ fa’ niente?
[…]
Che bella canzone tenevo p’ ‘e mmane. Mo veco, dimane, si ‘a pòzzo ferní.**
* Per quelli meno distratti e più pazienti, quelli che sono arrivati fin qui e hanno perfino seguito le stelline delle note, aggiungo che la prima citazione è attribuita a Giosuè Carducci, ma non so dove e quando l’abbia détta o scritta; l’unico riferimento che trovo in rete è che è stata riportata da Pitigrilli (pseudonimo di Dino Segre) nel romanzo “Sette delitti“, edito da Sonzogno nel 1971.
** La seconda citazione, invece, viene da “Esta’“capolavoro del 1913 di Libero Bovio musicato da Nicola Valente e più conosciuto col titolo di “Nun voglio fa’ niente“. Una sessantina di anni più tardi, Enzo del Re darà un valore politico a questa pigrizia in un brano che si intitolava “Tengo ‘na voglia ‘e fa niente” ed era il lato B di “Lavorare con lentezza“. Andatevele ad ascoltare che io non ho voglia di mettere i link alle versioni di Elvira Donnarumma, Massimo Ranieri, Tonino Apicella, Peppe Servillo e Daniele Sepe di questi due brani, che a qualcuno avranno di certo fatto venire in mente il Pigro di Ivan Graziani che sapeva “citare i classici a memoria”, ma non distingueva “il ramo da una foglia / Il ramo da una foglia”. Oppure avranno sentito risuonare in mente il Fannullone di De Andrè che, “senza pretesa di voler strafare”, dormiva “al giorno quattordici ore”.
Vabbuò, s’è fatta ‘na cert’ora. Me vaco a cucca’!
“Ma ‘a cammera ‘e lietto Sta troppo luntano… …va mmeglio ‘o ddivano! …’nu passo e sto llà!“
finché di analogico restarono solo i nostri corpi seduti su un trono virtuale in cui ci sentivamo sovrani del mondo e padroni della nostra navigazione tra le acque di un mare che ci disperdeva e ci consolava con lo sciabordio delle sue onde digitali
solo quel mare ci restava per unirci e per separarci
Con la prima rivoluzione industriale i treni a vapore sostituirono i cavalli.
Con la seconda, le macchine tolsero agli uomini il lavoro, il pane fatto in casa ed i calli.
Con la terza (quella magnifica, progressiva e globale), il resto degli u-mani del fronte occidentale fu sostituito dal basso costo dei pakistani, degli indiani e dei musi gialli.
Oggi, un algoritmo sostituisce pure i colletti bianchi, i guardiani della soglia, i valvassori e i vassalli,
Mentre ad ogni sovvertimento continuano ad arricchirsi pescecani, porci senza ali e sciacalli.
Domani imperverserà il metaverso, ma il risultato non sarà per nulla diverso: per chi ha cibo scarso pure il prossimo sommovimento si farà avverso, menzognero e perverso.
Verranno a sfruttarci fin dentro le nostre case, verranno a stanarci fin dentro le nostre teste, e non avrà più limiti o confini l’invasione delle nostre vite, l’erosione del nostro tempo.
Piove sui monti e sui fiumi Sul mare e sulla terra Piove Piove sugli alberi e sulla scogliera Piove di giorno e piove di sera Piove Piove e Piove sui grattacieli e sulle rovine Piove sulle fabbriche e nelle latrine Piove
Piove sempre Piove sulle cose sulle chiese e sulle case Piove sui giovani e sui vecchi Piove nelle dighe e dentro ai secchi Piove sui giusti Piove sui poveri E sui poveri piove Piove sempre Piove sempre e sempre piove
I ricchi hanno la pelliccia sulla pellaccia gli ombrelli nella limousine un tetto in ogni casa e un riparo per ogni cosa
Piove piove Piove pio bove e io ho una crepa sul tetto che sta bagnando tutto quello che ho scritto e cancellando quello che ho detto
Piove maremma maiala Piove dio bove E io non so più cosa né dove
in nessun posto mi sento al riparo e al sicuro come tra le celle di un foglio di calcolo dove i conti tornano le parole si cercano e si ritrovano le funzioni funzionano e la logica trova una sua applicata concretezza senza doppiezze scaltrezze e infingimenti
Tra Marziale, Plutarco, Caetano Veloso e Wikipedia
“Non est vivere, sed valere vita est“. Marziale, Epigrammi, libro VI, 70:15
E che vuol dire?
Breve nota linguistica a mo’ di premessa. “Valere” in latino significa tanto “essere forte” e “godere di buona salute” quanto “essere valido, avere valore”. Il che, come capita spesso negli epigrammi, rende difficile stabilire il senso di quella sintetica sequela di parole che forse erano state scelte così proprio per essere polisemiche e offrire uno spettro ampio e sfuggente di significati.
Dunque, secondo l’interpretazione corrente (e salutista), Marziale ci dice che “La vita non è vivere (tirare a campare), ma star bene (godere di buona salute)”. Io, però, preferisco pensare che il buon Marziale voglia suggerirci (vieppiù) che “non si tratta semplicemente di vivere la vita, ma di vivere una vita degna di essere vissuta”. Con il che faremmo il paio con il “Navigare necesse est, vivere non est necesse” che è stato cantato da Caetano Veloso (“navegar è preciso; viver não è preciso”), che lo ha ripreso da Pessoa, il quale tradusse Plutarco, che citava Gneo Pompeo (“πλεῖν ἀνάγκη, ζῆν οὐκ ἀνάγκη.”) che al mercato questa frase ascoltò, per poi riproporla ai suoi marinai e incitarli all’avventura e perseguire virtute e canoscenza tra le acque del Mare Nostrum.
Ecchecacchio, compagni naviganti, pure voi fatti non foste per tirare a campare come bruti, ma per cercar su Wikipedia dati, note, fatti, spigolature e date! Io lo faccio sovente ed anche ora l’ho fatto, ché mica mi ricordo a memoria cataloghi di citazioni greche e latine. Magari quelle portoghesi, sì, soprattutto nel caso specifico che avevo già citato per la prima volta in rete nel secolo scorso del passato millennio, in una paginetta del primo sito che ho realizzato in html puro nel 1999, quando decisi di mettermi in rete per ricordare mio padre e il suo testamento spirituale
Chiaramente non sono sicuro che Marziale e Plutarco volessero dire proprio questo che gli ho fatto dire. Io, però, questo volevo dire. E ne approfitto per farvi sentire “Os argonautas” e quel suo finale sospeso in cui Caetano sostiene:
“Navegar è preciso; viver…” “È necessario navigare; vivere…”
Ecco, sì, in quanto a vivere fate un po’ voi; cu ‘na bbona salute; che poi forse, a pensarci bene proprio a questo voleva arrivare il poeta epigrammatico mezzo spagnolo e mezzo romano: “Guagliu’ cca nun se tratta ‘e campa pe’ campa, ma ‘i campa’ bbuone. Cu’ ‘na bbona salute e ‘o piatto ‘a tavola che aspetta a ‘tte pe’ essere strafugate“.
Va be’, mi sono un po’ allargato e ho tradotto come mi faceva più comodo. Ma i classici a questo servono. A dirci più di quello che dicono e a fare luce nel buio per rischiarirci il cammino. Pe’ mill’anne e pure ‘i cchiu’, in saecula saeculorum, in ‘taliano o in latinorum. As you like it.
P.s. Che poi, in mezzo a tante chiacchiere, a parer mio, la cosa più bella di questo post è l’illustrazione, con quel veliero sospeso nel nulla, in un paesaggio senza orizzonte né demarcazione alcuna tra il cielo e il mare. Come se volesse dirci che “la vita non è vivere, ma navigare in un mare privo di senso”, ma non esente da fascino. Soprattutto nello sguardo di chi lo accarezza con gli occhi.
Islanda: il videomessaggio turistico che mette Zuckerberg alla berlina
Lasciando i social ci resta più tempo per riflettere e pensare.
…
È per questo che non vado via da questa rete.
A proposito, lo avete visto già lo spot islandese che fa il (meta-)verso a Zuckerberg e ci mostra un paese reale che si può vivere e toccare senza indossare un ridicolo casco immersivo?
Un Paese dove l’acqua è… bagnata, i cavalli cavalcabili e i geyser enormi ed osservabili ad occhio nudo (anche se a una certa distanza di sicurezza); un Paese dove perfino gli umani sono autentici e puoi parlare con loro immerso nell’acqua dello stesso ruscello, lago, fiume o mare; un Paese, anche, in cui le rocce vulcaniche si possono accarezzare, svariate e favolose cascate possono essere viste da vicino, le porte si aprono con una certa difficoltà e il muschio deve essere trattato con delicatezza (anche quando è a portata di mano). Una autentica meraviglia della natura riassunta in un paio di minuti che ti fanno venire voglia di prendere un aereo per bagnarti nelle acque di quelle cascate e respirare l’ossigeno degli alberi centenari islandesi. Altro che meta-verso, avatar e virtualità, verrebbe da dire e da pensare, se la virtualità in cui siamo immersi ci dessero il tempo per dire e per pensare.
Per ribadirlo con le parole della didascalia che accompagna il videomessaggio pubblicitario su YouTube, The Icelandverse is unlike any other open-world experience with “-verse” in the name, because it is real. L’Islandverse è diverso da ogni altra esperienza di open-world con “-verse” nel nome, perché è reale.
“In our open world experience everything is real“, precisa lo spot.
Insomma, ormai siamo oltre la fantascienza. La realtà cerca il suo spazio nel mondo extra-virtuale.
Qui si spera che lo trovi.
Anche perché, nel mentre, mi sembra molto vago il meta-coso e dal poco che si sa mi sembra tutto poco nuovo, ma molto spaventoso.
Rappresentazioni immaginarie della propria personalità, realtà aumentata, caschi, visori e occhiali VR, possibilità immersive del digitale…, tutta roba, in fondo, già vecchia; ma la pervasività, la capacità di incidere sulle nostre coscienze e la capillarità delle imprese di Mister Z. mi fanno presagire un futuro prossimo contactless e senza più odori, afrori e parole.
(Ma quanto è triste e solitario il crinale di questo finale!)