La Spagna, nella cabeza di un italiano, si associa automaticamente a fiesta, movida, dolcevita; e Madrid viene percepita di conseguenza come la capitale europea del divertimento e della gioia di vivere: bar aperti 24 ore su 24, discoteche di ogni tipo, uomini e donne disponibili che parlano una lingua che è facile capire. Era così quando ci sono venuto la prima volta oltre 20 anni fa ed è così anche ora che “la movida ha muerto“.
Per inciso, la movida propriamente detta fu un fenomeno di massa nato alla fine degli anni ’70 sotto la spinta della fine del franchismo ed il desiderio del cambiamento [ma senza troppe implicazioni politiche; per quelle c’erano i vecchi cantautori, amabili, detestabili, didascalici e barbosi come ad ogni latitudine (io, comunque, ne salverei senza indugi più di uno o due)]. I ragazzi bene di Madrid ormai conoscevano Londra e le droghe. Erano affascinati da tutto ciò che fosse poco raccomandabile. Proibito proibire. La promiscuità veniva sempre più percepita come normalità. “Everyone can be a hero, just for one day“.
Presto, i media cominciarono a interessarsi a loro e la capitale ad accoglierli come parte della sua storia, anche in opposizione a Barcellona, l’eterna rivale e città moderna per eccellenza. Era l’inizio della fine. Da un momento all’altro il fenomeno da marginale si generalizza, diventa moda, tutto il mondo conosce Almodóvar e lo apprezza, la movida si ufficializza e ufficializzandosi muore alla metà degli anni ’80.
Eppure mi pare di riconoscere un lascito di quegli anni nella vita diurna e notturna di questa capitale cosmopolita e nelle scelte di un governo che accoglie (e crea) il cambiamento e scandalizza i benpensanti di ogni razza o religione.
E possibile rendersene conto anche in estate, quando l’orda dei turisti riempie le discoteche e i tablao di pseudo-flamenco.
Io mi sono fatto perfino trascinare in una sovraffollata discoteca dalle parti di Puerta del Sol, al primo piano di un palazzo storico e con una scenografia da casa nobiliare del ‘700. Mioddio che calore faceva in quelle sale! Ma, naturalmente, mi sono sentito molto più a mio agio nel Café Jazz Populart, dalle parti di Plaza de Santa Ana, dove un pianista statunitense (tale Joshua Edelman) suonava con un trascinante gruppo cubano che pareva essere più in gamba (o più in serata) di lui. Oppure al Clamores (nel quartiere bene di Camberí, ma a pochi minuti da Malasaña – metro Bilbao), dove ho ascoltato la voce vellutata di Beatrice Binotti, accompagnata da due valenti chitarristi locali (che però suonavano troppe note negli accompagnamenti di bossa, un disturbo per chi ha formato il proprio orecchio sull’essenzialità di João Gilberto).
BB è una cantante madrilena di madre e padre italiani innamorata della bossa nova e del tropicalismo brasiliano. Quando sono arrivato, cantava “De noite na cama” di Caetano Veloso riecheggiando l’interpretazione di Marisa Monte, ed alla fine, nel bis, ha offerto un’intensa esecuzione del capolavoro di Antonio Carlos Jobim e Vinícius de Moraes “Eu sei que vou te amar”. In mezzo una bella versione di “Xote Das Meninas” (sempre di Marisa Monte) ed una serie di canzoni dal suo secondo cd intitolato “El Viaje”, un disco cantato in spagnolo (salvo una bonus track in italiano della canzone che dà il titolo al cd). Nelle sue canzoni originali, oltre al Brasile che era protagonista del suo primo lavoro, si sentono echi di latin jazz, tango e ninnananne popolari.
Qui a Madrid la definiscono l'”Astrud Gilberto española”. A me continua a ricordare di più MM (anche ora che ne sto ascoltando l’ultimo rilassante cd). Ve la consiglio, BB è meglio di tanta lounge music che fa tendenza nei quattro cantoni di questa meravigliosa palla di mondo in cui ci trasciniamo globalmente a livello locale, locale, locale assai.