L’anno sarà nuovo se sapremo rinnovarlo, se sapremo rinnovarci. Non si tratta di cambiare almanacco o segno zodiacale, si tratta di cambiare sistema, metodo e vita.
Ma al di là di tutto, trovo che sia bello illudersi che il prossimo anno possa essere migliore di quello passato e che possiamo lasciare i guai e le sofferenze fuori la porta, accartocciati nell’ultima pagina dello scorso calendario.
E provo a dirvelo anche in versione video con l’aiuto (alquanto estorto, in verità) di mia figlia, che resta una delle cose più belle dell’anno passato e dell’anno a venire. Per me. E già immagino che quando leggerà dirà: “Ma come UNA? Io sono LA cosa più bella…”.
L’umanità fragile e dolente di Michele Auletta in poche parole e qualche immagine
Al Palazzo Ducale di Sant’Arpino, la mostra “Sorvolare” di Michele Auletta ci conduce in un mondo fatto di fragilità, equilibri instabili e frammenti angelici.
Michele Auletta, artista poliedrico originario di Frattamaggiore, coniuga sensibilità e curiosità culturale nelle sue opere, che si manifestano come simboli e figure ancorate alla tradizione, ma guidate da una continua ricerca stilistica e sperimentazione sulla materia.
L’umanità emerge come protagonista, espressa attraverso la fragilità dei corpi e la precarietà dell’equilibrio. Visioni di angeli spezzati, privi di testa e arti, trasmettono una sensazione di caduta dall’alto, figli di Icaro sciolti dai raggi solari.
Nel confronto tra teste senza corpo, intente a scambiarsi baci impossibili, corpi senza testa e angeli dalle ali spezzate, emerge un dialogo visivo tra negazione, incompiutezza e precarietà. Le figure espressionistiche, i viaggi su barchette di carta e i corpi in equilibrio instabile o arrotolati su se stessi offrono una gamma di emozioni che avvolgono il visitatore, invitandolo a riflettere sulla complessità e sulla precarietà della condizione umana.
“Sorvolare” si rivela, così, non solo come un’indagine estetica, ma anche come uno sguardo profondo dentro l’animo umano, offrendo una prospettiva in cui la fragilità diventa la chiave di lettura di un mondo in perenne bilico. Residui di una spiritualità corrotta, fugace e infranta. Segni di un’umanità dolente in cerca di una trascendenza sofferta e irraggiungibile.
Michele con immagini di grande forza espressionistica ci offre un’esperienza che va al di là del mero osservare, invitandoci a immergerci nei misteri della sua visione artistica. Un invito che andrebbe accettato e percorso con animo libero.
Di Padre Mario Vergara, di mio nonno e di altri parenti vicini e lontani
Ieri, al trigesimo di zio Gigino, primo fratello di mio padre, ho fatto questa foto in una cappella laterale della Chiesa di San Sossio.
Rappresenta i beati Mario Vergara e Isidoro Ngei Ko Lat, considerati martiri dalla chiesa cattolica per essere stati trucidati in Birmania nei pressi del fiume Saluen nel 1950. La città di Frattamaggiore ha dedicato a Padre Mario Vergara la sua strada più lunga e una statua all’imbocco dell’asse mediano che collega la cittadina a Napoli, Caserta e zone limitrofe; mentre la mia famiglia si onora di avere in lui un quasi santo in paradiso.
Mario Vergara, nato a Frattamaggiore nel 1910, era cugino di mio nonno Carmine ed era molto legato a lui ed alla sua famiglia (cui, peraltro, chiedeva continuamente contributi finanziari per le sue missioni, visto anche che, da quanto ho capito, i suoi fratelli erano poco propensi a fargli sperperare la sua quota di eredità in illusioni missionarie e lotte contro tradizioni pagane e mulini a vento orientali).
La mamma di Mario, Maria Antonietta Guerra, aveva messo al mondo nove figli (di cui lui era il penultimo) e conduceva personalmente il canapificio di famiglia di cui era titolare il marito Gennaro Vergara, fratello maggiore del mio bisnonno Luigi (1880-1930). Ma, a quanto pare, né don Gennaro né don Luigi si occupavano personalmente della gestione delle loro imprese di trasformazione della canapa. Le donne a quei tempi lavoravano e come. Spesso erano nelle loro mani le redini della famiglia, mentre gli uomini (beati loro) inseguivano le cose della carne o dello spirito. Era lo stesso anche per la mia bisnonna, zia di Mario, di cui ho parlato più diffusamente qui.
Ma torniamo a Mario ed alla sua storia. La leggenda aurea narra che a soli 11 anni entrò nel seminario vescovile di Aversa, a 17 anni cominciò a frequentare il seminario regionale dei padri Gesuiti di Posillipo e a 23 fu ammesso al Noviziato del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere).
L’anno seguente, nel 1934, dopo un periodo di formazione a Genova, partì in missione per la Birmania che, all’epoca, era una colonia inglese e non si chiamava ancora Myanmar. Qui si occupò di evangelizzare decine di villaggi, occupandosi anche della povertà materiale di quelle terre e creando sanatori e orfanotrofi. Nel ’41, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, gli inglesi lo fecero internare in un campo di concentramento e lo deportarono in India. Solo nel ’46, a guerra finita, deperito e ammalato, dopo che gli venne anche asportato un rene, potette rientrare in Birmania e continuare la sua missione.
Nel 1948 la Birmania conquistò la sua indipendenza dall’Inghilterra, ma il territorio era ancora terreno di scontro tra le molteplici etnie che componevano il Paese. Continue rappresaglie e scontri armati tra ribelli di diverse ideologie e credenze dilaniavano la Birmania. Lo Stato rispondeva con feroci repressioni, mentre cattolici e protestanti cercavano di continuare la loro azione di proselitismo nelle zone più povere e degradate del Paese. In questo contesto confuso e cruento, il 24 maggio del 1950 Mario venne ammazzato insieme con il suo catechista Isidoro Ngei, primo beato della chiesa cattolica di origine birmana.
Stamattina ho riletto per l’ennesima volta le lettere che Padre Mario Vergara ha scritto a mio nonno dal 1929 al 1948 (e che negli anni ’80 zio Gennaro ha trascritto e diffuso in famiglia con il mio modesto contributo). Oltre al profondo affetto che li legava, viene fuori lo spessore umano del beato frattese, un religioso forte e coraggioso, mai disposto a cedere ai soprusi da qualsiasi parte provenissero: la famiglia, la chiesa, gli inglesi che dominavano la Birmania nei suoi primi anni di missione, gli oppressori di turno che esercitavano il loro potere ed elevano le tasse delle fasce più deboli della popolazione. Ma Padre Mario si mostra anche come un uomo dotato di una certa ironia.
“Toungoo 22-7-935 Carissimo Carmine, alias “povero figlio”. Mi congratulo prima di tutto con te che ora ti sei laureato in Imbroglioneria, cioè in Legge. Almeno di tanti di razza Vergara ci sei tu che puoi ostentare una scartoffia legale. Bravo, ti dò un bacio di tutto cuore senza pungerti con la barba! Spero che ti sia già rimesso in salute e non solo in salute fisica ma soprattutto in salute morale. Mi fa tanto male pensare ad un cugino del mio cuore, freddo nell’amore verso Dio. Caro Carmine, ricordalo sempre, che per conoscere Dio Bisogna prima amarlo. Con Dio il processo va tutto all’opposto che per l’amore delle cose create: per queste infatti bisogna prima conoscerle e poi amarle; per Dio, invece, bisogna prima amarlo e poi conoscerlo.”
E poi, qualche mese dopo, il 22 settembre del 1935, solo una decina di giorni prima che l’Italia di Mussolini dichiarasse guerra all’Etiopia:
“Qui i giornali inglesi si sfogano a loro bell’agio contro l’Italia e sono articoli spassosissimi. Ti accludo una riuscita vignetta dove due soldati italiani armati a tutto punto e su un carro armato, gridano l’allarme contro un povero abissino il quale ha solo una piccola lancia ed è tutto spaventato. Per dire che l’Italia da assalitrice pretende passare per assalita.”
Peccato che la vignetta satirica inglese sia andata persa.
Poi, però, un paio di mesi dopo (il 10 novembre dello stesso anno) preoccupato della concorrenza di fede dei missionari protestanti inglesi avrebbe scritto al cugino:
“L’orizzonte si fa scuro; i giornali Inglesi vomitano ingiurie su ingiurie contro l’Italia, ed i Protestanti aspettano il momento in cui l’Inghilterra dichiari guerra all’Italia per vederci discacciati di qui e così invadere il nostro gregge. Quod Deus avertat! [Che Dio ce ne scampi!]”
Leggendo questo carteggio, ho notato anche come crescesse in lui la fede e perfino la serenità, man mano che aumentavano le difficoltà pratiche legate alla sua evangelizzazione.
Il 15 marzo del ’47 scriveva, per esempio:
“Io ho bisogno estremo di denaro e di tanto denaro, perché sono stato mandato ad aprire un nuovo centro di evangelizzazione come te ne ho già scritto – e mi manca tutto, tutto tutto. Non parlo della mia casa, perché posso continuare a vivere per anni in una capanna di bambù e nutrirmi di solo riso e sale; ma io devo convertire la gente e perciò mi servono tanti maestri – catechisti, medicine ecc., e senza denaro io non posso fare niente. Per adesso ho già 4 villaggi che si sono convertiti, ma ce ne sono ancora centinaia di villaggi su questi alti monti affidati alle mie cure. Ed io con solo 4 villaggi sono già in debiti. Se vuoi mandarmi qualche offerta rivolgiti a D. Marco. Attualmente io sto bene, tranne, si capisce, attacchi periodici di malaria.”
Ma insieme alla fede, mi pare che vada formandosi anche una coscienza anticolonialista:
“In quanto poi all’Augurio di convertire tutta l’India, ho due cose da notare: I. la mia terra si chiama Birmania e non India, e questo perché essendomi ormai indigenezzato (nel significato tecnico, cioè diventare come un nativo), mi sono imbevuto del sentimento patriottico dei birmani i quali hanno chiesto ed ormai ottenuto la separazione politica ed economica dall’India di cui prima la Birmania era considerata quasi Provincia. II. Non ho convertito nessuno ancora perché non ancora è venuto il mio tempo.” (3 aprile 1935)
Non mancano pagine interessanti sulla difficoltà di imparare in modo rapido l’inglese e almeno altre tre lingue tra le tante parlate in Birmania. Necessario essere poliglotti per portare agli indigeni la parola di Cristo.
Infine, viene fuori con tutta la sua forza l’affetto familiare. Questa, per esempio, è la parte finale di una lunga lettera natalizia del 1933.
“Non perdere mai il sapore dei baci della tua buona mamma, ma per questo si richiede appunto che tu ti conserva fanciullo di animo (non di intelligenza). Conclusione? Cerca di santificare nel miglior modo questo S. Natale accostandoti con amore di fanciullo al Sacramento della Penitenza e dell’Amore, e ricordandoti di me, mi raccomanderai al Signore. Auguri di ogni bene alla cara nonna, che il Signore ci conservi ancora per tanti anni; alla Mamma perché il Signore le dia forza sufficiente per dirigere l’azienda e… te.” (19 dicembre 1933)
Scritte da un figlio che aveva scelto di allontanarsi da sua madre, dai suoi fratelli e dalla sua terra di origine.
Qualcosa di più di un santino tutto dedito al vangelo e alla sua diffusione tra gli infedeli dell’Oriente Estremo.
In questi giorni in cui ci scambiamo desideri di pace e serenità in un’orgia di colori e benessere diretta dal dio Mercato, ogni tanto il pensiero inciampa in una delle tante zone in cui la pace non c’è e tuonano le bombe. Territori che non conoscono più notti silenti e giornate bianche. Terre in cui impera la violenza delle bombe e la paura della morte che qualche volta si fa desiderio. In uno di questi inciampi del tempo i Tproject hanno realizzato questo video per la Palestina che suona come un grido di dolore per lo scandalo disumano-troppo-umamo di tutte le guerre. Con le immagini che si integrano con il ritmo ed il canto in un atto di denuncia e di invocazione dello spirito.
Pasquale Marchese alle percussioni e alla voce e Gino Frattasio al basso e alle manopole e ai tasti digitali, con pochi mezzi, prendendo immagini e suoni dalla rete, hanno realizzato questo salmo senza parole in cui le percussioni simulano il rumore della guerra con le sue pause improvvise e le altrettanto improvvise riprese, mentre il canto è la voce di un’anima dolente che, nella parte finale, quando cessano gli scoppi sulle pelli delle percussioni e solo un battito metallico segna il tempo, si trasforma in una preghiera in cui mi sembra aleggiare un tremito di speranza.
La speranza di un mondo senza più il dolore, la distruzione e il sangue delle guerre.
Sono stati tre giorni rilassanti e intensi che ho dedicato a creare il Natale intorno a me per le persone cui voglio bene, soprattutto per mia figlia e per mia madre. Non importa se ci credi o no. Quando si è adulti bisogna farsi portatori dello spirito natalizio e trovare piacere nel donare e nel darsi. Mi vieja è convalescente dopo una frattura al femore, ma in decisa via di ripresa, così l’ho sostituita io ai fornelli.
Tre giorni tra pizze, casatielli, scarole, fritture, vongole, taratufi, calamari, insalate, insalatone, insalate di rinforzo, insalate Olivier (che un tempo chiamavamo russe), polpette, polpettine, brodi di carne, carne in brodo, tagliolini, braciole (in italiano: involtini) e lasagne. Ho cercare di fare tutto secondo tradizione familiare nei modi e nei tempi in cui lo faceva lei. Non è stato facilissimo, ma mi sono pure divertito e qualche volta perfino rilassato.
Mo mi sento come il babbo natale di questa illustrazione del grande Saul Steinberg che ho restaurato digitalmente con le mie mani da una foto incompleta e sfocata che ho trovato in rete. A pancia all’aria. Spero che vi piaccia.
Ho trovato questo mio calligramma di 8 anni fa, collegato alla arcinota notizia secondo la quale l’icona moderna di un signore gioioso e barbuto vestito di rosso e bianco si è consolidata attraverso una campagna pubblicitaria della Coca Cola risalente agli inizi degli anni ’30. Alla fine del calligramma (che sembra l’inizio) si giocava già (perversa-mente) con l’ambiguità semantica della parola coca.
*
Ma oggi ho voluto rendere più chiaro il legame tra le feste e gli abusi (di cui ho parlato anche qua qualche giorno fa) con questo rimaneggiamento che visto dal basso verso l’alto fa così:
¡Esperamos que tengáis unas fiestas escalofriantes y un año tremendo!
I nostri migliori auguri di feste da brivido e di un anno tremendamente bello.
Ve li facciamo Stefania e io attraverso questo video fatto di scorci e di immagini sghembe realizzate in fretta e furia senza troppi ritocchi e abbellimenti. Riprese e scatti sinceri e un po’ giocosi in cui non si nascondono nei, brufoli, canizie, calvizie, asimmetrie e altre brutture (mie, soprattutto, of course). E, tra una sequenza e l’altra, qualche disegnino creato per l’occasione.
Scherzi a parte, tante cose belle a tutti e soprattutto a chi ne ha più bisogno e necessità!
Gli auguri continuano qui per quelli che, come me, sono appassionati di fogli elettronici. Ma anche per gli altri, basta cliccare su questo link aspettare che il file si apra in Google Fogli, scrivere il proprio nome e cognome nella cella A2, cliccare su INVIO e vedere l’effetto che fa.
Sulla diffusione infestante e pervasiva della cocaina e dei suoi derivati
Erigiamo ogni giorno muri e steccati tra noi e il mondo, ma le sostanze stupefacenti continuano a scorrere fluidamente dappertutto, senza confini, limiti e ripensamenti; come un flusso di diarrea inarrestabile pronto a inondare le nostre città e salire su su fino alla gola per sommergerci nel suo fetido squallore.
Come ogni anno, durante queste vacanze ci saranno dei picchi di consumo per soddisfare una clientela spaventata dal vuoto e in cerca di qualche botta di piacere; una scossa che dia un senso al grigiore che persiste sotto le luci colorate e le pubblicità di spumanti e panettoni. Cocaina e derivati inonderanno il mercato con il loro carico di danni e tragedie quotidiane, attraversando trasversalmente classi sociali, generi, generazioni e gruppi etnici. In questo senso, diventa sempre più democratica ed ecumenica, la bamba, e si trasforma a secondo delle esigenze del mercato e del consumatore (che, sia detto per inciso, è il cliente ideale del mercato capitalistico: un consumatore alla perenne e crescente ricerca del prodotto, verso il quale basta fare rudimentali campagne di marketing perché subito si fidelizzi e ti venga costantemente a cercare senza troppo impegno da parte del produttore, del grossista e del dettagliante di zona).
E non si tratta nemmeno solo di quello che è qua sotto i nostri occhi, ad ogni angolo di strada e sulle nostre spalle.
Il problema ha una portata vasta e planetaria.
Ogni chilo di coca porta al disboscamento di centinaia di ettari di foresta colombiana; ogni raccolto inquina interi bacini di falde acquifere per l’uso indiscriminato di solventi e pesticidi necessari per la raffinazione. Una tremenda spirale viziosa, visto che poi buona parte del denaro proveniente dai traffici illeciti viene reinvestito in zone via via più ampie di foresta tropicale trasformate in distese di coca che annullano la biodiversità di interi paesi del Centro America.*
Ogni partita importata in Italia è bagnata col sangue dei cartelli colombiani, dei corrieri brasiliani e venezuelani, dei criminali nostrani, delle forze dell’ordine e di chi si trovava per caso a passare in mezzo ai fuochi. E quando la polvere arriva a destinazione, comincia la trafila dello spaccio all’ingrosso e al dettaglio col suo ulteriore carico di violenza, sofferenze e delitti (mentre le palline di sostanza passano dal buco del culo di un brasiliano al buco del culo di un nigeriano prima di finire nel naso di un avvocato milanese igienista e xenofobo)**.
Ogni grammo toglie ai consumatori (ed alle loro sfortunate famiglie) dai 50 ai 90 euro; ma ci sono anche piazze in cui la cocaina può arrivare a più di 100 euro al grammo, come pure centri di spaccio in cui si vendono a ragazzini e adulti con meno disponibilità microdosi o roba più economica tagliata malissimo con sverminatori, lassativi, olio per motori, anfetamine e altre sostanze di basso valore di mercato. Per non parlare della diffusione crescente di crack, shaboo e altre diavolerie a basso prezzo ed alta resa capaci di provocare estrema dipendenza e scatenare enormi danni collaterali di carattere fisico o psichico. Perché negli anni si creano nuove tendenze, cambiano le modalità di consumo delle sostanze e si impongono nuovi prodotti sul mercato, mentre ad ogni acquisto si rafforza il sistema criminale rendendolo più prepotente, radicato e diffuso.
Ogni partita di coca consolida il sistema tossico.
Ogni striscia rende i consumatori più soli e lontani dal mondo dei propri affetti.
Ogni sniffata aumenta il tasso di aggressività, violenza e delinquenza delle nostre città.
Giorno per giorno, ci stiamo tirando il pianeta su per il naso e ci stiamo rendendo più deboli e più proni. Milioni di persone intossicate e perse nella polvere.
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Quello che avete appena letto, è un adattamento di questo mio testo di sei anni fa.
Perché certe cose, purtroppo, non cambiano o cambiano poco. E se cambiano, peggiorano, si intricano e diventano più persistenti. Como il loglio, la zizzania e la mala erba.
* Coltivare coca conviene ai latifondisti e ai grandi narcotrafficanti che ne ricavano benefici a breve termine, ma le comunità locali soffrono gli impatti negativi a lungo termine di un territorio in cui viene annullata tutta una varietà di specie vegetali e animali, che costituivano il loro patrimonio ambientale e il loro habitat naturale.
** Laddove dice “un avvocato di Milano” puoi leggere anche un “camorrista di Miano” o “un chirurgo di Marano” o “una nobildonna di Merano“, oppure pure “una studentessa di Murano” o “un camionista di Mugnano” o “un artigiano di Mondragone, di Montefalcone o di Melpignano“, considerato che, come ho già detto e scritto, la coca, oltre a oltrepassare le frontiere, attraversa tutte le barriere sociali e generazionali, pur se con le sue belle differenze qualitative, quantitative e di modalità di consumo.
(ma un orgoglio piccolo piccolo perché quello grande è un orgoglione)
non mi appassionano inni e bandiere aborrisco eserciti flotte nazionali e combriccole di circolo quartiere o città
l’italiano è la mia patria e il napoletano la lingua madre che mi ha dato latte natali e ragù
e doppe ca ‘e magnate / che cacchio vuo’ cchiù?
…
E lo so che i colori della foto fanno pensare più alla bandiera dell’Irlanda che a quella italiana. Giustamente me l’hanno detto in tanti che avrei dovuto sostituire le carote con le pummarole o i rafanelli (rossi fuori e bianchi dentro). Ma il soffritto in cui si fa rosolare la carne del ragù della domenica è così che si fa.
Le esigenze della gastronomia vengono prima di quelle dei colori degli stracci colorati che chiamiamo bandiere.
Dubbi in lingua materna ai tempi del patriarcato rivisitato (ovvero pensieri generativi di sciocchezze e memorie sghembe nati mentre mi chiedevo se potevo spingere un carrozzino fronte madre e se avessimo anche una lingua paterna oltre a una lingua materna)
Se Dante è il padre della lingua italiana, la madre, chi è? E se la natura è nostra madre, chi è il padre che l’ha ingravidata?
Gaia e Pachamama crearono la terra per partenogenesi oppure ricevettero il contributo e il seme di – rispettivamente – Urano (che era pure suo figlio) e di Pachakamaq (che secondo alcune leggende inca è figlio e secondo altre padre del Sole)?
Infine, se siamo tutti figli di Dio, lui ci ha fatti da solo oppure, oltre la madonna, ci sono in giro altre vergini sante che hanno partorito me e i miei miliardi di fratelli?
Ah, sì, da vaghi ricordi dei tempi del catechismo rammento che Eva è venuta dopo il primo uomo, da una sua costola; essendo Adamo stato creato da Dio in solitudine e senza dolo né dolore.
Minerva, invece, nacque dalla testa di Giove spaccata da suo fratello Vulcano con un martellone per fargli passare il mal di testa; ma una madre certa ce l’aveva: tale Meti, figlia di Teti e di Oceano, inghiottita nove mesi prima dal padre degli dei, che era stato suo amante in una delle sue frequenti scappatelle dal talamo di Giunone.