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Su quella sedia, col corpo magro riverso sul tavolo, ti ho visto più vivo e vitale di quanto sembrassi ai miei occhi negli ultimi due o tre anni in cui ti sei trascinato in vita con scarsa convizione che potesse valerne la pena. D’un tratto, parevano aver ripreso possesso di sé anche le gambe, mentre la faccia, sotto quel rivolo di sangue che scorreva dalle tempie al pavimento, sembrava appagata e distesa.
Non mi sono meravigliato nemmeno per un momento quando ho saputo che ti eri sparato.
Secondo dati statistici che mi paiono piuttosto attendibili, la Campania è la regione d’Italia con il più basso numero di suicidi; ma tu eri sempre stato di un’altra parte. Quelli come te navigano ostinatamente controvento, fregandosene dell’alta marea, delle onde lunghe e delle critiche e dei dissensi della gente. E alla fine ci lasciano senza pentimenti estremi e parole di consolazione, quelli come te, e noi restiamo lì a piangervi e pensare che sarebbe stato bello passare più tempo insieme davanti a un altro bicchiere o solo chiacchierando di gesti estremi e tavoli di poker in cui un patrimonio vale il sussulto di un’autentica emozione.
Molti mi stanno chiedendo se eri depresso. Ma tu no, non eri depresso; tu eri te stesso, fino in fondo, e fino in fondo eri e sei stato padrone di te e di quello che restava della tua vita. Non potevi rimanere ingabbiato in quel corpo stanco e nel ruolo scialbo del malato paziente. Non era da te aspettare in silenzio o rimetterti a volontà esterne o mani divine.
Appena ho distolto lo sguardo da quella sedia su cui giacevi disteso, mi è venuto in mente di quando da bambino allevavi in soffitta pipistrelli e colombi.
Un giorno ti trovarono al suolo con una gamba rotta. Ti eri lanciato dal secondo piano.
– Quello stronzo del colombo non ha aperto le ali – dicesti.
Oggi hai fatto un altro salto nel vuoto. Ma questa volta sei stato tu ad addestrarli perché non le aprissero, le ali. Questa volta l’obiettivo era schiantarsi al suolo e farla finita, visto che non valeva più la pena, la vita.
Questo mi va di dirti, ora, e ricordare che, quando ti ho visto accasciato su quel tavolo, col sangue che scorreva dalle tempie al pavimento, ho pensato che forse per un attimo eri riuscito a volare con le tue proprie ali. Anche per questo mi è parso di vederti più vivo di quanto sembrassi negli ultimi due o tre anni, ed ho trovato qualche oncia di consolazione in questo mio pensarti così, come un’anima in volo libera dagli ingombri e gli impacci di un corpo stanco e malato che non riconoscevi tuo, per quanti sforzi facessimo per darti insulse pacche sulle spalle e segni di incoraggiamento a continuare. Per arrivare dove, non so…