Sono stati otto giorni otto tutti dedicati ai suoni, alle armonie e ai ritmi. Una settimana in cui anche le parole più importanti sono passate per le canzoni. E ora vorrei provare a tesserne una rapsodia fatta di ricordi ed emozioni, una suite sulle cose che mi sono passate per le orecchie, per la testa e per quei territori intangibili che chiamiamo cuore, anima o sensazioni. (In verità, è tutta una vita che la musica ha uno ruolo fondamentale nella mia esistenza; tutta una vita che provo a suonare decine di strumenti diversi fermandomi alle soglie della tecnica di base, per acquisire i rudimenti che mi permettono di capire meglio i concerti cui assisto e le migliaia di vinili, cassette e cd che ho comprato, ascoltato, consumato o sentito appena.)
La mia strippata musicale è cominciata lo scorso fine settimana in un modo per me poco canonico: un dj-set in uno spazio suggestivo al centro di Napoli: il Museo Madre: l’antico Palazzo Donnaregina ristrutturato sapientemente da Alvaro Siza per trasformarlo in centro espositivo dedicato all’arte contemporanea. Ci sono andato volentieri anche perché mi è parsa da subito una bella idea questa di cambiare settimanalmente la destinazione d’uso di questo spazio e farne un’enorme discoteca con pannelli appesi alle volute dell’alto soffitto del cortile su cui si proiettano suggestive diapositive. Un po’ meno suggestiva la musica, ma tant’è. Ho provato persino a rimettere in moto gli arti inferiori al ritmo di Bestie Boys, Daft Punk e Figli delle Stelle (pare che anche oggi, come ieri e l’altroieri, aleggi uno spirito da revival che fa contenti vecchi e giovani). Certo mi è sembrato una strana ironia della sorte non andarci con chi è un anno che cercava di farsi portare a ballare, e nemmeno seguire nella milonga chi vorrebbe trasmettere l’insana passione del tango ballato a me, che il tango lo parlo da una vita, ma non lo ho mai danzato e troverei impudica perfino l’intenzione di buttarsi nella mischia danzereccia.
Un paio di giorni dopo ero all’auditorium Bianca D’Aponte di Aversa per sentire il duo jazz formato dalla pianista newyorkese Peggy Stern e dal sassofonista napoletano Giulio Martino. Il loro è un repertorio piacevole composto per lo più da brani originali, salvo uno standard (I wish I Knew), una bossanova firmata Jobim e un gustoso Bésame mucho strappapplausi spietatamente inferto a mo’ di bis al mio cuore che in questi giorni è fin troppo sensibile a certe note romantiche che gridano dentro como si fuera esta noche la última vez. In ogni caso, quella di Stern-Martino è una proposta “post-cool”, lirica, ben suonata, e anche divertente negli echi latini di cumbie, boleri, ritmi cubani e melodie brasiliane. La Stern è una pianista dal gesto molto “economico”, ma efficace. Martino ha un suono denso e pastoso con un soffiato avvolgente e note basse che ti prendono allo stomaco. Da un punto di vista compositivo, ho trovato particolarmente suggestive una ballad della pianista intitolata Thomas e la cumbia colombiana con cui si è aperta l’esibizione.
L’indomani, me ne sono andato al Canto Libre a sentire le Divagazioni a tema unico su Luigi Tenco messe in scena da Alessio Arena che prestava per lo spettacolo la sua voce sia in vivo, per le canzoni, che su un nastro registrato con brani di Cesare Pavese recitati da lui e dalla sua nonna (brillante trovata, questa, che ci ha permesso di ascoltare una bella voce popolare, spontanea e autentica impegnata a interpretare con spiccato accento napoletano brani dolenti e struggenti tratti dai diari di un altro intellettuale morto suicida, e così stemperare la carica retorica della scelta Tenco+Pavese). Con Alessio Arena, sul palco, un quartetto di giovani musicisti che rileggevano il repertorio del cantautore genovese in chiave jazzistica (anche se lasciando poco o nessuno spazio all’improvvisazione), mentre alle loro spalle si assisteva ad un’installazione video. Alessio ha una voce intonatissima che sembra sempre sul punto di spezzarsi; come il Roberto Murolo degli anni migliori, come il Chet Baker di sempre; quasi una voce bianca, si direbbe. Beh, che altro dire, gli arrangiamenti erano gradevoli, il repertorio bellissimo, i diversi media ben integrati, e io, su Vedrai Vedrai e Un giorno dopo l’altro, mi sono commosso alle lacrime.
Il resto della settimana è scorso tra acquisti di cd e spartiti, chiacchiere musicali e non, discussioni musicologiche in rete e miei ignobili arrangiamenti di standard e brani, per così dire, originali; poi ieri è stato il giorno del concerto al Penguin Café di Stefania Tallini; un concerto attesissimo da tutto un gruppo di amici di Napoli e zone collegate che sono (siamo) sul punto di fondare un Tallini’s Neapolitan Fan Club di cui HanginRock sarà Presidente Onorario e io portavoce ufficiale.
E così…, anche se magari qualcuno degli altri astanti era lì solo per mangiare…, anche se quello non era il pianoforte a coda del Quirinale, dove Stefania si era esibita lo scorso 30 marzo…, anche se, prima del concerto, ci aveva detto di essere piuttosto stanca, perché sta lavorando molto (e meno male)…, quando ha cominciato a mettere le mani sulla tastiera, la musica ha catturato tutta la sala e da tavolo a tavolo si è diffuso un silenzio pieno di suoni buoni. Ancora una volta, la Tallini ha messo fuori tutta la sua energia e voglia di comunicare emozioni; e ci ha emozionato.
[Nell’intervallo tra un tempo e l’altro del concerto, mi è venuto da pensare all’apertura verso musiche non inquadrabili direttamente nella tradizione jazz come ad un filo rosso che accomuna Stefania, Peggy Stern ad altre pianiste arrangiatrici compositrici (Carla Bley, Maria Schneider, Rita Marcotulli, Hiromi Uehara…), tutte legate da un interesse niente affatto episodico verso i ritmi latini, la musica brasiliana, le canzoni e le danze flocloristiche e popolari… Uno spunto da approfonfire, o contraddire qui o altrove.]
La scaletta di ieri era più o meno quella in piano solo del concerto alla Feltrinelli di cui ho già parlato su queste pagine, ma con l’aggiunta di una Tarantella composta nel 2001 e dedicata al pubblico napoletano. Grazie. Di cuore.
E meno male che la musica c’è.
aggiornamento musicale domenicale
Sono reduce da un altro concerto e ve lo voglio dire (e un po’ farvelo sentire con le orecchie dell’immaginazione). All’auditorium D’Aponte c’era il “Maciste Trio” formato da Fausto Mesolella (alle chitarre), Vittorio Remino (al basso) e Mimì Ciaramella (alla batteria ed alle percussioni). Suonavano musiche originali mentre su uno schermo si proiettava senza sonoro l’adorabile polpettone di Corbucci/Gentilomo “Maciste contro il Vampiro”.
Forse una paio di ore erano troppe per il pubblico medio; alla lunga la sonorizzazione ininterrotta può stancare; anche perché è strano andare a “vedere” un concerto dal vivo e perdersi la fisicità dei musicisti che suonano di spalle al pubblico per poter guardare le scene del film. Tuttavia, io che faccio parte della categoria pubblico scafato, mi sono moderatamente divertito ed ho ammirato il sapiente uso delle dinamiche da parte del trio, i crescendo, i pianissimo, le citazioni che andavano dal Ballo del qua qua alla colonna sonora di Betty Blue, le distorsioni usate a scopo effettistico, le variazioni ritmiche dal reggae al bolero, le atmosfere esotiche fondate su scale arabe e spagnole e, soprattutto, la voglia di giocare con un film così fantasmagorico, eccessivo, fumettistico e surreale intersecando i propri suoni ed effetti speciali alla concitazione delle scene di lotta ed al sentimentalismo degli incontri d’amor.
Nella chitarra di Mesolella risuonavano echi di Ry Cooder, Jimi Hendrix e Marc Ribot. Sua figlia di 8 o 9 anni, guest star, sbadigliava vistosamente e ogni tanto biascicava note da un pocket flugelhorn (l’effetto era il più delle volte anche a tono con la musica, ma sospendo il giudizio sulla scelta circense di tenerla lì sul palco). Mimì Ciaramella era così espressivo da ricordarmi il grande Joey Baron. Vittorio Remino tirava fuori dal basso tutta la sua vasta gamma di potenzialità espressive, ritmiche e melodiche.
E meno male che la musica c’era pure stasera.